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Inchieste

Emergenza alluvioni: a 35 anni dall'alluvione di Firenze, l'Italia è ancora un paese a rischio

Ripristinare tutta quella sapienza antica fatta di cura delle foreste, di non occupazione degli argini fluviali, di riparazione dei pendii, di rinaturalizzazione dei corsi d'acqua. Ecco le soluzioni che permetteranno il controllo degli eventi alluvionali in futuro, che secondo gli esperti, sono destinati ad aumentare.

Una persona con l'ombrello percorre una strada invasa dalle acque. Immagine RAI

Il rischio naturale legato alle catastrofi idrogeologiche è in Italia un problema di grande rilevanza, sia per i danni prodotti, sia per il numero di vittime. Le vittime stimate in questo secolo ammontano a oltre 43 mila unità. Per quanto riguarda il costo per la finanza pubblica, si può citare come esempio il caso dell'alluvione del 1994 verificatasi ad Alessandria, a seguito della quale, per la sola ricostruzione e ripresa delle attività produttive, sono stati destinati 15 mila miliardi. Insomma, una legge finanziaria di entità media. Le parole con le quali si apre il paragrafo dedicato al dissesto idrogeologico della Relazione sullo stato dell'ambiente in Italia 2001 sono ben chiare. L'Italia è uno dei paesi al mondo a maggior rischio di alluvioni (così come di frane e di altri eventi). È una conseguenza della prevalente natura del suo territorio, a carattere montuoso, con strette valli che solo di rado si aprono e distendono in ampie vallate.

La cronaca è fitta, fittissima di episodi. Il 22 ottobre 1951 un'alluvione colpisce la Calabria meridionale, causando un centinaio di vittime. Non passa neanche un mese, e il disastro si ripete: il 14 novembre dello stesso anno, infatti, il Po rompe gli argini e allaga due terzi della provincia di Rovigo, nel Polesine, provocando 89 morti. Ma è solo un anno preso a caso. Vediamo più di recente. Il 18 luglio 1987, dopo tre giorni di pioggia, l'Adda travolge sessanta comuni, mentre Morignone e S. Antonio vengono cancellati dalla frana del monte Coppetto: circa 1500 i senzatetto, 53 i morti. Nel novembre del 1994 l'inondazione di alcune aree del Piemonte causa 70 vittime. Il 5 maggio 1997, invece, una frana con relativa alluvione si verifica in Campania coinvolgendo i paesi di Sarno e Quindici, nuovamente a rischio nel corso del 2001. Nel 2000, imponenti inondazioni colpiscono la Pianura Padana e poi, a distanza di alcuni giorni, la Toscana.

Si potrebbe continuare ancora: novembre 1968, 72 morti tra Biella e Asti. Genova, 1970, le vittime sono 25. Ma l'alluvione simbolo è quella del 4 novembre 1966, quando, poco dopo le 5 del mattino, le acque dell'Arno invadono la città di Firenze provocando 35 vittime, devastando palazzi, chiese, opere d'arte del capoluogo toscano. Una catastrofe che provoca la mobilitazione internazionale, mentre sott'acqua finiscono anche il Polesine e Venezia, a testimoniare ulteriormente la fragilità italiana. Alcuni anni fa, d'altra parte, una ricerca condotta dal Servizio geologico nazionale era giunta alla conclusione che, soltanto nel dopoguerra, più della metà degli 8 mila comuni italiani sono stati colpiti da avversità di tipo idrogeologico. E ancora oggi, nella sua relazione, il ministero dell'Ambiente valuta in 1173 (il 14,5 per cento del totale) il numero di comuni a rischio idrogeologico molto elevato. Tra questi, naturalmente, l'area di Longarone, il paese quasi interamente cancellato il 9 ottobre 1963 dall'acqua esondata dal bacino del Vajont a causa di una frana (1800 morti), e i comuni di Stava e Prestavel inghiottiti insieme a 360 persone il 19 luglio 1985 per il cedimento di una diga in Val di Fiemme.

