"Progetto "Emergenza
per uragano Stan"
A seguito delle devastazioni che ha causato l'uragano
Stan Il 2 marzo 2006 siamo partiti per il Chiapas a
consegnare il ricavato della raccolta fondi per le popolazioni colpite. RICEVUTA
Hermann Bellinghausen e Gloria Muñoz Ramirez, inviato e collaboratrice
"La Jornada"
Villaggio Che Guevara, Chiapas 22 ottobre 2005
Isabela, base d'appoggio dell'Esercito Zapatista di Liberazione
Nazionale (EZLN), è morta sepolta dal ciclone Stan.
Fino al momento è l'unica morta zapatista accertata ma ancora
non si è potuto raggiungere tutte le comunità autonome
colpite.
"Non siamo riusciti a tirarla fuori. Era molto malata e non
poteva camminare, è arrivata l'acqua e la terra ed è
rimasta sepolta nel dormitorio dei promotori di educazione che in
quei giorni tenevano i corsi", racconta José, uno dei
48 zapatisti disastrati che sono ora alloggiati in una piccola casa
di "adobe" nel villaggio Belisario Domínguez, municipio
autonomo Tierra y Libertad, nella regione della Sierra.
Di questo piccolo villaggio zapatista non rimane più niente.
La finca La Paz, recuperata dagli zapatisti di questa regione costiera
l'8 luglio del 2002, ora è
distrutta. Si vedono solo i tetti dei depositi di caffé,
dell'allevamento dei maiali, che era un progetto collettivo di recente
creazione, e delle case delle otto famiglie che sono rimaste senza
niente, letteralmente.
"Siamo scappati con quello che avevamo addosso; sono rimaste
per strada perfino le scarpe. Abbiamo perso tutto" dice Olga
e poi Dolores prosegue il racconto:
"Dalla mia casa vedevo precipitare tutto. Io stavo preparando
la colazione per i miei figli, pensavo di aver tempo e in quel mentre
una stanza ha cominciato a crollare ed allora siamo scappati".
Le basi di appoggio zapatiste della Sierra, meticcie in maggioranza,
sono poco conosciute all'esterno. E' raro osservare la presenza
ribelle in posti poco abituali, quasi urbani. Senza dubbio, è
un'altra regione ed una storia diversa da quella degli
zapatisti della selva, del Nord o degli Altos. Roberto continua
a dipanare l'incubo: "Il difficile è cominciato alle
otto di sera. A quell'ora ci siamo riuniti tutti con i promotori
che stavano facendo il loro corso. Dapprima ci siamo messi tutti
nella cucina, poi siamo andati più in alto, in cima alla
collina e lì siamo stati per 10 minuti. E poi più
dentro, attraverso i campi di girasole siamo arrivati fino a dove
ci ha accolto un uomo, che è priista, che ci ha trattato
molto bene e ci ha dato cibo e vestiti".
Sono trascorsi sei lunghi giorni prima di poter scendere dalla montagna.
"Adesso sì che gli indios sono morti. Gli zapatisti
sono finiti", commentava la gente di Belisario Domínguez
e della Unión Villa Flores, in maggioranza priista, osservando
il villaggio Che Guevara completamente sepolto. La tappa successiva
è stata la chiesa di Belisario Domínguez e lì
la loro condizione di zapatisti li ha costretti ad andarsene perché
i disastrati del PRI si lamentavano che gli aiuti non stavano arrivando
a
causa della loro presenza. "Ma la verità è che
non stava arrivando niente per nessuno, è solo perché
volevano sbatterci fuori", assicura Guadalupe.
Gli zapatisti hanno lasciato la parrocchia e sono andati in una
casa offerta da uno dei loro parenti. È lì dove dormono
ora, spalla a spalla, perché lo spazio è molto ridotto.
Sono cominciati ad arrivare gli aiuti della giunta di buon governo
(maseca, olio, un po' di medicine, riso, fagioli, eccetera) ma non
sono sufficienti.
"Quello che più urge - dicono - è fare un ponte
per potere ritornare al villaggio, costruire un edificio per dormire
ed incominciare ad organizzare il taglio del caffè, ma non
abbiamo dove seccarlo né sgranarlo".
Ora, spiegano, invece dei cortili per l'essiccazione si useranno
i tetti ancora buoni.
