Dal 30 dicembre 2006 al 2 gennaio 2007 ad Oventik si è tenuto un incontro che ha visto l'adesione di 3.323 persone di 74 paesi
Il Primo Incontro tra i Popoli Zapatisti e i Popoli del Mondo
Le impressioni di Franca, l’Abuela de la Red para el Chiapas
Rebelde.
Febbraio 2007 - Con le parole che seguono vorrei non solo o non tanto
informare di quello che è stato detto, di quello che è
successo, dei dati che gli zapatisti ci hanno comunicato su quanto
sono riusciti a realizzare nei tre anni dalla costituzione dei loro
governi autonomi ( le famose Juntas de Buen Gobierno) sulle difficoltà
che hanno incontrato, sugli errori che hanno commesso, infine sul
percorso che stanno compiendo per uscire dalla dimenticanza, dalla
inesistenza, che si sono concretate in una impossibile arretratezza,
nella mancanza di mezzi di sopravvivenza, di scuole, di servizi, pur
minimi, sanitari.
Vorrei invece e soprattutto riuscire a comunicare la forza l’entusiasmo
e l’allegria che i quattro giorni di Oventik mi avevano regalato,
nel vedere come una lotta giusta trova i suoi canali per progredire,
come la rabbia e l’indignazione riescono a muovere gli animi
e dunque anche le azioni, come la coscienza del proprio fare si tramuti
in passi concreti piccoli ma costanti, come il pensare e l’agire
in collettivo, che dalle tradizioni maya al mandar obedeciendo (comandare
obbedendo) caratterizzano l’esperienza zapatista,sbaraglino
il pessimismo e/o il velleitarismo delle lotte pur sacrosante che
si mettono in moto anche nel cosiddetto primo mondo se non si fa piazza
pulita delle nostre abitudini occidentali di individualismo, e quindi
di lotte per il potere, di lotte per l’egemonia e/o l’omogeneizzazione
dei soggetti in lotta.
Lì si ascoltava la voce di intere comunità, di un popolo
intero che si ascolta, discute e comanda alle proprie autorità
le decisioni da prendere, i passi da intraprendere, in base a quelle
che si riconoscono come le priorità essenziali. E tutto ciò
permette e si concreta in una forza inaudita, in una volontà
ferrea, “ aquì estamos” ci siamo, siamo qui, non
ci arrendiamo e non ci vendiamo, non ci sono “ capi “
e dunque non potrà esserci mai qualcuno che, fatto fuori, lasci
vuoti, mancanze, irreparabili perdite, l’idra dalle mille teste,
orrore timore mostro del mondo occidentale, el pueblo, continua imperterrito
il suo cammino.
Avevo letto una scritta , al Caracol di Roberto Barrios, che descrive
un aspetto di tutto questo, diceva: “Allora il ribelle, invece
di angustiarsi, cerca nuove vie per costruire un altro mondo che è
possibile”: ecco, la determinazione, la caparbietà, il
non mi arrendo e non mi vendo, questa è la vera allegria, il
sapere di esserci, di voler esserci, il soggetto indiviso ( Laing,
psichiatra alternativo del mondo occidentale ci avrebbe messo la firma
).
Una nuova versione della talpa di marxiana memoria? No: qui non si
tratta di una talpa che scava gallerie e che, attendendo tempi migliori
riapparirà in un tempo futuro, qui non si tratta di sparire
e poi riapparire, qui non si tratta di operare sotterraneamente e
minare il campo dell’avversario, qui “ aquì estamos”,
ci siamo, esistiamo, cioè sappiamo di esserci, e ciò
non può esserci più tolto.
A me, anziana di età
e di lotte perdute, mi era sembrato che comunicare a persone che non
avevano partecipato a questo incontro una simile determinazione, una
simile allegria potesse rappresentare esempio, non certo ricalcabile
pedissequamente, per ovvie differenze storiche ambientali culturali
politiche e via dicendo, ma pur sempre esempio, non modello, cioè
non qualcosa da imitare , ma qualcosa che possa servire come indicazione
di massima, cercando di individuare gli aspetti traducibili nel nostro
mondo, le indicazioni di valore, ciò che è rinunciabile
e ciò che non lo è, in ogni caso ciò per cui
vale la pena aiutare tale percorso storico perché non si perda
una possibilità di costruzione diversa, alternativa diciamo,
che possa magari confermarci in una nostra ipotesi di diversità,
di non asservimento.
