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Diritti

L'intervista
3 - L'immigrazione, l'Occidente e i diritti. Intervista a Umberto Melotti

I diritti liberali di fronte alla società multietnica.

Ci sono aspetti rilevanti che distinguono la legislazione negli Stati Uniti in fatto di immigrazione dalla legislazione prevalente in Europa?

Il diritto di cittadinanza negli Stati Uniti. La differenza più rilevante è indubbiamente lo jus loci, che negli Stati Uniti assicura la cittadinanza del Paese a chiunque vi nasca (è ben noto che molte donne messicane incinte tentano di entrare anche illegalmente negli Stati Uniti, perché, se nasce lì, il figlio acquista automaticamente la cittadinanza statunitense e loro possono restarvi senza problemi come parenti di un cittadino e poi farsi raggiungere da tutta la famiglia).

Nessun Paese europeo ha una simile legislazione (che è propria dei Paesi sorti dall'immigrazione: gli Stati Uniti si definiscono a nation of immigrants), anche se la Francia (in cui l'immigrazione è antica e ha assolto anche un'importante funzione demografica) riconosce lo jus loci molto più ampiamente che gli altri Paesi europei.

La cittadinanza è ancora legata, nell'immaginazione, a un principio di appartenenza nazionale: ritiene che questo sia un principio da superare?

Cittadinanza e nazionalità sono spesso confuse nel linguaggio ordinario (e a volte anche nei testi legislativi e nei documenti). Occorre quindi innanzi tutto definirle. La cittadinanza è l'appartenenza giuridica a un'unità politica (in genere, ma non necessariamente, uno Stato), che conferisce particolari diritti (fra cui i diritti politici) e particolari doveri; la nazionalità è invece il sentimento soggettivo che emerge dal legame fra i membri di una società complessa giunta a un determinato grado d'integrazione socioculturale (queste definizioni sono mie, ma rispecchiano le analisi dei più autorevoli studiosi in materia).

Orbene, il rapporto fra nazionalità e cittadinanza, che in genere viene dato per scontato, va superato. Peraltro, se è possibile ridurre la cittadinanza a un mero fatto tecnico, è opportuno che fra coloro che convivono in una determinata società esistano dei legami di solidarietà, siano essi nazionali o no. Tali legami possono essere costituiti anche dalla "religione civile", di cui ha parlato il Rousseau, o dal "senso dello Stato", di cui parlavano i vecchi liberali, o da nuove forme di solidarietà, anche internazionalista o sovrannazionale. Ciò dipende anche dalla cultura politica del Paese (lo stesso concetto di "nazione" è del resto considerevolmente diverso nei vari Paesi).

Si parla di diritti degli immigrati, ma ciascun individuo rimanda a una comunità di appartenenza. C'è un momento in cui è la comunità e non l'immigrato a divenire l'interlocutore del Paese ospite?

Interlocutori del Paese ospite possono essere sia la "comunità", sia il singolo immigrato. Alcuni Paesi, come la Francia, hanno privilegiato un'impostazione individualistica; altri, come il Regno Unito, un'impostazione "comunitaria". Ciò è dipeso anche dal loro "progetto sociale globale" per la gestione dell'immigrazione, di cui abbiamo già parlato sopra. Peraltro l'accostamento "comunitario" si è esteso negli ultimi anni anche in Francia (per esempio, per l'accesso alle abitazioni costruite con un contributo pubblico) e i diritti individuali non sono mai stati ufficialmente negati anche nel Regno Unito (anche se la "seconda generazione" degli immigrati spesso lamenta gli effetti della prevalente impostazione "comunitaria" che li rinserra nel gruppo etnico anche contro la loro volontà). Le "comunità" dovrebbero limitarsi a essere interlocutrici per determinate rivendicazioni collettive del gruppo, senza però pretendere una rappresentanza erga omnes, che non dovrebbe essere loro riconosciuta per non ledere la libertà di coloro che vengono loro ascritti.

(5 marzo 2001)


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