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DECRESCITA
Maurizio Palante - www.decrescitafelice.it
Per
capire cosa sia la decrescita, e come possa costituire il fulcro di
un paradigma culturale capace di orientare sia le scelte di
politica economica, sia le scelte esistenziali, è necessario
in via preliminare fare chiarezza su cosa è la crescita economica.
Generalmente si crede che la crescita economica consista nella crescita
dei beni materiali e immateriali che un sistema economico e
produttivo mette a disposizione di una popolazione nel corso di un
anno. In realtà l'indicatore che si utilizza per misurarla,
il
prodotto interno lordo, si limita a calcolare, e non potrebbe fare
diversamente, il valore monetario delle merci, cioè dei prodotti
e dei servizi scambiati con denaro. Il concetto di bene e il concetto
di merce non sono equivalenti. Non tutti i beni sono merci e
non tutte le merci sono beni.<br><br>La frutta e la verdura
coltivate in un orto familiare per autoconsumo sono beni qualitativamente
molto migliori della frutta e della verdura acquistate al supermercato.
Ma non passano attraverso una intermediazione mercantile,
per cui non sono merci. Soddisfano il bisogno di nutrirsi in modi
più sani e più gustosi dei loro equivalenti prodotti
per essere
commercializzati, non sono stati prodotti con veleni e prodotti di
sintesi chimica, non hanno impoverito l'humus, non hanno contribuito
a inquinare le acque, ma fanno diminuire il prodotto interno lordo
perché chi autoproduce la propria frutta e verdura non ha bisogno
di andarla a comprare. In una società fondata sulla crescita,
dove a ogni piè sospinto tutti la invocano come il fine delle
attività
economiche e produttive, il suo comportamento è asociale. Percorrendo
un tragitto in automobile si consuma una certa quantità
della merce carburante. Quindi si contribuisce alla crescita del prodotto
interno lordo. Se per percorrere lo stesso tragitto si
trovano intasamenti e si sta in coda, il consumo della merce carburante
cresce; di conseguenza, il prodotto interno lordo cresce di
più. Ma occorre più tempo per arrivare dove si vuole
arrivare, aumentano i disagi e la fatica del viaggio, aumentano le
emissioni di
anidride carbonica e di inquinanti in atmosfera, i costi individuali
e collettivi, ambientali e sociali. La maggior quantità della
merce benzina consumata negli intasamenti automobilistici non è
un bene. Eppure ogni volta che si sta fermi in coda a respirare gas
di scarico si contribuisce ad accrescere il benessere collettivo e,
di conseguenza, il proprio. Si agisce in modo socialmente
virtuoso. Se poi, in conseguenza della maggiore stanchezza e dei maggiori
rischi derivanti dagli intasamenti si verificano incidenti,
la riparazione o la sostituzione delle automobili incidentate e i
ricoveri ospedalieri fanno crescere ulteriormente il prodotto
interno lordo, ma difficilmente si troverebbe un economista coerente
al punto di considerare beni i maggiori consumi di merci che
ne derivano.
Se, dunque, il prodotto interno lordo
misura il valore monetario delle merci e non prende in considerazione
i
beni, la decrescita indica soltanto una diminuzione della produzione
di merci. Non dei beni. Anzi, la decrescita può anche essere
indotta da una crescita di beni autoprodotti in sostituzione di merci
equivalenti. Poiché molte merci non sono beni e molti beni
non sono merci, la decrescita può diventare il fulcro di un
nuovo paradigma culturale e un obbiettivo politico se si realizza
come
una diminuzione della produzione di merci che non sono beni e un incremento
della produzione di beni che non sono merci. Questo
processo è in grado di apportare miglioramenti altrimenti non
ottenibili alla qualità della vita e degli ecosistemi. Una
decrescita
guidata in questa direzione, una recessione ben temperata, per usare
un'espressione di Élemire Zolla, racchiude intrinsecamente
un
fattore di felicità. Vive felicemente chi si propone di avere
sempre maggiori quantità di merci, anche se non sono beni,
e spende
tutta la vita per questo obbiettivo? Non vive più felicemente
chi rifiuta le merci che non sono beni e sceglie i beni di cui ha
bisogno in base alla loro qualità e utilità effettiva,
lavorando di meno per dedicare più tempo ai suoi affetti? Vive
felicemente
chi vive in una società che si propone di produrre sempre maggiori
quantità di merci, anche se non sono beni, e sacrifica a
questo obbiettivo la qualità dell'aria, delle acque e dei suoli?
Non vive più felicemente chi vive in una società che
antepone
il bene della qualità ambientale alla crescita della produzione
di merci che non sono beni?
L'annullamento della
distinzione tra il concetto di bene e il concetto di merce è
il fondamento su cui si basa il paradigma culturale della crescita.
Se i beni si identificano con le merci, la crescita della produzione
di merci comporta per definizione un aumento della
disponibilità di beni e, quindi, un aumento del benessere.
Il passaggio preliminare da compiere per costruire il paradigma
culturale della decrescita è ripristinare questa distinzione.
Altrimenti la decrescita si identifica con la rinuncia, con una
riduzione del benessere, con un ritorno al passato. Mentre invece
è scelta, miglioramento della qualità della vita, proiezione
nel futuro. Chi, se non un asceta, potrebbe desiderare una riduzione
del proprio benessere? Riuscirebbe mai la rinuncia diventare
un valore condiviso a livello di massa? Se si continua impropriamente
a pensare che le merci si identifichino con i beni e che la
decrescita consista in una diminuzione dei consumi, senza capire che
si realizza smettendo di acquistare merci che non sono beni e
incrementando l'autoproduzione di beni in sostituzione di merci che
non lo sono, che quel meno si può ottenere attraverso un più
che
è anche un meglio, il paradigma culturale della crescita non
solo continua ad avere una desiderabilità fondata su un bluff
e ad
alimentare luoghi comuni del tipo «indietro non si torna»,
ma riaffiora inconsapevolmente anche in alcune categorie concettuali
che
si utilizzano per criticarlo. Per esempio, nei concetti di povertà
e ricchezza.