Rebeldes somos y siempre seremos, ribelli siamo e sempre saremo, non
ci arrendiamo né ci vendiamo, forse vale la pena, al di là
delle diversità, aiutare, sostenere chi oggi, lontano da noi,
sta dimostrando nello sforzo, nelle difficoltà, nel pericolo
e nel sangue, che non ci si arrende, si va avanti e si cercano sempre
nuove vie.
Ha scritto Bellinghausen che dall’incontro abbiamo potuto constatare
l’esistenza di “ un tipo nuovo e civile di popoli indios
che lottano e resistono con altre armi e costruiscono un’opzione
di governo democratico”. Mentre buona parte dell’accademia
intellettuale li ignora, dice Bellinghausen, “ i popoli zapatisti
hanno cambiato la loro vita e non perché siano usciti dalla
povertà, ma perché si sono trasformati negli apprendisti
più avanzati del delicato compito di governare”.
Ecco,
questo mi piacerebbe comunicare, un percorso ma soprattutto la coscienza
di tale percorso, l’allegria ( così, non a caso loro
la chiamano ) la volontà di continuare, di non arrendersi,
la coscienza dei passi compiuti, l’abisso ancora da colmare,
ma insieme la chiarezza di come ci si muove, si può sbagliare,
ma ci si può correggere, indietro non si tornerà, “abbiamo
preso nelle nostre mani il nostro futuro, per i nostri figli non sarà
come per i nostri anziani”.
Lezione di pienezza, di vita, nel senso di vitalità, entusiasmo,
allora si può, qualcuno può, e non è poco, qualcuno,
che va aiutato perché anche altri sappiano che si può,
anche io, anziana, alle sconfitte storiche della mia generazione,
posso contrapporre una ipotesi vincente, oddio, per non osare troppo
, almeno una speranza condivisa.
E allora i colori, i canti, perfino gli inni ( a cui sarei refrattaria
), i ricami sontuosi delle camicie delle donne, i piedi nudi nel fango,
perfino la pioggia battente, e il fango spaventoso, la paura di scivolare,
i tamales in cui a stento si poteva trovare un po’ di carne,
venduti ai bordi della impervia discesa , o salita, di Oventik, lo
sforzo organizzativo di dar da mangiare a tutti i convenuti, ma non
si trovava se non caldo de pollo, e di pollo c’era solo l’ombra,
e gli sguardi , diretti, senza sottomissione né rancore, siamo
sulla stessa barca, gli sguardi che a me vecchia occidentale con sensi
di colpa, arrivavano al cuore come una promessa di salvezza.
Il capitolo degli sguardi merita un piccolo approfondimento: Gli occhi,
si sa!, sono lo specchio dell’anima…. Ma per gli uomini
sin rostros, i senza-volto, gli uomini che nel 1994 si coprirono il
volto per essere finalmente visti ( dopo 500 anni in cui, se andava
bene, e non si veniva schiacciati, non si era visti, tutti uguali,
piccoli, brutti, sporchi, denutriti ) gli occhi – e dunque gli
sguardi –diventano davvero l’unico cenno per captare l’altro,
e allora lì, negli occhi, davvero ci si mette l’anima,
di lì, solo di lì, si può cogliere l’interesse
per l’altro, la curiosità, l’attenzione, la lama
di un momento di rabbia…. E anche un sorriso, il sorriso di
chi non sa come altro esprimersi, la lingua acquisita, non materna,
lo spagnolo, estranea a loro e a noi, che tuttavia non impedisce un
contatto, un rapporto, una volontà di riconoscersi fratelli,
fratelli, una parola costante nei loro discorsi.
