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FINESTRA SULLA VERGOGNA > L'INGIUSTO LIBERO MERCATO > PREZZI LIBERI? NON E' VERO
Cosa succede al prezzo del cotone nel mondo?
Il testo è una Pubblicazione promossa da: Beati Costruttori di Pace, Campagna per la Riforma della Banca Mondiale, CIMI, Fair, Mani Tese e Rete di Lilliput, nell'ambito della campagna “L'Africa non è in vendita!”. Con la partecipazione di LiberoMondo.
Fonte: www.beati.org

L'India è la terra del cotone. Il Mahatma Gandhi aveva trasformato il fuso nel simbolo della libertà dell'India, mentre oggi il cotone è lo strumento di una nuova schiavitù. <br> La globalizzazione ha aumentato l'esportazione di questo prodotto e, sotto la spinta delle grandi corporation, gli agricoltori di Warangal, ad esempio, oggi non coltivano più il riso, le lenticchie e le verdure che sfamavano le loro famiglie, ma coltivano cotone.

In dieci anni le aree coltivate a cotone hanno avuto un incremento del 300%. Le ditte produttrici di semi hanno usato filmati di propaganda per vendere i semi di cotone ibridi promettendo ai contadini che sarebbero diventati ricchi. Questo seme è stato venduto con il nome di"oro bianco". La spesa per l'acquisto di pesticidi, però, è cresciuta da due milioni e mezzo di dollari a 50 milioni di dollari l'anno.

Invece di diventare milionari, i poveri contadini sono diventati schiavi di debiti da cui l'unica via d'uscita è il suicidio.
Nel 1998 più di 500 persone si sono suicidate nel solo distretto di Warangal, e il fenomeno è continuato fino ad oggi.

Il cotone in Africa

Ci sono tra i 2 e i 3 milioni di produttori in Africa Occidentale che dipendono direttamente o indirettamente dal cotone e che sostengono circa 15 milioni di persone. <br> Sono piccoli coltivatori, tra le persone più povere della terra, con un indice di sviluppo umano che colloca Burkina Faso, Benin, Ciad e Mali (i principali Paesi cotonieri concentrati nell'Africa occidentale subsahariana), rispettivamente al 169-esimo, 158-esimo, 166-esimo e 164-esimo posto su 173 Paesi monitorati dalle Nazioni Unite.

Eppure questi Paesi insieme assicurano il 10% della fibra sul mercato, e il cotone rappresenta il 42% delle esportazioni per il Mali, il 34% per il Ciad, il 45% per il Burkina Faso e il 65% per il Benin, costituendo per ciascuno di essi tra il 5 e il10% del loro PIL.
Allora perché i contadini fanno la fame?

Prezzi liberi? Non è vero

Fin dalla metà degli anni Novanta il mercato del cotone ha sofferto di una depressione cronica dei prezzi. Addirittura, nell'annata 2001-2002 è sceso al di sotto dei livelli raggiunti nella Depressione americana, arrivando a 2,7 dollari per chilo di cotone africano. Prezzo che avrebbe potuto raggiungere almeno i 4 dollari, senza l'effetto dei sussidi riconosciuti ai propri coltivatori di cotone da Stati Uniti ed Europa.

Più terra per il cotone, meno terra per mangiare

Con i prezzi tanto bassi, l'unico modo per i produttori africani per guadagnare un po' di più è stato quello di occupare con il cotone anche la terra che prima dedicavano all'orto per la famiglia o per le verdure da vendere al mercato. Proprio come è successo in India. Peraltro anche gli istituti di credito spesso concedono prestiti per comprare semi e input in proporzione alla superficie coltivata, altro fatto che spinge i contadini a ridurre sempre di più lo spazio destinato all'agricoltura di sussistenza.

Così fame e denutrizione diventano sempre più gravi nelle terre del cotone.

E oggi arrivano gli EPAs

Gli Accordi di Partenariato Economico (EPAs) che l'Europa sta discutendo con le sue ex colonie di Africa, Caraibi e Pacifico (paesi ACP) hanno l'obiettivo di creare con esse un'area di libero scambio che coinvolga il commercio di beni, compresi i prodotti agricoli, e di servizi, attraverso l'istituzione di nuove regole di accesso al mercato, che funzionino anche oltre confine e tra Paese e Paese. L'obiettivo della Commissione Europea è quello di arrivare a una liberalizzazione che coinvolga almeno il 90% del valore degli scambi in corso, secondo la prospettiva prevista anche dall'Organizzazione Mondiale del Commercio nei suoi negoziati. Secondo quanto valutato dalla Commissione UE, per raggiungere questo obiettivo i Paesi ACP devono liberalizzare tra il 67% e l'83% dei settori commerciali e dei servizi, con la rimozione delle protezioni contenute in una lista individuata dall'Unione e che prevede standard tecnici e di sicurezza, limiti agli investimenti, politiche di facilitazione al commercio, azioni di promozione della competitività, standard di qualità e quantità del lavoro e standard ambientali, protezione della proprietà intellettuale e dei dati.

