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“Muri” di Eduardo Galeano
Aprile 2006 Fonte: La Jornada
Il Muro di Berlino era la notizia quotidiana. Dalla mattina alla notte
leggevamo, vedevamo, ascoltavamo: il Muro della Vergogna, il Muro
dell’Infamia, la Cortina di Ferro…
Finalmente, quel muro, che meritava di cadere, cadde. Ma altri muri
sono germogliati, continuano a germogliare, nel mondo, ed anche se
sono molto più grandi di quello di Berlino, ma di loro si parla
poco o niente.
Poco si parla del muro che gli Stati Uniti stanno innalzando alla
frontiera messicana e poco si parla dei reticolati di Ceuta e Mellilla.
Quasi niente si parla del Muro in Cisgiordania che perpetua l’occupazione
israeliana di terre palestinesi e di qui a poco sarà 15 volte
più lungo del Muro di Berlino.
E niente, niente di niente, si parla del Muro del Marocco che perpetua
l’occupazione marocchina del Sahara occidentale da 20 anni.
Questo muro, minato dall’inizio alla fine, vigilato per migliaia
di soldati, misura 60 volte più del Muro di Berlino.
Perché sarà che ci sono muri tanto altisonanti e muri
tanto muti? Sarà per i muri dell’incomunicabilità
che i grandi mezzi di comunicazione costruiscono ogni giorno?
Nel luglio 2004, la Corte Internazionale di Giustizia di L’Aia
condannò il Muro in Cisgiordania, violava il diritto internazionale,
e comandò che si demolisse. Ma finora, Israele non l’ha
saputo.
Nell’ottobre del 1975, la stessa Corte aveva dettato: “Non
si stabilisce l’esistenza di nessun vincolo di sovranità
tra il Sahara Occidentale ed il Marocco”. Ci sembra poco dire
che il Marocco è rimasto sordo. Fu peggio: il giorno dopo di
questa risoluzione iniziò l’invasione, chiamata Marcia
verde, e poco dopo si impadronì a ferro e fuoco di quelle vaste
terre altrui,
espulsando la maggioranza della popolazione.
E lì segue.
Mille e una risoluzioni delle Nazioni Unite hanno confermato il diritto
all’autodeterminazione del popolo saharaui.
A che sono servite quelle risoluzioni? Si sarebbe dovuto fare un plebiscito,
affinché la popolazione decidesse il suo destino. Per assicurarsi
la vittoria, il monarca del Marocco riempì di marocchini il
territorio invaso. Ma poco dopo neanche i marocchini furono degni
della sua fiducia. Ed il re, che aveva detto di sì, disse chi
lo sa. E dopo disse di no ed ora anche suo figlio, suo erede del trono,
dice di no. La risposta negativa equivale ad una confessione. Negando
il diritto di voto, il Marocco confessa che ha rubato un paese.
Lo continueremo ad accettare, come se tutto andasse bene? Accettando
che nella democrazia universale noi sudditi possiamo solo esercitare
il diritto all’obbedienza?
A che cosa sono servite le mille ed una risoluzioni dalle Nazioni
Unite contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi?
E le mille ed una risoluzioni contro il blocco di Cuba?
Un vecchio proverbio insegna: l’ipocrisia è l’imposta
che il vizio paga alla virtù.
Il patriottismo è, attualmente, un privilegio delle nazioni
dominanti.
Quando lo praticano le nazioni dominate, il patriottismo diventa sospetto
di populismo o di terrorismo, o semplicemente non merita la minor
attenzione.
I patrioti saharauis che lottano per recuperare il loro posto nel
mondo da 30 anni, sono riusciti ad ottenere il riconoscimento diplomatico
di 82 paesi. Tra di questi, il mio paese, l’Uruguay, che recentemente
si è unito alla gran maggioranza dei paesi latinoamericani
ed africani.
Ma l’Europa, no. Nessun paese europeo ha riconosciuto la Repubblica
Saharaui. La Spagna, neppure. Questo è un grave caso di irresponsabilità,
o chissà forse di amnesia, o almeno di disamore. Fino a 30
anni fa il Sahara era una colonia della Spagna e la Spagna aveva il
dovere legale e morale di proteggere la sua indipendenza.
Che cosa ha lasciato lì il dominio imperiale? Dopo un secolo,
quanti laureati ha formato? In totale, tre: un medico, un avvocato
ed un perito mercantile. Questo è quanto ha lasciato. Ed ha
lasciato un tradimento. La Spagna ha servito su di un vassoio quella
terra e quelle genti affinché fossero divorate dal regno del
Marocco. D’allora, il Sahara è l’ultima colonia
dell’Africa. Gli hanno usurpato l’indipendenza.
Perché gli occhi si rifiutano di vedere quello che rompe gli
occhi?
Sarà perché i saharauis sono stati una moneta di scambio,
offerta dalle imprese e dai paesi che comprano al Marocco quello che
il Marocco vende anche se non è suo?
Un paio di anni fa, Javier Corcuera intervistò, in un ospedale
di Baghdad, una vittima dei bombardamenti contro l’Iraq. Una
bomba gli aveva spezzato un braccio. Ed ora ha otto anni ed ha subito
undici operazioni. Ha detto:
- Magari non avessimo il petrolio.
Forse il popolo del Sahara è colpevole perché nelle
sue lunghe coste c’è il maggior tesoro peschereccio dell’oceano
Atlantico e perché sotto le immensità di sabbia, che
sembrano così vuote, giace il maggior riserva mondiale di fosfati
e ci sono forse anche petrolio, gas ed uranio.
Nel Corano ci potrebbe essere, anche se non ci sta, questa profezia:
Le ricchezze naturali saranno la maledizione delle genti.
Gli accampamenti di rifugiati, nel sud dell’Algeria, sono nel
più deserto dei deserti. È un vastissimo niente, circondato
da niente, dove crescono solo le pietre. E tuttavia, in questa aridità,
e nelle zone liberate che non sono molto migliori, i saharauis sono
stati capaci di creare la società più aperta, e la meno
maschilista, di tutto il mondo musulmano.
Questo miracolo dei saharauis che sono molto poveri e molto pochi,
non si spiega solo con la loro testarda volontà di essere liberi,
che non è poi tanto normale in quei posti dove tutto manca:
si spiega anche, in larga misura, con la solidarietà internazionale.
E la maggior parte degli aiuti proviene dai popoli della Spagna. La
loro energia solidale, memoria e fonte di dignità, sono molto
più potenti del viavai dei governi e dei meschini calcoli delle
imprese.
Dico solidarietà, non carità. La carità umilia.
Non si sbaglia il proverbio africano che dice: la mano che riceve
sta sempre sotto alla mano che dà.
I saharauis aspettano. Sono condannati a pene di angoscia perpetua
e di perpetua nostalgia. Gli accampamenti dei rifugiati portano i
nomi delle loro città sequestrate, dei loro perduti luoghi
d’incontro, dei loro affetti: l’Aaiún, Smara…
Loro si chiamano figli delle nuvole, perché da sempre inseguono
la pioggia.
Da più di 30 anni inseguono, anche, la giustizia, che nel mondo
del nostro tempo sembra più schiva dell’acqua nel deserto.
Tradotto dal Comitato Chiapas di Torino - www.ipsnet.it/chiapas
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