Nel paradigma culturale della crescita,
l'indicatore
della ricchezza è il denaro. Se i beni si identificano con
le merci, si è tanto più ricchi quanto maggiore è
la quantità di merci che
si possono acquistare. La soglia della povertà assoluta, su
cui convengono sia la Banca mondiale, sia le Organizzazioni non governative,
è un reddito monetario giornaliero inferiore ai due dollari.
Per chi ha chiara la distinzione tra beni e merci, con un reddito
monetario giornaliero inferiore ai due dollari si è poveri
solo se si deve comprare tutto ciò che serve per vivere. Solo
se si dipende totalmente dalle merci per la propria sopravvivenza.
Ma se una gran parte di ciò che serve per vivere si autoproduce
sotto forma di beni, due dollari possono bastare per comprare il resto.
Una famiglia con pochi soldi che produce la frutta e la verdura con
cui si nutre è più ricca e autonoma di una famiglia
con più soldi che deve comprarle. Nel tenore di vita della
prima un aumento dei prezzi dei prodotti ortofrutticoli non ha alcuna
incidenza. Nel tenore di vita della seconda comporta una riduzione
della capacità d'acquisto e, quindi, della disponibilità
di prodotti alimentari. In caso di riduzione delle forniture di fonti
fossili, chi ha un modesto conto in banca ma un po' di bosco da coltivare
per ricavarne la legna necessaria a scaldarsi, è più
ricco
di chi ha un conto in banca molto maggiore ma deve comprare l'energia
di cui ha bisogno e, tutt'al più, può farsi convertire
il capitale
in banconote da bruciare nel caminetto. Anche prendendole di piccolo
taglio per avere più carta possibile, non riuscirebbe comunque
a
riscaldarsi altrettanto. Nel paradigma culturale della decrescita
l'indicatore della ricchezza non è il reddito monetario, cioè
la
quantità delle merci che si possono acquistare, ma la disponibilità
dei beni necessari a soddisfare i bisogni esistenziali. È povero
chi non può mettere a tavola i pomodori di cui necessita, non
chi non ha il denaro per comprarli.
Il paradigma
della crescita è
intrinseco alla produzione di merci, mentre è estraneo alla
produzione di beni. Se si coltivano pomodori per autoconsumo, non
ha senso
coltivarne più piante di quante servano per il proprio fabbisogno.
Se se ne coltivasse qualcuna in più, si farebbe del lavoro
in più
senza nessuna utilità. Perseguire la crescita producendo beni
sarebbe soltanto segno di scarsa intelligenza. Se invece si coltivano
pomodori per venderli e ricavarne un reddito monetario, più
se ne coltivano, tanto maggiore è il reddito che si ottiene.
In questo caso
sarebbe segno di scarsa intelligenza non produrne più che si
può. Se si producono beni finalizzati al proprio fabbisogno,
non è
necessario avere macchinari sempre più potenti e produttivi
da sostituire in continuazione con altri macchinari ancora più
potenti e
produttivi, che sono invece indispensabili se si producono merci da
vendere. Non è necessario avere quantità sempre maggiori
di energia
e di protesi chimiche, né intervenire sulla struttura della
materia con le biotecnologie e con la fisica atomica. Se si producono
beni
si agisce con misura, nella rigorosa accezione matematica del termine,
che costituisce il fondamento della musica e della geometria, i
due sistemi in cui Pitagora vedeva misticamente riflesse le leggi
che regolano l'ordine dell'universo. La produzione di merci implica
invece la dismisura, quell'atteggiamento mentale che i greci chiamavano
hybris, in cui ravvisavano la rottura dell'ordine che regola la
vita e la fonte di ogni tragedia.
Un sistema economico
fondato sulla crescita del prodotto interno lordo ha bisogno di sostituire
progressivamente i beni (che non lo fanno crescere) con le merci (che
lo fanno crescere), inducendo a credere che queste sostituzioni
costituiscano miglioramenti della qualità della vita e condannando
alla damnatio nominis chi non le effettua. Chi produce beni non
ricava denaro dalla sua attività e non può comprare
merci, mentre chi smette di produrre beni per produrre merci riceve
in cambio un
compenso monetario con cui può acquistare merci in sostituzione
dei beni che non produce più. Se si è convinti che il
denaro sia la
misura della ricchezza, questo passaggio diventa desiderabile e si
identifica con il progresso, anche se in realtà comporta
peggioramenti nelle condizioni di vita. Cosa ha motivato i flussi
migratori dalle campagne alle città che hanno accompagnato
e
accompagnano la crescita del prodotto interno lordo, se non l'identificazione
della ricchezza col denaro? Eppure la frutta e la
verdura autoprodotte sono qualitativamente molto migliori della frutta
e della verdura prodotte industrialmente e acquistate al
supermercato; l'aria delle campagne è più sana dell'aria
delle città; le case coloniche sono più confortevoli
di minuscoli
appartamenti in palazzoni di periferia affacciati su stradoni di scorrimento;
il frigorifero è inutile per chi può cogliere ogni
giorno i frutti di stagione nel proprio orto frutteto.
Le attività che producono beni non sono nemmeno considerate
lavorative e non
vengono conteggiate nelle statistiche del lavoro. Sono considerate
lavorative soltanto le attività svolte in cambio di denaro.
Il
concetto di lavoro è stato ridotto al concetto di occupazione
ed è stato contestualmente svincolato dal concetto di utilità.
Chi
produce merci totalmente inutili (per esempio i pupazzi vestiti da
Babbo Natale che un numero crescente di poveri di spirito appende
alle ringhiere dei balconi da novembre a gennaio) rientra nella categoria
degli occupati, dal momento che in cambio della sua
attività riceve un reddito monetario con cui può comprare
merci e nella duplice veste di produttore e consumatore fa crescere
il prodotto
interno lordo. Invece le casalinghe, o i superstiti produttori agricoli
che dedicano la maggior parte del loro tempo all'autoproduzione di
beni limitandosi a scambiare con denaro soltanto le eccedenze, non
rientrano nella categoria degli occupati perché non ricavano
un reddito monetario dal loro lavoro e non contribuiscono alla crescita
del prodotto interno lordo. Pertanto, anche se svolgono attività
straordinariamente utili, non sono considerati lavoratori.