E ancora la rivendicazione orgogliosa, “non so né leggere
né scrivere ma so chi sono, cosa voglio e cosa pretendo, sono
ignorante ma non sono tonta”, la voce delle donne che si spezza
a metà del discorso per l’emozione, ma insieme la rivendicazione
della propria diversità e del proprio valore.
Il silenzio al primo spuntare del 1° gennaio durante il discorso
di Marcos, il Sup, parlando per la prima volta non in spagnolo ma
in tzotzil , gli internazionali tagliati improvvisamente e inaspettatamente
fuori per trenta minuti, ma lui parla per loro, le basi di appoggio
zapatiste, è la loro festa, il loro anniversario, sono arrivate
qui non so con quali difficoltà, con quali sacrifici, uomini,
donne col carico usuale di bambini e organizzazione familiare, cibo
ecc., dice Marcos che non c’è l’io il tu ma solo
il NOI, il fare in collettivo, e noi, internazionali, stiamo lì,
a vivere qualcosa che non ci è proprio, dove è il nostro
Noi , ma forse, anche nei più distratti, e ce ne sono, qualche
seme rimarrà.
Calca molto, Marcos, su questo punto, rivendicando che tutta la loro
storia è storia collettiva dove non entra il YO, dove gli zapatisti
non servono per essere ciascuno, individualmente, perché “
la parola che ci fece e ci fa essere quello che siamo e stare dove
stiamo è la parola NOI”, indicando oltretutto proprio
qui una delle difficoltà di comprensione perché, dice,
“ questo non lo capiscono in molti e per questo, dunque, c’è
gente che si ferma un attimo e non di più, o che si affaccia
soltanto e non entra”. E ricordando i momenti più difficili
e terribili della loro storia, che troppo spesso viene dimenticata,
sottolinea che essa è la storia “ di una dignità
che lotta per farsi sempre più collettiva, per costruire un
NOI molto grande”
Come sempre il discorso di Marcos non è casuale, in questo
del 1 gennaio 2007, rivolgendosi alle basi di appoggio sottolinea
e razionalizza il senso grande di tutto questo incontro: la CORALITA’.
Si, la coralità, in cui l’assolo non c’è
o non conta, solo voci che si intersecano l’una con l’altra
per costruire un disegno complessivo, ogni voce necessaria all’insieme,
nessuna voce significante al di fuori dell’insieme.
Ecco, questo abbiamo vissuto stando lì ad Oventik. Per chi ha
avuto in questi anni un contatto, nemmeno troppo continuo o approfondito,
con il Chiapas Zapatista, l’incontro sembrava non rappresentare
una grande novità, nei suoi contenuti: cosa hanno intrapreso
le Juntas, cioè i governi autonomi, nei principali settori
della loro attività, educazione, salute, produzione, commercio,
lo si sapeva, più o meno dettagliatamente, con dati più
o meno aggiornati. Di fatto non ci si poteva aspettare se non il rapporto
sulle cose fatte, che alcuni già conoscevano, altri, venuti
per la prima volta, apprendevano lì, ( ed ho incontrato giovani
in Chiapas. per la prima volta, ma non so descrivere la loro esperienza,
nonostante qualche colloquio, incerta, confusa, chissà come
li ha toccati l’affacciarsi a questo mondo ….)
Quasi quasi la mia personale curiosità chiedeva come una sfida:
ma che potranno mai dire?
Come al solito ci hanno spiazzati. Non nei contenuti informativi,
ma nelle modalità di comunicazione ci hanno messo di fronte
a un fare ( e un parlare ) collettivo, corale, inaudito: un insegnamento
gigantesco di fronte alle nostre individualistiche contrapposizioni,
diciamo pure una gran sberla al nostro narcisismo individualistico.
Le differenze ci sono, non c’è appiattimento, ma esse
sono lì per integrarsi, correggersi, accumulare, non per distinguersi,
dividersi, impoverire. Le differenze sono un dato di fatto, poiché
non c’è, grazie a dio, un’ideologia che predica
ciò che è corretto, o giusto, e ciò che non lo
è.
