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Gli immigrati e i giovani. L'Italia non è un Paese ospitale. I più sfruttati sono proprio loro, gli extracomunitari, costretti ad accettare lavori irregolari per sbarcare il lunario. E la stessa sorte tocca anche ai giovani, pronti a lavorare nell'illegalità, pur di muovere i primi passi nel mondo del lavoro. E' questa l'opinione dei cittadini della provincia di Roma, che hanno risposto, via telefono, a un questionario sul fenomeno delle prestazioni professionali non dichiarate, condotto con metodologia Cati, Computer assisted telephone interview. Le interviste, che hanno coinvolto un campione scelto tra i residenti della capitale e dell'hinterland romano, sono state realizzate dall'Istituto di Market Research, Cirm, per conto dell'Assessorato alla Formazione professionale e alle Politiche del Lavoro di Palazzo Valentini.
Edilizia ed agricoltura. Secondo la percezione degli intervistati, sono i settori in cui si registra la percentuale più alta di lavoratori in nero. Sono stati citati dal 28 e dal 20 per cento degli intervistati, mentre gli aiuti domiciliari soltanto dall'11 per cento, e l'industria e i servizi rispettivamente dal 6 e dal 3 per cento. Ultime le attività turistiche, 1 per cento. Ma c'è di più. Quasi 6 intervistati su 10 hanno dichiarato di «aver visto, negli ultimi tre mesi, almeno una persona che lavorava in nero». E non si tratta di un'impressione superficiale: per 4 intervistati su 10 la persona era un conoscente, e il 7 per cento ha confessato di aver lavorato in nero almeno una volta negli ultimi tre mesi. Si tratterebbe di circa 260mila residenti.
L'identikit del lavoratore in nero. Giovani, sia uomini che donne, alle prime esperienze di lavoro, e non laureati. Un alto livello d'istruzione, infatti, sembra mettere al riparo dall'illegalità. Ecco, allora, una prima conclusione della ricerca: per contrastare il lavoro nero è importante promuovere la formazione in modo che i giovani possano scegliere e non essere costretti a piegarsi al lavoro irregolare.
Una ricerca motivazionale.
Alla fase stensiva della ricerca è seguita una seconda fase, di tipo
motivazionale. I risultati di questa seconda parte confermano che l'idea del
posto fisso è ormai vissuta come una chimera lontana, e predomina una visione
negativa e sfiduciata del mondo del lavoro. La ricerca è stata condotta su due
gruppi di discussione, uno composto da lavoratori atipici, l'altro da
lavoratori in nero. Ogni gruppo era composto da circa 8-10 partecipanti, sia
italiani che extracomunitari, residenti nella provincia di Roma. Una fascia
definita cuscinetto
che si colloca a metà strada tra quella del lavoro
benestante, i regolarmente assunti a tempo indeterminato, e l'area del disagio
sociale, in cui l'esigenza primaria è la sopravvivenza.
I risultati rivelano che lavorare non in regola significa incertezza e mortificazione della propria professionalità. Con delle differenze: i più giovani, nonostante le difficoltà percepite, si dimostrano più ottimisti e più carichi di aspettative, gli stranieri confessano di vivere l'inserimento professionale con più ansia, e auspicano un cambiamento radicale, prima di tutto nella mentalità diffusa, che continua a vederli come clandestini da impiegare a basso costo. E i più pessimisti sono i partecipanti di mezza età, costretti a inventarsi lavori saltuari e sottopagati.
Il capitale sociale conterebbe più delle capacità professionali. Risulta diffusa la convinzione che trovare un'occupazione sia in buona parte una questione di conoscenze e di fortuna. E la colpa viene attribuita allo stato, che tollererebbe di fatto il lavoro nero, evadendo i controlli e non incentivando le assunzioni da parte delle aziende con agevolazioni fiscali. Il potere di intervento degli enti locali, invece, è considerato poco rilevante e le misure adottate per favorire l'occupazione inefficaci.
Le emergenze lavorative. Prima di tutto lo scollamento tra mondo della scuola e del lavoro, tra le aspirazioni personali e l'offerta del mercato. Poi la mancanza di molteplici opportunità occupazionali e la difficoltà di individuare un interlocutore che possa facilitare l'incontro con le opportunità lavorative. Inoltre, tutti denunciano una situazione di iperconcorrenza e sottolineano come manchi una contrattazione con il datore di lavoro: l'alternativa è sempre prendere o lasciare.
Due categorie psicologiche. All'interno di questo quadro generale, il Cirm ha individuato due categorie psicologiche, quella del lavoro atipico, dal lavoro part time, alle collaborazioni, agli altri tipi di contratto all'insegna della flessibilità, considerato socialmente più accettabile, sebbene di fatto squalificante, e quella del lavoro nero, sinonimo di sfruttamento e clandestinità che rimanda ad un immaginario fatto di extracomunitari, situazioni delinquenziali, bisogni negati.
Possibili soluzioni. Sono state avanzate delle proposte concrete: tra queste, ottenere un sussidio reale di disoccupazione, introdurre agevolazioni fiscali per le aziende che assumono, promuovere stage, tirocini retribuiti, trasformare il collocamento in società di lavoro interinale, avvicinare università e realtà industriale, migliorare l'offerta formativa e incentivare la mobilità internazionale nell'ambito dell'Unione Europea. In generale la richiesta è quella di anteporre il potenziamento delle strategie di assunzione ai meccanismi punitivi, sebbene si richieda, da parte delle istituzioni, maggiore controllo sul sommerso.
Aiutare gli stranieri.
Per gli stranieri, che spesso scontano la mancanza di informazione sui loro
diritti e doveri in Italia, è emersa l'esigenza di migliorare il servizio di
accoglienza e pianificare interventi di sensibilizzazione per mettere in
discussione l'equazione immigrato = irregolare = lavoro nero
. Tra le proposte,
quella di creare un vero e proprio ufficio per l'orientamento, una struttura
multirazziale e multilinguistica che possa aiutare gli stranieri ad inserirsi
nel mondo del lavoro.
Centralità della persona. In conclusione, l'Italia appare, agli atipici e agli irregolari, come «un paese-teatro in cui va in scena una strana finzione. Sul piano legale le norme sono rigide e vincolanti, in realtà ognuno è legittimato a fare quel che vuole». Il risultato interessante della ricerca Cirm, è che, in una cultura del lavoro in cui sembra predominare il mito dell'efficienza, emerge l'esigenza di ritornare a parlare anche di ospitalità, centralità della persona, e di una visone del lavoro, visto soprattutto come mezzo di promozione dello sviluppo umano.
(19 marzo 2001)
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