Un
sistema economico libero dall'obbligo della crescita non deve sostituire
progressivamente la produzione di beni per autoconsumo con la produzione
di merci, ma continua a produrre sotto forma di beni tutto ciò
che prodotto sotto forma di merce comporterebbe peggioramenti qualitativi,
limitandosi a produrre sotto forma di merce soltanto ciò che
non può essere autoprodotto sotto forma di bene. Un vasetto
di yogurt comprato, prima di raggiungere la mensa del consumatore
percorre qualche migliaio di chilometri, quindi contribuisce alla
crescita dei consumi di
fonti fossili e dell'effetto serra; produce tre tipologie di rifiuto:
carta, plastica e alluminio; ha bisogno di sostanze conservanti
che spesso uccidono i fermenti lattici riducendo il suo valore nutrizionale;
incorpora nel prezzo di vendita oltre i costi di trasporto
e confezionamento, i costi di produzione industriale, di intermediazione
commerciale e pubblicitari. Uno yogurt autoprodotto non deve
essere trasportato, non produce rifiuti, è ricchissimo di fermenti
lattici vivi e, non richiedendo nessun costo oltre quello del latte,
ha un prezzo inferiore di due terzi. Contribuisce alla decrescita
del prodotto interno lordo, ma è qualitativamente migliore,
migliora
la qualità ambientale riducendo le emissioni climalteranti
e i rifiuti, richiede meno denaro per soddisfare lo stesso fabbisogno
alimentare e, di conseguenza, permette di lavorare meno e di avere
più tempo per sé. La decrescita indotta dall'autoproduzione
dei beni
è fattore di felicità. Per quale motivo si dovrebbe
preferire comprare lo yogurt e smettere di autoprodurlo, come accade
nelle società
fondate sulla crescita economica?
La quantità
dei beni che si possono vantaggiosamente autoprodurre in sostituzione
delle merci che
li hanno sostituiti è molto superiore a quanto una mente plasmata
dalla cultura della crescita riesca a immaginare. In particolare,
la maggior parte dei servizi alla persona che si possono prestare
per amore nell'ambito dei rapporti familiari non sono nemmeno
paragonabili qualitativamente allo stesso tipo di servizi prestati
in cambio di denaro. Tuttavia una propaganda martellante ha fatto
credere che il loro affidamento a personale specializzato li migliorasse
e, nel contempo, migliorasse la vita di chi invece di prestarli
direttamente e gratuitamente ai suoi familiari dedicasse lo stesso
tempo a produrre merci per avere in cambio il denaro necessario a
comprarli da chi li presta in sua vece, che a sua volta, impegnando
il proprio tempo in un lavoro salariato, deve girare una parte
della retribuzione per pagare chi fornisce sotto forma di merce ai
suoi familiari gli stessi servizi che non ha più tempo di svolgere
direttamente e gratuitamente. Presentata come una liberazione attraverso
il lavoro, questa spirale ha solo la funzione di accrescere
la produzione di merci attraverso un peggioramento della vita di tutti
i soggetti coinvolti.
Tuttavia, anche liberando
dalla
mercificazione tutti i beni che si possono vantaggiosamente autoprodurre
e tutti i servizi che si possono fornire gratuitamente per
amore, non sarebbe auspicabile né possibile perseguire un'autosufficienza
assoluta. Ma non tutto ciò che non si può autoprodurre
può
essere soltanto comprato sotto forma di merce in cambio di denaro.
In tutte le epoche storiche e in tutti i luoghi del mondo dove si
sono formati stabilmente gruppi umani a partire dai nuclei familiari,
insieme agli scambi mercantili e all'autoproduzione sono state
realizzate forme di scambio non mercantili basate sul dono e sulla
reciprocità. Seppure in assenza di regole scritte, gli scambi
non
mercantili si sono dovunque fondati su tre principi: l'obbligo di
donare, l'obbligo di ricevere, l'obbligo di restituire più
di quanto
si è ricevuto. Pertanto, la dinamica del dono e del controdono
crea legami sociali. In questa sfera rientrano il dono del tempo,
delle
capacità professionali, della disponibilità umana, dell'attenzione,
della solidarietà, ma non il baratto, che ha dato origine agli
scambi mercantili. La parola comunità è composta da
due parole latine: la preposizione cum, che significa con e indica
un legame, e
il nome munus, che significa dono. La comunità è un
raggruppamento umano unito da forme di scambio non mercantili.
Se
le società
fondate sulla crescita del prodotto interno lordo non possono non
sostituire in continuazione i beni autoprodotti e gli scambi fondati
sul dono e la reciprocità con merci equivalenti, inducendo
a credere che questi spostamenti siano fattori di progresso, una società
libera da questo vincolo economico e mentale, da questa camicia di
forza, ridimensiona gli scambi mercantili a ciò che non può
essere
più vantaggiosamente autoprodotto e scambiato sotto forma di
dono. La sua struttura produttiva si può paragonare a una figura
geometrica composta da tre cerchi concentrici. Il cerchio interno
rappresenta l'area dell'autoproduzione di beni e servizi.
La prima corona circolare l'area degli scambi fondati sul dono e la
reciprocità. La corona circolare esterna l'area degli scambi
mercantili. In essa le filiere più corte sono più interne
e le merci si dispongono progressivamente verso l'esterno man mano
che
aumentano le intermediazioni commerciali e la distanza tra i luoghi
in cui sono prodotte e i luoghi in cui vengono consumate. Le
società fondate sulla crescita allargano progressivamente questa
area rosicchiando il terreno alle altre due. Una società fondata
sulla decrescita estende le due aree interne ridimensionando la terza.
Nelle società agricole la produzione di
beni prevale sulla
produzione di merci e la compravendita ha un ruolo complementare.
Il loro prodotto interno lordo tende pertanto a rimanere statico.