Questo appare già nel modo di organizzare i lavori. Orari precisi,
mantenuti con caparbietà, tedeschi, diremmo noi mediterranei,
tempi che hanno smentito il diffuso ritornello sui tempi zapatisti,
sulle attese, i ritardi , i non si sa, ahorita, ahorita, adesso ,
invece chissà quando….
Anche il capitolo del tempo andrebbe un po’ rivisto: è
inutile che ci illudiamo, il nostro tempo è denaro, si sa,
ed ogni attesa, cioè spreco di tempo, è spreco di denaro,
non sprecare il tuo tempo, diciamo, come se il tempo fosse un valore
in sé, non rispetto alle cose con cui lo riempiamo, l’attesa
è un vuoto senza senso, benché poi a ben vedere siamo
costretti, magari bofonchiando, perché altro non ci è
dato, ad attese inqualificabili di un autobus a Roma….Ma, si
sa, un prezzo al progresso bisognerà pur pagarlo, in ogni caso
sarà colpa dell’amministrazione che io non ho votato…..
In ogni caso a OventiK, poiché è importante che tutti
abbiano il loro tempo per esprimersi, raccontare, ragguagliare, tutto
fila come un orologio svizzero.
Ma ritorniamo alla coralità. Visivamente si aveva di fronte
un lungo tavolo con i rappresentanti di tutti i governi autonomi,
per ogni giunta dalle due alle quattro persone, quindi con 12 fino
a 20 autorità, più il o i moderatori, alle spalle spesso
qualche comandante dell’EZLN, il tenente colonnello Moises,
Tacho, Brusli o altri, e, come primo impatto dava subito il senso
del collettivo. I singoli interventi delle varie autorità erano
tendenzialmente simili, con una ripetitività che al nostro
individualismo poteva sembrare (e ho sentito qualche commento in questo
senso ) un po’ impoverente, semplificante a volte declamatoria:
un gran ripetere, su qualsiasi tema, siamo qui, resistiamo, ci sono
tante difficoltà ma non molliamo, i passi sono piccoli, ma
sono passi, possiamo commettere errori ( la sfida è enorme
) ma proprio perché andiamo avanti per piccoli passi concreti,
siamo in grado di individuare l’errore e il modo migliore per
correggerlo, operiamo come autorità che obbediscono al popolo,
alle comunità che ci hanno nominate, ( il mandar obedeciendo
), il nostro è un servizio per il popolo e quindi non riceviamo
nessun danaro, non siamo pagati ( le comunità infatti provvedono
alle necessità delle loro famiglie durante il periodo dell’incarico
) e se non facessimo ciò che le comunità chiedono saremmo
sostituiti da altri. Le variazioni riguardano per lo più i
singoli progetti nei singoli settori di intervento, ma si tratta di
variazioni non sostanziali diversità.
Apparentemente, dunque, una ripetitività un pò noiosa:
eppure alla fine della serie di interventi la sensazione concreta
è quella di un lavoro costante, di uno sforzo che dà
risultati. Una parola imperante: otro, altro – che sia governo,
salute, educazione, produzione, tutto altro.
A dire: stiamo costruendo un altro modo di governare, di educare di
produrre etc..
Altro rispetto a ciò cui la politica tradizionale ci ha abituati,
altro rispetto a ciò cui il neoliberalismo ci vuole costringere.
Posso
dire che a tutti i tavoli di lavoro cui ho assistito ( alcuni erano
in contemporanea e quindi me li sono persi ) ho ricavato questa impressione
che ho cercato di descrivervi, tanti discorsi con lievi e meno lievi
variazioni sul tema, e alla fine il senso di pienezza di chi ha capito
alcune cose importanti, di chi ha toccato con mano un lavoro che progredisce.
E a questo proposito vorrei inserire una esperienza personale che
conferma l’immagine di cammino, di percorso che non si ferma
ed anche un’altra delle frasi ricorrenti all’incontro:
“diciamo quello che facciamo, facciamo quello che diciamo”.