I “prodotti sensibili” per l'Africa

Secondo le regole in vigore, circa 7 mila prodotti africani rientrano in un Sistema Generalizzato di preferenze, ossia sono considerati essenziali per la sussistenza di quei Paesi e godono di condizioni particolari nel mercato europeo. Di questi, 3.300 sono considerati “non sensibili” per le economie locali e godono, almeno sulla carta, di un accesso“duty-free” ai nostri mercati, che non prevede l'applicazione di tasse previste sulla loro importazione. Altri 3.700, quelli “sensibili” godono invece di una riduzione sulle tariffe. Per il tessile però, considerato settore molto vulnerabile, i Paesi più fragili beneficiano di una riduzione delle tasse fino al 20% in più rispetto al valore doganale. Altre facilitazioni vengono fornite a quei Paesi che fanno rispettare, almeno nel dettame della legge, gli standard lavorativi essenziali (clausola sociale) e alcuni specifici standard di tutela dell'ambiente, oltre a quelli che rinunciano al commercio delle armi (Everything but Arms). Appena l'economia di uno di questi Paesi, però, comincia a “ingranare”, le regole prevedono che venga escluso dal sistema preferenziale. E questi privilegi rischiano di essere presto ridotti o addirittura cancellati dagli EPAs.

I settori che verranno più colpiti dagli EPAs

L'Africa occidentale, oltre ad avere gran parte delle proprie entrate dipendente dall'esportazione poco redditizia del cotone, rischia, con l'apertura dei mercati interni ai prodotti europei, di vedere colpiti altri settori produttivi, nei quali non è pronta ad essere più competitiva dell'ex 'madre patria'. Un'analisi dell'istituto tedesco Friedrich-Ebert- Stiftung avverte che i costi più amari, soprattutto in termini occupazionali e d'impresa, verrebbero pagati nei settori dell'abbigliamento, della teleria d'arredamento, del tessile in generale, e nel calzaturiero. In secondo luogo, oltre alla fibra di cotone, ne soffriranno i tessuti a telaio e la maglieria. Un vero disastro annunciato, visto che circa il 50% delle esportazioni non agricole per Niger, Burkina Faso, Gambia, Benin e Guinea girano intorno al cotone e all'abbigliamento, mentre le telerie sono particolarmente “pesanti” nell'export di Gambia, Guinea e Senegal.

Il cotone. Definito troppo spesso, quasi un'ironia della sorte, “l'oro bianco dell'Africa”. In realtà fonte di estrema dipendenza delle fragili economie del Sud del mondo, legate a doppia mandata alle fluttuazioni del prezzo sul mercato internazionale e ad una costante erosione del prezzo negli anni. La causa principale di questa situazione è l'assenza di un sistema di gestione internazionale della domanda e dell'offerta: in un mercato fortemente liberalizzato, dove agiscono diversi paesi produttori e pochi grandi gruppi economici, lasciare mano libera al mercato significa condannare alla povertà milioni di contadini. Senza una governance della domanda e dell'offerta i destini dei produttori sono il vaso di coccio tra vasi di ferro: la Cina, con la sua capacità di iperproduzione e di iperconsumo capace di incidere fortemente sui prezzi, e i Paesi occidentali, Usa in testa, con i sussidi all'esportazione.

Solo nel 2001, il prezzo medio per una libbra di cotone era il 53% più basso rispetto al 1995. Anche in questo caso, a rimetterci sono i piccoli produttori dei paesi poveri. I sussidi statunitensi abbassano il prezzo internazionale del cotone del 9-13%, ponendo il paese al primo posto come esportatore mondiale, una posizione di primato che non sarebbe possibile senza i sussidi. Il mercato delle esportazioni di cotone, però, se ha un rilevanza economica marginale per gli Stati Uniti, per il Burkina Faso rappresenta il 50% del valore delle esportazioni ed è un settore vitale per economia nazionale.

La International Cotton Advisory Committee ha stimato che abolendo tali sussidi il prezzo mondiale potrebbe salire del 75%, permettendo ai Paesi africani produttori di aumentare il loro reddito. Ma ciò potrebbe non bastare: senza un'adeguata gestione della domanda e dell'offerta, ogni soluzione, che affronti anche il reale problema dei sussidi, rischia di essere nel medio periodo inefficace. Il declino del prezzo di tale materia prima provoca un calo dei guadagni per questi Paesi che poi si traduce in una minore possibilità di investimenti produttivi e spesa sociale. Nel 2005 si è registrato un ulteriore calo del prezzo del cotone a livello internazionale, cosa che secondo l'FMI ridurrà la crescita economica in Burkina del 2.5% del suo prodotto interno lordo, con effetti negativi sui programmi di lotta alla povertà.
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