Le società industriali sono invece caratterizzate dalla prevalenza
della produzione di merci sulla produzione di beni e il loro
prodotto interno lordo cresce in continuazione. Nel loro sistema di
valori, che misura il benessere con la ricchezza monetaria, ciò
testimonia la superiorità della civiltà industriale
sulla civiltà contadina e delle società occidentali,
in cui la civiltà industriale
si è sviluppata, su tutte le altre. Mutuando il concetto di
sviluppo dalla biologia, le società industriali occidentali
fondate sulla
crescita considerano sottosviluppate, cioè povere, ma anche
a uno stadio inferiore di civiltà, le società in cui
il prodotto interno
lordo non cresce; in via di sviluppo le società in cui la prevalente
produzione di beni viene progressivamente sostituita da una
sempre più estesa produzione di merci, e quindi sono avviate
sulla strada della crescita; sviluppate le società in cui prevale
la
produzione di merci e il prodotto interno lordo cresce. In questo
quadro i programmi di sviluppo per far uscire dalla povertà
i popoli
poveri consistono nella trasformazione di economie prevalentemente
fondate sulla produzione di beni in economie prevalentemente
fondate sulla produzione di merci. Se vengono elaborati dagli organismi
finanziari internazionali, mirano ad allargare la sfera dei
produttori e consumatori di merci per favorire la crescita del prodotto
interno lordo a livello mondiale; se vengono elaborati da
organismi non governativi, anche quando sono dettati da motivazioni
umanitarie sottendono l'implicita valutazione che le società
industriali occidentali fondate sulla crescita sono modelli più
evoluti da imitare.
In realtà i programmi
di sviluppo aggravano la
povertà dei popoli poveri anche quando realizzano incrementi
del loro reddito pro capite, perché distruggono le economie
di
sussistenza, quindi la possibilità di soddisfare i bisogni
vitali con la produzione di beni, senza consentire un loro inserimento
concorrenziale nel mercato mondiale, dove i paesi sviluppati esercitano
una incontrastabile supremazia tecnologica e finanziaria.
Solo ristrette oligarchie, che posseggono le grandi estensioni di
terreno e i capitali necessari a effettuare gli investimenti,
riescono ad accrescere i loro profitti, per cui gli incrementi del
reddito nazionale che ne derivano hanno lo stesso valore della
statistica di Trilussa sul mezzo pollo a testa risultante tra una
persona che ne mangia uno intero e un'altra che non mangia niente.
Per di più, l'inserimento delle produzioni agricole nel mercato
mondiale richiede il passaggio dalla biodiversità alla monocultura
delle
specie più produttive, impoverendo progressivamente la fertilità
dei suoli e accrescendo la dipendenza dalla chimica, cioè dalla
necessità di acquistare prodotti tecnologici dai paesi industrializzati.
Il passaggio dalla produzione di beni alla produzione di
merci è una trappola da cui i paesi sottosviluppati non riescono
a liberarsi se non ritornando, con molta fatica, a un'economia di
sussistenza, alle conoscenze, alle tecnologie, ai rapporti sociali,
ai valori, alla cultura su cui si è fondata nel corso dei secoli
e su cui, con le necessarie implementazioni, può continuare
a fondarsi in futuro. Le sirene dello sviluppo cantano alle orecchie
dei
popoli poveri nell'interesse dei popoli ricchi, anche quando assumono
i toni suadenti delle organizzazioni umanitarie. Sono i popoli
ricchi, e il meccanismo della crescita su cui sono impostate le loro
economie, ad aver bisogno di un numero crescente di persone che
non possano fare nient'altro che vendere e comprare per vivere, di
un numero crescente di persone provviste di un reddito monetario a
cui vendere le crescenti eccedenze delle loro merci, di un numero
crescente di persone che producano a prezzi stracciati le merci di
cui hanno bisogno le loro economie per continuare a crescere, di un
numero crescente di persone che abbandonino le loro specificità
culturali per uniformarsi ai valori della crescita. Anche se di primo
acchito può sembrare un paradosso, solo una economia fondata
sulla decrescita consente ai popoli poveri di uscire dalla povertà.
Un sistema economico fondato sulla crescita del
prodotto
interno lordo è innovatore per necessità intrinseca.
Per accrescere l'offerta di merci ha bisogno di continue innovazioni
di
processo finalizzate a incrementare la produttività, cioè
le quantità prodotte da ogni occupato nell'unità di
tempo. Per accrescere
la domanda ha bisogno di continue innovazioni di prodotto finalizzate
a rendere obsolete in tempi sempre più brevi le merci acquistate,
in modo da abbreviare i tempi di sostituzione. Entrambe le innovazioni
dipendono fondamentalmente dagli sviluppi della tecnologia, che
a loro volta dipendono dagli sviluppi della ricerca scientifica, anche
se nelle innovazioni di processo hanno un ruolo decisivo le
innovazioni organizzative e nelle innovazioni di prodotto hanno un
ruolo altrettanto importante le innovazioni estetiche. Maggiori sono
le innovazioni, più rapida è la loro successione, maggiore
è la crescita della produzione e del consumo di merci. In un
sistema
economico che misura la crescita del benessere con la crescita del
prodotto interno lordo, l'innovazione diventa un valore in sé.
Si
identifica col concetto di miglioramento. Poiché le innovazioni
cambiano di continuo la situazione esistente, la disponibilità
al
cambiamento assume un ruolo centrale nel sistema dei valori condivisi.
Diventa una pubblica virtù. Viceversa, la resistenza nei
confronti dei cambiamenti e delle innovazioni diventa un vizio da
sradicare, una manifestazione di chiusura mentale da ridicolizzare,
un atteggiamento d'altri tempi senza diritto di cittadinanza in una
società proiettata verso il futuro. Nuovo è bello, migliore,
più evoluto. Vecchio è brutto, peggiore, più
arretrato. Di conseguenza il nuovo deve sostituire il vecchio. Ma
per definizione il
nuovo non dura. Diventa vecchio all'apparire di un nuovo più
nuovo. Più rapidamente il nuovo diventa vecchio e viene sostituito
da un
più nuovo, maggiore è il progresso. Innovazione, crescita
e progresso sono tre modi di raccontare da tre punti di vista convergenti
la storia umana come un costante avanzamento verso il meglio.