Come Red de apoyo….noi appoggiamo il progetto educativo del
Caracol IV di Morelia. Nell’agosto del 2003 alcuni compagni,
subito dopo l’istituzione dei Caracoles, si erano impegnati
con Morelia per tale appoggio, in novembre andai a Morelia con pia
per avere il progetto che tuttavia non era ancora pronto e ce lo avrebbero
inviato. Ci proposero intanto di accompagnarci ad una scuola secondaria
già funzionante in una comunità vicina, Moises Gandhi.
Andammo, parlammo coi responsabili della scuola, con gli insegnanti
e coi ragazzi e le ragazze.
Ci parve un bell’esempio di educazione diversa, un grande sforzo
organizzativo ed un luogo di grande allegria.
Nel 2006, a marzo, in un’altra visita a Morelia, ci proposero
di andare al Municipio 17 Novembre, sempre lì vicino, per veder
una nuova scuola che chiamavano di “livellamento”, sorta
per correggere qualcosa che non era stata prevista e cioè il
dislivello di preparazione dei ragazzini delle diverse comunità
che dovevano passare alla secondaria. Di fatto le escuelitas comunitarie,
le primarie, non funzionavano nei fatti nello stesso modo, poiché
diverse erano le varie situazioni, dall’effettivo coinvolgimento
delle famiglie rispetto all’educazione, al fatto che la frequenza
alla scuola era subordinata alle necessità di lavoro dei bambini
medesimi, dal diverso coinvolgimento dei promotori di educazione e
via dicendo. In sostanza questa nuova scuola era stata pensata come
intermedia tra escuelitas e secondaria in modo da fornire a tutti
lo stesso livello di conoscenze, vale a dire si era cercato di correggere
l’errore imprevisto. La scuola era, come al solito, costruita
in assi di legno con copertura in lamiera, era un lungo stanzone-aula,
dopodiche c’era un piccolo dormitorio, una cucina dove le donne
cucinavano per i ragazzini e poco altro.
Dopo l’incontro di Oventik di cui stiamo parlando, con Elio
dovevamo andare di nuovo a Morelia per consegnare il denaro raccolto
negli ultimi tempi per il progetto educativo. Anche questa volta ci
propongono di andare alla scuola di 17 Novembre, rimaniamo un po’
perplessi, facciamo notare che c’eravamo stati pochi mesi prima,
ma poi ci dicono che avrebbero organizzato un’intervista col
coordinatore di zona di tutti i promotori di educazione e noi, felici
e pimpanti, ci dirigiamo alla scuola. Sulla salita per arrivarci intravedo
strani edifici in muratura e immediatamente penso di aver sbagliato
strada, eppure era così facile…..Ovviamente nessuno sbaglio,
semplicemente……semplicemente (!) in otto mesi il luogo
era mutato: tre bellissimi edifici in muratura che saranno le nuove
aule ( un lusso inaudito dove si campa in capanne di assi con tetti
in lamine), con finestre a vetri, pavimenti ( normalmente la capanna
insiste sulla pura terra ), la precedente scuola trasformata in un
dormitorio più ampio, gabinetti costruiti dal nulla, con un
sistema per raccogliere e convogliare l’acqua piovana…….
Beh, non vi racconto l’allegria che mi ha preso, perché
non ne sono capace. Otto mesi; e in che modo? Dalle varie comunità
(n.b. magari distanti 4-5-6 ore di viaggio), squadre di uomini ( senza
essere pagati, ovviamente ), vengono a prestare la loro opera per
questo tipo di lavori, stanno due o tre giorni (non di più,
devono tornare in comunità a riprendere il lavoro nella milpa
che è quello che dà loro il sostentamento). Uomini che
vengono a costruire le scuole dei loro figli, che vengono a costruire
edifici nella sede del Caracol che servano per tutti…..
Ancora una volta, la coralità, o, detto altrimenti, il fare
collettivo.E dunque all’incontro non ho ascoltato parole, promesse,
programmi: quello se va bene, che i politici nostri ci ammanniscono.
