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letterIl Mercante in Rete
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Numero 26 - 18 settembre 1998 |
Nel mondo anglosassone corre abbastanza spesso una definizione che non è facile
tradurre. A level playing field. Che cosa significa? Un campo perfettamente
livellato e organizzato in modo che tutti i giocatori abbiano "pari
opportunità". Il concetto mi sembra molto importante e degno di qualche
approfondimento. Può dar luogo ad analisi teoriche raffinate e complesse; può anche
(cosa più importante) consentire analisi specifiche sulla situazione di unimpresa,
una persona o qualsiasi "ente" che operi nella realtà, con un rilevante
miglioramento dellefficienza, della qualità e dei risultati. Cerco di riassumere largomento nel modo più semplice possibile. Questa è unutopia. Anche senza scomodare Platone e Tommaso Moro, le utopie sono utili, perché un "riferimento ideale" aiuta a definire le strategie della realtà possibile e perché senza unaspirazione (per sua natura irraggiungibile anche senza scomodare Johann Fichte) non può esistere alcun progresso, né una condizione umana che non sia rassegnata e inconcludente. Ma mi sembra necessario capire che nella realtà nessun playing field è mai level. Questo è possibile, entro certi limiti, in ambienti costruiti e controllati come il "campo" in cui si svolge una gara atletica o qualsiasi altra competizione sportiva. Ma nemmeno in quelle condizioni può essere perfetto. Una persona può avere prestazioni diverse da unaltra in relazione a fattori che non sono "perfettamente controllabili". Il clima, lorario, il luogo, lo stato danimo degli spettatori... Neppure in un gioco apparentemente "astratto", come gli scacchi, una partita è governata solo dalle sue regole e insensibile allambiente. Quando parliamo di un ambiente non costruito o controllato, come la società in cui viviamo o il mercato, mi sembra evidente che la realtà non coincide mai con il "modello teorico" del level playing field. Capire come e perché può essere molto importante. Da qui in avanti, ogni discorso generale perde precipitosamente valore e diventa sempre più importante "calarsi nella realtà"; cioè puntare lanalisi sul caso specifico e sulle caratteristiche che lo rendono "unico e inimitabile", diverso da ogni altro. Ma credo che unosservazione generale sia possibile. Le strategie per affrontare il non-level playing field in cui si opera rientrano, grosso modo, in due categorie. Una è quella che in altre occasioni ho chiamato la strategia di Caio Duilio, che vinse la battaglia di Milazzo (ma non la guerra) con un artificio tecnico che trasformava una battaglia navale in uno scontro terrestre, più adatto ai suoi opliti che agli abili marinai cartaginesi. Laltra sta nel non cercare di modificare il territorio ma scegliere il terreno per cui siamo più adatti; cioè competere dove abbiamo migliori possibilità di vincere. Di nuovo, lelaborazione potrebbe essere molto complessa. Storia, antropologia, biologia, ecologia... sono tante le scienze che devono porsi questo problema e che possono aiutarci a capirlo (quindi ad avere qualche probabilità in più di risolverlo). Di nuovo cercando di semplificare, una strategia efficace è spesso una combinazione delle due cose. Ma la prima contiene qualche rischio. Non mi sembra necessario spiegare perché una "forzatura" dellambiente porta a rischi spesso imprevedibili; ciò che crediamo di aver "livellato" potrebbe nascondere sconquassi tanto più gravi quanto più abbiamo cercato di costringere un sistema a obbedire a regole artificiose. In questo modo si possono costruire "pentole a pressione" che esplodono in modo imprevedibile e violento. Gli esempi che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni sono così tanti e così evidenti che non mi sembra il caso di citarli. Fin qui ho evitato, deliberatamente, di parlare della rete; perché il problema esiste da che mondo è mondo e indipendentemente dagli strumenti di comunicazione che usiamo. Ma non è un caso che di level playing field si parli spesso a proposito dellinternet. La rete è finalmente il level playing field, il terreno che offre a tutti parità di voce e di