"Ora dove siamo sicuri? Non c'è più un posto",
segnala Fernando, convinto, come gli altri, che non torneranno a
costruire nello stesso posto. Si cercherà un posto nuovo,
magari più in collina. Non sappiamo ancora", dice.
"La piantagione di caffè se l'è portata via l'acqua"
"Io vivevo qui", segnala al suolo Macario, sedendosi su
una grande roccia, in un terreno incolto, tra il fiume Belisario
Domínguez ed il terrapieno che fino a poco fa era la carrozzabile
Comalapa-Huixtla. Siamo nel villaggio Unión Villaflores,
sulla riva opposta a dove stava il piccolo villaggio Che Guevara.
Macario, maya mam, vive su questa sponda del fiume ed è anche
zapatista del municipio autonomo Tierra y Libertad. La devastazione
in queste comunità e la vicina Belisario Domínguez
è quasi totale, come lungo il tragitto da Mazapa de Madero
fino a Tapachula e la costa chiapaneca. A giudicare dai cavi dell'unico
e malconcio ponte che rimane nella zona e permette oggi di attraversare
il fiume, l'acqua deve aver raggiunto più di otto metri rispetto
al suo attuale livello, dove corre orami veloce fino all'oceano
Pacifico,
cambiando varie volte di nome, "secondo dove va": Río
Negro, o Huixtla, per esempio. Con le acque del ciclone Stan sono
andate perdute vacche, galline,
cimiteri, coltivazioni, migliaia di alberi, colline, strade, ponti.
Davanti a noi si osserva quello che rimane di Che Guevara. Solo
un pantano da cui emergono, tra rocce e
fango, tetti di case quasi totalmente sepolte. Resta in piedi, con
un grande squarcio in un lato e la metà volata via, l'aula
del centro dei promotori del
municipio autonomo.
Dopo aver attraversato il fiume, un ragazzo del villaggio commenta:
"Quella che si vede lì è Fabiola, l'unico sopravvissuto
degli animali". Indica un'asina legata all'ombra di un pezzo
di tettoia dove conservavano i loro attrezzi e macchinari. "E'
corsa con noi sulla montagna, solo lei". L'animale ha accompagnato
i contadini la notte del 4 ottobre quando riuscirono a salire la
ripida collina.
"Si è trattato di pochi minuti", aggiunge. "Abbiamo
visto la collina crollare improvvisamente. L'acqua e il fango sono
arrivati dappertutto. Tutti, meno la
compagna Isabela, sono riusciti a fuggire". Siccome non smetteva
di piovere e la collina a crollare, la gente si è arrampicata
fino in cima che è crollata e
quasi travolgeva tutti.
Poco prima, Felipe aveva detto: "Qui, dove stiamo camminando
adesso, era una piantagione di caffè. Se l'è portata
via l'acqua". Ancora una volta si tratta di un grande terreno
incolto, una spiaggia di fango e tronchi spezzati di tutte le dimensioni.
Percorrendo quello che furono i cortili del villaggio, basta flettere
un poco il ginocchio per raggiungere i tetti delle case che non
sono finiti completamente sotto terra.
Gli zapatisti non accettano niente dal governo, ma quelli che lo
fanno hanno ricevuto molto poco, commentano gli autonomi. La verità
è che non si nota molta presenza governativa a Belisario
e Unión Villaflores. "Prima gli hanno portato provviste,
un
chilo di riso, un altro di fagioli, un litro di olio.
Ora neanche questo. Il governo ha installato una cucina per quelli
che hanno fame, ma in realtà tutti si stanno aiutando da
soli". I macchinari delle imprese costruttrici private hanno
continuato a farsi largo sulla strada devastata ma non si vede che
rimuovano le macerie dai villaggi. Gli uomini tagliano tronchi con
motoseghe o rimuovono la terra che copre alcune case di Unión
e Belisario, e le donne puliscono pavimenti e cortili quando è
possibile. Benché non la si chiami ufficialmente così,
questa è una zona disastrata. "Un giorno sono venuti
i soldati per fare lavoro sociale e sono andati via senza aiutare
la gente", dice Felipe. Oggi rimane un distaccamento militare
in Belisario Domínguez solo a compiere vigilanza. Come unica
attività evidente, i soldati scattano foto dei visitatori.
"Siamo a un punto morto", commenta un uomo adulto e osserva:
"Quando le cose precipitano non c'è tempo.
Bisogna fare attenzione con la natura".
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