Parole, promesse, programmi; quello che in realtà si fa poi
è altro, è frutto di manovre, compromessi, lotte di
potere e noi comuni mortali ne siamo fuori. Lì, pare, le comunità,
i popoli zapatisti propongono, si muovono,fanno quello che hanno deciso,
il governo, la giunta trova i finanziamenti, coordina, dà impulso,
aiuta, articola proposte sulle richieste, decide, anche, ma sempre
collegata alle necessità reali espresse dalle comunità.
In questa prospettiva ascoltare ad Oventik autorità di municipi
e giunte che espongono “ ciò che si è fatto”
capovolge, realmente capovolge , ciò che siamo abituati a trovarci
di fronte in quella che noi chiamiamo politica: promesse ( se si è
a più basso livello) programmi ( se si è ad un livello
leggermente più sofisticato), l’attuazione dei quali
non dipende da chi tali promesse o programmi espone, perché
la politica viene presentata appunto come l’arte della mediazione,
badiamo bene, della mediazione o della negoziazione, non dell’accordo;
e quello che si realizza, non è sottoponibile a verifica ,
è semplicemente ciò che si è riusciti ad ottenere
negli scambi molteplici della negoziazione.
Scusate questa digressione polemica, ma veramente è il tentativo
, da parte mia, di comunicare una differenza fondamentale, quella
per cui io mi sento di impegnare gli ultimi anni della mia vita, ad
aiutare un’esperienza che possa servire, come dicevo all’inizio,
non da modello ma da indicazione di senso.
Sulle cose dette all’incontro che mi hanno colpito personalmente,
vorrei proporre solo alcuni spunti di riflessione.
1) Sull’autonomia – l’affermazione che l’autonomia
non fa parte di una teoria, non ci sono manuali che indichino vie
prefissate, non è nemmeno l’insieme delle parole che
avremmo ascoltato quel giorno. Avremmo capito l’autonomia
al secondo incontro, quello di luglio dove, andando in tutti e cinque
i Caracoles, ne avremmo constatato in concreto la pratica.
2) Sulla
giustizia – Una delle sfide più grandi che affrontano
le giunte. Il ruolo della giunta nei conflitti civili, principalmente
agrari, è quello di cercare e costruire un accordo tra le
parti non tanto o non più una semplificante applicazione
formale di una legge ( per la verità, l’autorità
di una diversa giunta proponeva una soluzione contraria, denunciando
che la mancanza di leggi precise costituiva un intralcio, e che
quindi occorreva attrezzarsi elaborando un minimo di legislazione
formale ). Nella prospettiva che mi sembrava nuova e interessante,
addirittura un conflitto può venir visto non soltanto come
un fatto negativo, perché in realtà di lì può
nascere un accordo migliore della situazione di partenza. Le autorità
della giunta sarebbero un ponte, che cerca di far nascere, costruire,
un dialogo, - n.b. un dialogo e non una negoziazione compensativa
-; dal dialogo si può giungere all’accordo ( Morelia,
Beto).
Qualche costruzione simile al carcere c’è, ma viene
usata solo in casi di massima necessità e urgenza. La PENA,
in realtà, viene quantificata in un lavoro che aiuti chi
è stato danneggiato e contemporaneamente serva per dar tempo
e possibilità di riabilitarsi a chi in tal modo riconosce
il suo errore.
Tuttavia i casi gravi come sequestri, violazioni o assassini costituiscono
ancora un grave problema irrisolto, non si sa come risolverli, si
ammette, occorrerebbero organizzazione e fondi, in ogni caso si
esclude che si tratti di costruire cose come carceri di massima
sicurezza. E l’affermazione volitiva “ stiamo pensando
come fare”. ( Morelia, Beto ).