azione? In teoria, e sul piano delle "utili utopie", può essere così. Confesso che nel tempo remotissimo (quattro o cinque anni sembrano un eone) in cui ho cominciato a dedicare gran parte delle mie energie a questo tema sono caduto nella trappola di confondere speranze e desideri con unanalisi della realtà. Devo dire con un certo dispiacere che lesplorazione di ciò che finora è dato sapere non porta alla constatazione che ci sia un "mondo perfetto" che offre a tutti pari opportunità. Ma unulteriore meditazione dice che questa non è una tragedia. Una molteplicità di campi "disuguali" può essere altrettanto ricca di occasioni per tutti di un ipotetico, unico "campo livellato". Anzi... forse la diversità è una risorsa più importante di quanto possa essere un infinito (e noiosissimo) altopiano monotonamente omogeneo. Le conseguenze, secondo me, sono due; una estremamente generale e laltra molto concreta. La prima è che molti problemi del mondo in cui viviamo possono essere risolti (e molte importanti innovazioni possono nascere) più da una moltitudine di micro attività e iniziative che dalla sempre più difficile gestione dei macro fenomeni. E questo mette seriamente in discussione i criteri con cui si cerca di gestire la "globalità"... Laltra, più immediatamente rilevante per chi non ha il compito di governare il mondo ma di gestire unimpresa o unorganizzazione, è che non si combatte mai "ad armi pari" ma è possibile scegliere come e dove impegnarsi, dove e come possiamo meglio esprimere le nostre capacità e le nostre risorse. La rete è uno strumento che arricchisce molto le possibilità di sviluppare queste strategie. Cè una metafora che non mi piace, forse perché mi ricorda le piccole corazzate tedesche nella seconda guerra mondiale; macchine di straordinaria efficienza, con equipaggi di grandi capacità... usate per un fine che non possiamo ricordare senza sgomento. Ma è vero che i sistemi di comunicazione disponibili oggi, o che potremo sviluppare domani, offrono possibilità molto interessanti alle multinazionali tascabili. Nella cultura come nelleconomia. Non su tutti i terreni... anche nella rete ce ne sono alcuni che sono e saranno presidiati in modo quasi inattaccabile dalle grandi organizzazioni, i cosiddetti dinosauri. Ma ce ne sono tanti altri in cui gli scoiattoli hanno grandi possibilità di successo. |
Alcuni lettori mi hanno chiesto di ritornare sul tema della sopravvivenza
cioè di come sia pericoloso decidere e gestire in modo difensivo. Lo faccio volentieri,
anche se è difficile affrontare un tema come questo in poche righe. Cè una vasta
letteratura sul tema del disagio e della paura; credo che largomento sia
inesauribile e che si possano ancora scrivere volumi, non inutili, sullargomento. Ma
cercherò, per quanto posso, di fare alcune brevi osservazioni. Fra le tante cose dette e scritte a questo proposito, mi sembrano rilevanti quelle che insistono sul valore del desiderio, dellaspirazione, della "realizzazione di sé". Trust your hopes and not your fears ("fidati delle tue speranze e non delle tue paure") mi scrisse qualcuno un giorno in cui mi trovavo, manager alle prime armi, a dirigere unimpresa in gravi difficoltà, mentre la "casa madre" sembrava trovarsi improvvisamente sullorlo del fallimento. Decisi di seguire quel consiglio (anche perché, valutata la situazione, non avevo altra scelta). I risultati furono piuttosto buoni... pochi anni dopo sia la società italiana, sia il gruppo internazionale (i cui problemi si erano rivelati meno gravi di quanto sembrassero) erano in ottima salute. Il rischio era alto; ma alla luce dei fatti (che purtroppo viene dopo il momento in cui occore decidere) è ovvio che una strategia "difensiva" avrebbe portato alla catastrofe. Il peggior rischio è non correre rischi diceva David Ogilvy. Non cè impresa di successo, nella politica, nella cultura e nella scienza come nelleconomia, che non abbia corso un rischio spaventoso in qualche momento della sua storia. Ma i rischi che si corrono perché si è scelto di rischiare offrono molte più probabilità di successo di quelli in cui si precipita perché a forza di chiudersi in tattiche difensive, o di fuggire da tutto ciò che preoccupa