La
destra e la sinistra, in tutte le configurazioni che hanno assunto
nel corso della storia, dalle più moderate alle più
estremiste, sono due varianti di un identico paradigma culturale che
ha come
capisaldi la crescita, l'innovazione e il progresso. Accomunate dallo
stesso sistema di valori, le differenze che le distinguono
consistono nelle politiche da adottare per favorirne al meglio la
realizzazione e nelle modalità di ripartirne i vantaggi tra
gli
attori sociali che col loro lavoro consentono di realizzarli. La destra
sostiene che il mercato e la concorrenza sono gli strumenti
migliori per favorire lo sviluppo delle innovazioni e la crescita
economica. La sinistra ritiene che l'intervento statale sia
indispensabile per guidare le innovazioni e la crescita economica
verso obbiettivi che armonizzino gli interessi individuali col
benessere collettivo. Il pre-requisito è che la torta cresca,
altrimenti non ce n'è per nessuno, e il mercato opportunamente
indirizzato è lo strumento migliore per farla crescere, ma
se si lasciasse al mercato anche il compito di dividerne le fette,
i
più forti lascerebbero ai più deboli solo quanto basta
per sopravvivere. Affinché il progresso economico diventi fattore
di un
progresso sociale generalizzato, la politica ha il compito di fare
in modo che le fette siano suddivise con maggiore equità. Ma
se le fette si ripartiscono più equamente, ribatte la destra,
si accresce la quota di reddito destinata ai consumi e si
riducono gli investimenti in innovazioni tecnologiche, per cui la
torta cresce di meno e le fette più grandi di una torta che
resta più piccola diventano più piccole delle fette
più piccole di una torta che diventa sempre più grande.
Non è successo così
nei paesi del socialismo reale? Ma adesso che hanno imparato la lezione
e hanno scoperto i vantaggi del mercato, le loro economie
crescono più delle altre. Un popolo è ricco solo se
ci sono i ricchi. Solo se ci sono classi più potenti che hanno
il diritto di
ritagliarsi fette di torta più grandi. Un'economia più
produttiva è meno equa, un'economia più equa è
meno produttiva. La destra è
dunque più innovativa e progressista della sinistra, anche
se la sinistra pretende di possedere in esclusiva queste connotazioni.
E
se l'obbiettivo comune è la crescita, la destra parte in vantaggio.
Nessuno a destra e a sinistra nutre il minimo
dubbio sull'utilità
e la necessità della crescita economica. La crescita è
il primo punto di ogni programma politico. Un postulato che non ha
bisogno di
dimostrazione. Come ogni organismo vivente deve respirare, così
l'economia deve crescere. Se non cresce è sintomo che sta male.
La
parola decrescita è stata persino bandita dal vocabolario.
Al suo posto si usa la locuzione crescita negativa, che sarebbe come
definire gioventù negativa l'età di un centenario. Una
mancanza di logica esibita senza pudore, di per sé solo ridicola,
se non fosse
l'espressione verbale del rifiuto di capire che una crescita infinita
non è possibile in un mondo che, per quanto grande, non ha
una disponibilità infinita di risorse da trasformare in merci,
né una capacità infinita di assorbire i rifiuti generati
dai processi
di produzione e dalle merci nel corso e al termine della loro vita.
Eppure la competizione politica tra destra e sinistra, tra tutte
le destre e tutte le sinistre apparse nella storia, si è sempre
incentrata sulle rispettive capacità di far crescere l'economia
più
della parte avversa. La crescita della produzione è l'obbiettivo
degli imprenditori, dei sindacati e della finanza. La crescita dei
consumi l'aspettativa delle popolazioni. Nel sistema dei valori su
cui si fondano le società industriali il più si è
identificato e
continua a identificarsi col meglio, anche se progressivamente diminuiscono
la sua utilità e aumentano i disagi che crea. I danni sono
come nascosti da un velo che impedisce di vederli. Le guerre per il
controllo dei giacimenti petroliferi, lo scioglimento dei ghiacciai,
l'innalzamento del livello dei mari e i cambiamenti climatici in corso
non vengono messi in relazione con l'incremento dei consumi di f
onti fossili necessari a sostenere la crescita della produzione e
dei consumi. Come se niente fosse, la destra e la sinistra, tutte
le
varianti attuali della destra e della sinistra, continuano a mettere
la crescita al centro dei loro programmi politici. Sostenere la
necessità della decrescita significa pertanto collocarsi al
di fuori di questa dialettica e rimettere in discussione il paradigma
culturale che ha caratterizzato le società occidentali dalla
rivoluzione industriale a oggi. Un obbiettivo che richiede uno sforzo
di
elaborazione immane, a cui sono chiamati tutti coloro che, a partire
da una percezione anche soggettiva delle sofferenze che il fare
finalizzato a fare di più crea alla vita, a tutte le forme
di vita e alla terra in quanto organismo vivente, intendono contribuire
a
restituire al lavoro la sua intrinseca connotazione di fare bene finalizzato
a migliorare la qualità della vita in tutte le forme che
essa assume, ben sapendo che solo in questo modo si può migliorare
anche la qualità della vita della specie umana.
La
crescita
della produzione di merci consuma quantità crescenti di materie
prime e di energia. La crescita del consumo di merci produce quantità
crescenti di rifiuti. In un sistema economico fondato sulla crescita,
la produzione è un'attività finalizzata a trasformare
le risorse
in rifiuti attraverso un passaggio intermedio, sempre più breve,
allo stato di merci. Le innovazioni di processo hanno la funzione
di
accelerare i tempi di percorrenza della prima parte del tragitto,
da risorsa a merce; le innovazioni di prodotto hanno la funzione di
accelerare i tempi di percorrenza della seconda parte del tragitto,
da merce a rifiuto. Quanto più breve è la durata del
percorso, tanto
maggiore è la crescita del prodotto interno lordo. Il senso
ultimo dello sviluppo scientifico e tecnologico finalizzato alla crescita
del prodotto interno lordo è la produzione di quantità
sempre maggiori di rifiuti in tempi sempre più brevi. In termini
più generali è
l'applicazione della razionalità a uno scopo irrazionale e
ha come risultato finale la devastazione del mondo. La ricerca del
nuovo come
valore in sé incrementa il consumo di risorse, accresce le
varie forme di inquinamento ambientale, toglie alle generazioni future
il
necessario per vivere, ingigantisce progressivamente le discariche
e alimenta con sempre maggiore abbondanza gli inceneritori. Il
progresso fondato sui progressi scientifici e tecnologici finalizzati
ad accrescere la produzione di merci scandisce le tappe di
avvicinamento della specie umana alla rottura degli equilibri fisico-chimici-biologici
che ne hanno consentito l'evoluzione e lo
sviluppo.