3) Le donne. Nel tavolo di lavoro su la situazione, le sfide e gli
orizzonti delle donne, già il vedere questa lunga tavola
con almeno una trentina di donne incappucciate, sì, ma presenti
( alcune anche con qualche figlio appresso ), è stata per
me un’emozione forte. Essendo stata per alcun tempo in due
differenti comunità ho potuto intuire quale difficoltà
sia, in una società contadina come questa, il puro e semplice
uscire di casa e il puro prendere la parola di fronte ad altri,
non diciamo nemmeno in pubblico, figurarsi di fronte a un migliaio
di persone di un altro mondo. Per me è quasi stato facile
capire, sull’onda della memoria, lo sforzo su se stesse e
insieme la caparbia volontà di superare lo sforzo stesso:
per me è stato come un salto all’indietro di una trentina
d’anni, un salto alla mia pratica politica separatista femminista
degli anni ’70. Ricordavo quanto lavoro, difficoltà,
sofferenze era costata quella pratica politica a noi donne comunque
“emancipate”, borghesi o no, che vivevano comunque in
un mondo nel quale avevamo un qualche barlume di diritti, una qualche
forma di emancipazione, un qualche inserimento nel mondo del lavoro,
per quanto settorializzato ( penso alla scuola e alle attività
nei servizi sociali) e seppur di “manovalanza”rispetto
alle possibilità di carriera dei maschi. Un salto all’indietro
ricordando anche il senso di libertà orgogliosa, “io
sono mia” si diceva, di fronte al prendersi in mano autonomamente,
“in quanto donne “ si diceva ancora, il proprio percorso
politico. E le piccole, o grandi conquiste che ne uscirono fuori,
e di cui ora vivono le giovani, conquiste che costituiscono i dati
di fatto del vivere quotidiano, sembrano non avere una storia, un
passato di lotta, la memoria essendo qualcosa che nella nostra società
ha perso la funzione di raccordo fra le generazioni, anch’essa
merce e moneta di scambio, o di insulti, fra parti politiche avverse.
Ma lì, dove partono da sottozero, quale carica di sofferenze
e insieme di libertà si mette in moto?
Quale mondo, davvero nuovo, si può affacciare nel cuore e
nelle menti di queste donne che in meno di vent’anni ( lo
zapatismo inizia dieci anni prima del levantamiento del ’94
e la legge rivoluzionaria delle donne, fortemente voluta dalla comandanta
Ramona, è del ’96 ), dunque in meno di vent’anni
si trovano sedute a parlare con timidezza e orgoglio di fronte a
un migliaio di persone venute da tutto il mondo? Partono non da
una casa più o meno comoda, non da un ufficio o da una fabbrica:
escono da una champa senza né acqua né luce ( il più
delle volte ), escono da un matrimonio combinato, e quindi per lo
più non voluto, escono da una serie di gravidanze non volute
e iniziate sui loro sedici anni ( se va bene), nella comunità
camminano dietro il marito e i figli maschi, il marito magari anche
a cavallo, ma in ogni caso avanti, e sono lì a raccontarci
di come vengono prese in giro dalla maggioranza dei maschi, là
dove riescono a far parte delle autorità comunitarie, a raccontarci
come è difficile incontrarsi fra sole donne, come quasi impossibile
allontanarsi da sole dalle comunità per le riunioni ( la
notte poi, col costante e quasi ovvio pericolo di stupro), come
tutto il ramo maschile della famiglia, padre, fratelli, zii, marito,
tutti hanno diritto di decidere per loro, e per la loro vita.
Sono qui a raccontarci anche che loro, alcune, sempre più
numerose, si organizzano, pretendono, costituiscono cooperative
di lavoro, quasi sempre artesanìa, vengono nominate autorità,
ancora in minoranza ma sempre più numerose.
Sui nodi più gravi, sul nocciolo duro del machismo tuttavia
imperante appaiono un po’ più in difficoltà;
alle domande sulla violenza in famiglia riconoscono la difficoltà
a parlarne, e alla fine riconoscono che sui temi scottanti bisognerebbe,
bisognerà, si organizzerà un incontro fra sole donne:
un pugno allo stomaco, mi arriva proprio un pugno allo stomaco,
lo scandalo del separatismo degli anni ’70 si è affacciato
anche qui, pubblicamente prospettato e invocato dalla voce di una
donna giovane alla quale la consapevolezza della lotta più
generale per l’autonomia, di cui fa parte e a cui partecipa
come zapatista, permette una chiarezza, una sincerità, una
volontà di non fermarsi, che le fa fare un passo “
ci incontreremo fra sole donne” dice, un passo enorme in ogni
caso, tanto più ricordando le sue condizioni di partenza
(1).