Le alluvioni, e le frane, sono fenomeni naturali, ovviamente. Ma i danni provocati sono invece una funzione dell'occupazione del territorio da parte umana. Così, già nell'antica Roma si progettava di imbrigliare il Tevere che periodicamente allagava la città caput mundi. E la stessa idea attraversa negli anni la mente dei popoli che hanno abitato la Pianura Padana, sicuramente nel 1331 quando il Po, straripando, fece centomila morti. E nel 1512 allorché il Piave allagò interamente Treviso, furono promulgate leggi severissime per tutelare il sovrastante bosco del Montello. Tuttavia, è con la progr'essiva industrializzazione e la crescita demografica che si verificano i danni maggiori: la richiesta sempre maggiore di terreno e di energia, infatti, aumenta la deforestazione e produce un'occupazione senza precedenti delle aree adiacenti ai fiumi. Così, quando questi ultimi straripano, raccogliendo tutta l'acqua non trattenuta da colline e pendii sempre più spogli, il rimedio è uno solo: erigere argini sempre più alti intorno all'alveo di magra, bloccando la capacità di espandersi dei corsi d'acqua. Il "respiro" dei fiumi, la loro capacità di allargarsi e restringersi a seconda della portata d'acqua, viene bruscamente impedito. Ma le briglie non sono mai complete: il sogno di controllare la natura, si tramuta così in un incubo.

La fragilità idrogeologica italiana non è solo "naturale", quindi, ma anche la conseguenza della dissennata gestione del territorio: la deviazione del corso dei fiumi, la costruzione di dighe, la cementificazione degli argini, la deforestazione, l'estendersi delle aree soggette a una coltivazione intensiva creano le condizioni per un aumento dei rischi connessi al verificarsi di alluvioni e di altre perturbazioni drammatiche del clima. La maggior parte dei corsi d'acqua della Penisola, d'altra parte, si getta da duemila metri di quota per scendere in pianura nel giro di pochi chilometri. E quello che in termini tecnici viene definito "fiume torrentizio": lo sono il Po, il Tevere, il Bormida, in parte anche l'Arno. I torrenti che nascono alle spalle di Genova, città tra le più colpite dalle inondazioni, in bassa stagione non sono altro che rii semiasciutti. Ma basta un temporale a monte perché nel giro di sette-ore ore questi minuscoli corsi si trasformino in fiumi arrabbiati, capaci di travolgere tutto quello che incontrano. E se quello che trovano sulla propria strada sono case, strade o - come nel capoluogo ligure - coperture in asfalto che costringono l'acqua a passare sotto la città, c'è il caso che questi manufatti vengano distrutti con miliardi di danni e, spesso, vittime umane.

Se le previsioni relative ai cambiamenti climatici sono vere, in futuro l'Italia subirà un aumento di fenomeni estremi come precipitazioni intense alternate a prolungate siccità: un quadro ideale per il verificarsi di alluvioni disastrose. Un terreno secco, infatti, perde la capacità di assorbire acqua. Così, quando arriva la pioggia questa - scarsamente ostacolata da un territorio che ha sempre meno alberi e sempre più cemento - scende velocemente dai pendii verso l'alveo del fiume, ingrossandolo molto rapidamente. Se le sponde e il letto del corso d'acqua, poi, non sono naturali ma di cemento, l'ondata di piena si abbatte a valle con velocità senza precedenti, lasciando poco tempo diponibile per avvertire la popolazione e organizzare le difese. Ecco perché gli esperti sono concordi: per attenuare le conseguenze di questi eventi, oltre a un efficace sistema di allerta, è necessario ripristinare tutta quella sapienza antica fatta di cura delle foreste, di non occupazione degli argini fluviali, di riparazione dei pendii, di rinaturalizzazione dei corsi d'acqua. Non serve alzare gli argini, ma lasciare respirare i fiumi…

(12 marzo 2001)


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