In un sistema economico e produttivo
finalizzato alla crescita del prodotto interno lordo le innovazioni
tecnologiche sono
finalizzate ad accrescere la produttività, ovvero le quantità
prodotte da ogni produttore nell'unità di tempo, indipendentemente
dalle conseguenze che possano derivarne in termini di esaurimento
delle risorse, di crescita dei rifiuti e di impatto ambientale. In
un sistema economico e produttivo finalizzato alla decrescita le innovazioni
tecnologiche sono finalizzate alla riduzione del consumo
di risorse e di energia, della produzione di rifiuti e dell'impatto
ambientale per unità di bene prodotto. Chi si pone l'obbiettivo
della decrescita non ha pregiudizi antiscientifici o antitecnologici,
come insinuano i paladini della crescita. La decrescita non
richiede meno tecnologia della crescita, ma uno sviluppo tecnologico
diversamente orientato. Le innovazioni tecnologiche di cui ha
bisogno nell'edilizia non sono finalizzate a ricoprire in tempi sempre
più brevi porzioni sempre più vaste di superficie terrestre
con una crosta di materiali inorganici, come accade nei sistemi fondati
sulla crescita, ma a costruire edifici ben coibentati allo
scopo di ridurre tendenzialmente a zero il fabbisogno di energia per
la climatizzazione. Per costruire un edificio che non ha
bisogno dell'impianto di riscaldamento per mantenere una temperatura
interna di 20 gradi con una temperatura esterna di 20 gradi
sotto zero ci vuole più tecnologia di quella che occorre a
costruire una casa che consumi 20 litri di gasolio al metro quadrato
all'anno, come fanno in media gli edifici costruiti nel dopoguerra
in Italia. Ma un edificio che ha bisogno di una minore quantità
di energia contribuisce a ridurre il prodotto interno lordo. Tutte
le innovazioni tecnologiche che riducono l'impronta ecologica,
ovvero la quantità di superficie terrestre necessaria a ogni
individuo per ricavare le risorse di cui ha bisogno, consentendo al
contempo la loro rigenerazione, comportano una decrescita economica
che contribuisce a migliorare la qualità degli ambienti e la
vita degli esseri umani. Una decrescita felice.
La crescita ha bisogno di esseri umani incapaci di tutto. Solo chi
non sa fare
nulla deve comprare tutto ciò di cui ha bisogno per vivere.
Chi non sa fare nulla è assolutamente dipendente dalle merci.
Il
paradigma culturale della crescita implica l'impoverimento culturale
degli esseri umani. Il paradigma culturale della decrescita,
riducendo l'incidenza delle merci nella soddisfazione dei bisogni
esistenziali e potenziando l'autoproduzione di beni, richiede
lo sviluppo e la diffusione di un sapere finalizzato al saper fare
che rende più autonomi e liberi. Il paradigma culturale
della crescita comporta il disprezzo del lavoro manuale e lo relega
ad attività di rango inferiore. Il paradigma culturale
della decrescita comporta una rivalutazione del lavoro manuale e artigianale,
il superamento del lavoro parcellizzato, una
ricomposizione unitaria del sapere contro la super-specializzazione
che fa perdere la visione d'insieme di ciò che si fa, la
riunificazione del sapere come si fanno le cose (cultura scientifica)
con la ricerca del senso per cui si fanno (cultura
umanistica).
Le città sono luoghi in cui
l'autoproduzione di beni e la prestazione non mercificata di servizi
alla
persona trovano difficoltà difficilmente sormontabili. In città
si deve comprare tutto ciò che serve per vivere, per cui
tutte le attività lavorative sono esclusivamente finalizzate
a ricavare denaro. Chi vive in città non può fare altro
che
produrre merci per poter comprare merci. Le città sono luoghi
di mercificazione totale. La copertura di superfici crescenti con
materiali inorganici impedisce l'autoproduzione di cibo. Interminabili
file di autotreni carichi di derrate alimentari le raggiungono ogni
mattina. Flotte di aerei cargo le riforniscono di cibi provenienti
dall'altra parte del mondo. Miriadi di furgoni carichi di ogni tipo
di merci, miriadi di automobili, per lo più con una sola persona
a bordo che va a produrre o acquistare merci, le attraversano a tutte
le ore del giorno e della notte. La predominanza assoluta di rapporti
commerciali e competitivi cancella ogni forma di solidarietà
e collaborazione tra chi vi abita. I rapporti sociali si fondano sull'interesse
e sulla reciproca diffidenza che caratterizzano le relazioni tra chi
vende e chi compra. Confusi nella folla gli individui sono soli. Le
famiglie che abitano nello stesso palazzo si salutano appena e spesso
non si conoscono. Negli appartamenti condominiali sono limitate le
possibilità di effettuare la conservazione dei prodotti agricoli
e le trasformazioni che molti di essi richiedono per diventare alimenti,
eccettuata la
preparazione dei pasti. Le unità abitative a misura di famiglie
mononucleari non consentono nemmeno di fornire quei servizi
alla persona che venivano svolti sotto forma di dono nelle famiglie
allargate, specialmente nei confronti delle fasce d'età
più bisognose d'assistenza: i bambini e gli anziani. Oltre
al cibo, agli oggetti e ai servizi, nelle città occorre comprare
anche l'otium, che assume quasi esclusivamente le forme degli svaghi
e dei divertimenti massificati. I modi per compensare
i disagi sempre più gravi causati dalla loro incessante espansione
sono sempre più cari. Gli spostamenti al loro interno
tanto più costosi quanto più diventano faticosi e lenti.