La stessa stretta al cuore di quando una giovane del Caracol di
Roberto Barrios, mi pare, per denunciare e sottolineare la difficoltà
che incontra una donna indigena di fronte alla volontà di
lottare, di partecipare alla costruzione dell’autonomia del
suo popolo, del popolo di cui è membro, di lottare per sé
donna per occupare uno spazio degno in tale autonomia, ha semplicemente
raccontato, ora per ora, momento per momento, la giornata di una
donna indigena concludendo alla fine “ e dunque, dopo tutte
queste ore delle diverse incombenze giornaliere, non resta più
nessuna ora, nessun momento per sé , per sé con le
altre, per riunirsi, discutere, capire, decidere”. V. Woolf
aveva immaginato la necessità di una stanza tutta per sé;
le stanze nelle champas non ci sono, l’immagine si è
trasformata nell’“ora tutta per sé”.
Mi sono risuonate voci di compagne femministe, di impiegate, operaie,
insegnanti, giovani studentesse, ormai svanite nei miei ricordi,
che reclamavano un tempo o uno spazio proprio, nella miriade di
incombenze che le affossavano, un cappio che pareva inscioglibile,
e che i maschi della loro famiglia , padre, fratelli, marito non
erano disposti a slegare. Scarsa la memoria di quegli anni, noi
femministe di quel tempo non abbiamo saputo passare il testimone,
forse anche perché molte di noi si sono acquietate nel raggiungimento
di piccoli spazi di potere, si sono vendute, come direbbero gli
zapatisti, per briciole , senza mantenere ilo punto fondamentale
“ REBELDES SOMOS Y SIEMPRE SEREMOS”. E invece di una
cosa sono sicura: qui non perderanno memoria, le donne zapatiste,
un po’ perché , come dicevo i figli sono fisicamente
accanto a loro. Ma soprattutto perché nello zapatismo è
forte il ricorso alla tradizione e la memoria ( la cui importanza
Marcos ha sottolineato nel discorso della notte del 1° gennaio
) è l’asse costitutivo della tradizione, e nello zapatismo
c’è riconoscibile una volontà forte di costruire
sulla base della memoria.
Ne fa fede il rispetto per gli anziani, non formale né compassionevole.
Per esempio in buona parte dei sistemi educativi autonomi, un posto
importante è riservato agli incontri degli anziani con i
giovani, perché questi ultimi sappiano ciò che li
ha preceduti, acquisiscano così il senso storico del loro
essere nel mondo.
Un ulteriore tassello nel mosaico di ciò che ho imparato,
o reimparato, o, meglio ancora, visto in atto: la custodia attenta
della memoria, pena il perdere il senso della propria storia, dunque
della propria volontà di lotta e resistenza, ciò che
ci fa essere quello che siamo.
Non so, spero con questo fluire un po’ confuso di impressioni,
informazioni necessariamente scarse o più che altro allusive,
di aver reso, però, il senso complessivo, il fermento del
molto che a Oventik è successo per chi, come me, era presente
con la volontà di ascoltare.
Alla fin fine, di aver acceso un desiderio, capire, approfondire,
magari constatare di persona.
L’ Abuela del la Red para el
Chiapas Rebelde.
(1) N.B. Nel luglio 2007 ci sarà il Secondo incontro e a
dicembre 2007 è stato lanciato e organizzato un Terzo incontro
per sole donne, al Caracol La Garrucha, al quale i maschi sono invitati
come aiutanti nelle faccende pratiche ma dovranno assistere "CALLADITOS",
cioè senza diritto di parola.
Una volta di più la caparbietà, la serietà
dell'impegno, il non parlare a vanvera, il " DICIAMO CIO' CHE
FACCIAMO, FACCIAMO CIO' CHE DICIAMO"
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