I mezzi di trasporto che si incolonnano nelle loro strade le
avvolgono in una fitta cappa di gas di scarico e le opprimono con
un ininterrotto rumore di fondo. Eppure non c'è piano
regolatore che non preveda per definizione ulteriori espansioni. Nell'anno
2006 i residenti nelle aree urbane hanno
superato la metà della popolazione mondiale e continuano a
crescere. Le più grandi di esse superano i 20 milioni di
abitanti e si avviano verso i 30. Ma se questa crescita si arrestasse,
non crescerebbe più il numero di coloro che devono
comprare sotto forma di merci tutto ciò di cui hanno bisogno
per vivere e si ridurrebbe la crescita del prodotto interno
lordo. Le città sono escrescenze tumorali che devastano il
corpo di Gaia, incrostandolo di materiali inorganici e di
rifiuti. Solo la decrescita può riportare alla fisiologia questa
patologia. La rivalutazione dell'autoproduzione e degli
scambi non mercantili, della solidarietà e della dimensione
comunitaria, implica un ampio processo di de-urbanizzazione.
La
crescita economica procede con una forza intrinseca, sfuggita al controllo
degli apprendisti stregoni che l'hanno messa in moto e la venerano
come dispensatrice di benessere e felicità. Se si costruiscono
sempre maggiori quantità di sempre più potenti macchine
movimento terra, occorre venderle. Se si acquistano occorre metterle
in funzione. Se si mettono in funzione devastano porzioni di territorio
sempre più vaste. Se si producono sempre maggiori quantità
di cemento occorre venderle. Se si acquistano si utilizzano per coprire
di materiale inorganico superfici sempre più vaste. Se si costruiscono
macchinari industriali sempre più potenti occorre venderli.
Se si acquistano occorre metterli in funzione. Se si mettono in funzione,
consumano quantità sempre maggiori di energia e di materie
prime per produrre in tempi sempre più brevi quantità
sempre maggiori di merci che in tempi sempre più brevi diventano
rifiuti. Ma se tutto ciò che si produce non si vendesse, occorrerebbe
ridurre la produzione. Di conseguenza diminuirebbero i profitti e
occorrerebbe licenziare i lavoratori salariati in esubero. Se diminuissero
i profitti e i salari, diminuirebbe la
capacità complessiva di comprare, la domanda di merci si ridurrebbe,
occorrerebbe produrre ancora meno, si ridurrebbero ulteriormente i
profitti e i salari. Si avviterebbe una spirale recessiva con effetti
devastanti. La società fondata sulla produzione di merci non
può non crescere. Ma la crescita economica si scontra ormai
con i limiti fisici del pianeta, con la sua disponibilità di
risorse e la sua capacità di metabolizzare i rifiuti. La crescita
sarà fermata da Gaia. Se ne vedono già segnali inquietanti.
Non restano che la rassegnazione o la rimozione del problema? No.
Ognuno può togliere il proprio consenso alla crescita adottando
comportamenti quotidiani improntati alla decrescita. Se non c'è
nessuna forza in grado di fermare questo treno lanciato a folle velocità
verso il precipizio, un numero sufficientemente alto di individui
responsabili può smontare per tempo, bullone dopo bullone,
il tratto dei binari che ancora gli rimane davanti.
Per
arrestare la crescita e trasformarla in decrescita basta ridurre la
domanda di merci. Poiché nessuno può obbligare qualcuno
a comprare qualcosa, i consumatori hanno nelle loro mani un'arma molto
potente, soprattutto in
considerazione del fatto che nei paesi industrializzati la crescita
dei consumi è ormai sostenuta dall'inutile. Per
superare questa difficoltà oggettiva, i costi sostenuti dai
produttori per convincere i consumatori a comprare le loro
merci sono una quota sempre più rilevante dei costi di produzione
totali. E quando il canto delle sirene pubblicitarie
non basta a far perdere la testa per cose di cui non si ha bisogno,
o non servono a niente, si inoculano nel tessuto
sociale dosi massicce di idiozia rivestendo di una presunta valenza
etica l'atto dell'acquistare, indipendentemente
da ciò che si acquista. «Per far crescere l'economia
e ridurre la disoccupazione bisogna rilanciare i consumi»,
sentenziano gli economisti. Buy something, traducono i pubblicitari.
Comprate qualcosa. Non importa cosa.
All'attuale livello di crescita non si lavora più per produrre
qualcosa che serva, ma si deve comprare qualcosa
che non serve per poter continuare a produrre.
Socrate
andava di tanto in tanto al mercato per vedere quanto
fosse grande il numero delle cose di cui non aveva bisogno. Senza
essere Socrate, chi ha un po' di rispetto per
la sua intelligenza e vuole contribuire a fermare la crescita tumorale
del prodotto interno lordo non può che
proporsi il buy nothing come stile di vita. Nel paradigma culturale
della decrescita la sobrietà è uno dei valori
fondanti, che non a caso il paradigma culturale della crescita ha
ridicolizzato, derubricandola a taccagneria. Ma
la sua valenza positiva rischia di rimanere appannata se viene confusa
con l'ascetismo o con un atteggiamento di
rinuncia motivata da più nobili e alti motivi: per non esaurire
le risorse, per ridurre l'inquinamento, per non
sottrarre il necessario ai poveri, per valorizzare la dimensione spirituale
dell'uomo, per sostituire le merci ad
uso individuale con merci ad uso collettivo. La sobrietà non
è rinuncia, ma una scelta di vita che fa stare meglio
non solo chi la pratica, ma la specie umana nel suo insieme. Chi confonde
il benessere col tantoavere accumula
soltanto frustrazioni e insoddisfazioni. Non vive bene. Nella società
che ha raggiunto i massimi livelli del
consumismo materialista, gli Stati Uniti, metà della popolazione
fa uso sistematicamente di psicofarmaci. A chi
invece si limita a utilizzare con sobrietà quanto serve per
vivere senza restrizioni né sprechi, rimane il tempo
per dedicarsi alle sue esigenze spirituali. Chi non si limita ad essere
un transito di cibo, per ripetere le parole
di Leonardo da Vinci, può raggiungere più elevati livelli
di realizzazione umana, rispondere a bisogni esistenzial
i più profondi, vivere più intensamente e ripetere con
Baudelaire: Ho più ricordi che se avessi vissuto mille anni.
La sobrietà non è solo uno stile
di vita, ma anche una guida per orientare la ricerca scientifica e
le innovazioni tecnologiche a ottenere di più con meno. È
la capacità di saper distinguere il più dal meglio,
la quantità dalla qualità. La costruzione di edifici
in grado di assicurare il benessere col minimo consumo di risorse,
la progettazione di oggetti fatti per durare nel tempo, la riparazione
invece della sostituzione, il riciclaggio e la riutilizzazione delle
materie prime di cui sono fatti. Sebbene l'adozione di uno stile di
vita basato sulla sobrietà abbia una valenza politica intrinseca
perché contribuisce a una riduzione della domanda, tuttavia
non esime da un impegno politico finalizzato a orientare le scelte
pubbliche in base allo stesso criterio. I cittadini consapevoli della
necessità di ridurre i rifiuti per ragioni etico-ambientali,
non possono non impegnarsi politicamente affinché le pubbliche
amministrazioni prendano le decisioni necessarie a realizzare un'efficace
sistema di raccolta differenziata, riuso e riciclaggio. Ma
le scelte delle pubbliche amministrazioni ispirate a criteri di sobrietà
non possono ottenere risultati
significativi senza la partecipazione consapevole dei cittadini. I
cittadini che decidono di usare i mezzi pubblici
per ridurre l'inquinamento da traffico non possono non impegnarsi
politicamente per indurre le pubbliche
amministrazioni a porre limitazioni alla circolazione automobilistica
e potenziare le reti di trasporto
collettivo. La sobrietà può essere perseguita come scelta
di benessere individuale, ma se si traduce in
proposte e scelte politiche, i suoi benefici diventano incomparabilmente
maggiori.
La sobrietà però non
basta. È condizione necessaria, ma non sufficiente per la decrescita.
Consente di ridurre il consumo di merci,
ma se non si affianca all'autoproduzione e allo scambio non mercantile
di beni non libera dalla necessità di
acquistare sotto forma di merci tutto ciò che serve per vivere.
Se ci si limita a comprare meno merci, si
contribuisce soltanto a ridurre, o anche a invertire, la crescita
del prodotto interno lordo, ma non a
modificare il suo ruolo di parametro del benessere. Si cambia solo
il valore delle tacche lungo lo stesso asse
graduato, ma non si ridisegna l'asse. L'autoproduzione e gli scambi
non mercantili di beni non solo possono
contribuire in maniera determinante alla decrescita, ma liberano radicalmente
dall'onnimercificazione
l'immaginario collettivo, la conoscenza, i rapporti sociali, i criteri
di interpretazione della realtà. Non si
limitano a rallentare la velocità con cui la crescita sta portando
la specie umana verso un precipizio senza
ritorno, ma guidano in un'altra direzione il suo cammino.
L'autoproduzione
e gli scambi non mercantili di beni
riscoprono e valorizzano elementi del passato che, pur contenendo
potenzialità di futuro non ancora utilizzate,
sono stati abbandonati in nome della modernità e del progresso.
In questo senso si inscrivono nel contesto di
una cultura conservatrice. Ma non per questo costituiscono un'alternativa
alle innovazioni. Consentono invece
di scegliere quali di esse abbiano una reale potenzialità di
futuro. Di distinguere, per usare le parole di
Pasolini, il vero dal falso progresso. In questo senso si inscrivono
nel contesto di una cultura autenticamente
progressista. Dal versante del passato ripropongono, per esempio,
il sapere e il saper fare elaborati nell'unica
attività umana davvero indispensabile: la produzione, la trasformazione
e la conservazione degli alimenti.
Un patrimonio che è necessario riscoprire e valorizzare dopo
gli anni dell'oblio in cui è stato condannato
dal paradigma della crescita. Ma consentono anche di implementarlo
orientando gli sviluppi scientifici e le
innovazioni tecnologiche alla sempre più piena realizzazione
del concetto espresso con la parola agricoltura,
che deriva dalle parole latine ager «terreno coltivato»,
e cultura, derivante a sua volta dal verbo colere «aver cura,
onorare, rispettare, abbellire», la stessa radice della parola
cultus, la venerazione che si deve alla divinità. Nel
versante del futuro, l'autoproduzione e lo scambio non mercantile
di beni caratterizzano le tecnologie che hanno le
maggiori potenzialità di ridurre l'impatto ambientale e il
consumo di risorse dei processi di produzione:
l'informatica e l'energia. Gli sviluppi del software libero, che ha
ormai superato tecnologicamente i sistemi
operativi mercantili, sono stati ottenuti mettendo in rete gratuitamente
sotto forma di doni reciproci le
successive implementazioni elaborate da una comunità virtuale
liberamente costituitasi. Le energie rinnovabili, per
raggiungere i massimi livelli efficienza e ridurre al minimo i loro
specifici impatti ambientali, dovranno
svilupparsi in impianti di piccola taglia finalizzati all'autoconsumo,
collegati in una rete di piccole reti
locali dove si possa realizzare lo scambio reciproco delle eccedenze.
La stessa metodologia dell'agricoltura di
sussistenza, dove in ogni podere si produce un po' di tutto e si vende
il surplus, ma anche la stessa struttura
della rete informatica.
La decrescita è
elogio dell'ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato;
consapevolezza che non c'è progresso senza conservazione; indifferenza
alle mode e all'effimero; attingere al sapere
della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio
col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure,
la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori
gli acquirenti, perché lo scopo dell'acquistare non è
il
consumo ma l'uso; distinguere la qualità dalla quantità;
desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione
spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire
il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene
finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità
di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi gli uomini dal
ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l'economia
nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie
viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio.
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