o fa paura, si cade in un crepaccio di cui non ci si era accorti. Se "aver paura" significa guardarsi dai pericoli, le persone più coraggiose di tutti i tempi ci insegnano che è necessario: "se non avessi paura sarei morto mille volte". Ma se aver paura significa esitare, evitare la responsabilità di decidere, cercare soluzioni "tranquillizzanti" invece di scegliere quelle utili... si scopre che spesso la via dellinferno è lastricata di "non intenzioni". Quando si tratta di nuove tecnologie, o comunque di cose di cui non si è ben capita lutilità, il fenomeno acquista dimensioni preoccupanti. Quasi nessuno ha il coraggio di dirlo, ma chi ha approfondito il tema della information technology sa che molto spesso si acquistano macchine e sistemi inadatti alle proprie esigenze perché guidati dalla paura. La paura di "restare indietro". La paura di essere esclusi da qualcosa che non si è capito ma, purtroppo, non si può evitare. La pura di non sapere quali soluzioni scegliere (così si fa una scelta apparentemente ovvia, ma spesso sbagliata). La paura di assumersi responsabilità (ci si affida a qualcun altro, generalmente un venditore "autorevole", così se poi qualcosa non funziona la "colpa" non è nostra). Certo, i tempi sono cambiati rispetto a ventanni fa (quando dicevo, dopo aver ben approfondito il problema, che questo "è lunico mercato in cui chi compra non sa che cosa compra e chi vende non sa che cosa vende"). Ma questo rimane uno dei mercati più torbidi e confusi, anche per limperversare di innovazioni spesso inutili, se non dannose. Guardiamoci dalla paura. Perché è il motivo principale di quellassurdo comportamento di cui ho parlato tante volte e che continua a ripetersi: scegliere le soluzioni prima di aver definito i problemi, scegliere gli strumenti senza aver stabilito con sufficiente chiarezza a che cosa devono servire. I risultati... li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. |
La distribuzione (tuttaltro che "globale") della rete è chiaramente
riassunta da questo "planisfero", che è una semplificazione di una carta
geografica che si trova su Cybergeography. È del 1997, ma la situazione non è sostanzialmente cambiata nel
frattempo.
È evidente la concentrazione delle reti in poche zone del pianeta, prevalentemente nel Nord America e in Europa. È logico che zone desertiche o comunque disabitate siano vuote; ma la mappa sarebbe diversa se rappresentasse la densità di popolazione. Fin da quando, ventanni fa o anche più, si cominciò a parlare di "società dellinformazione", era evidente che le nuove tecnologie di comunicazione potevano aprire nuove strade di libertà, benessere e progresso civile; e di conseguenza anche di "mercato", nel senso più costruttivo e durevole della parola. La diffusione delle tecnologie e delle possibilità di accesso ha avuto sviluppi molto al di là di ciò che allora si poteva prevedere. Dalla "società dellinformazione" siamo già passati a una realtà diversa, la società connessa. Ma siamo lontanissimi da una realizzazione estesa e profonda di ciò che è concretamente possibile ma non si è ancora tradotto in fatti. È ovvio che non tutti i problemi del mondo possono essere risolti "solo" dallinformazione. Chi ha fame ha bisogno di cibo; chi ha sete ha bisogno di acqua; chi è malato ha bisogno di medici, di assistenza e di cure; chi è oppresso ha bisogno di essere liberato fisicamente dai suoi carnefici; eccetera. Ma linformazione può essere estremamente importante per conoscere meglio i problemi, orientare meglio gli interventi, mettere paesi, comunità e persone in condizione di gestire la propria situazione e dipendere meno da interventi "pilotati" dallesterno. È davvero deprimente che si faccia così poco, e così male, per favorire i "non abbienti di informazione". |
Ho sempre detto che credo poco nelle profezie e
che non mi azzardo a farne. Ma confesso che mi ha divertito andare a vedere che
cosera successo in uno dei rarissimi casi in cui ho tentato di fare una
"proiezione". Alla fine del 1996 feci unanalisi, che uscì poi in un libro
pubblicato nellanno successivo; è rappresentata in questo grafico. Correvano allora, con universale consenso e senza alcuna osservazione critica, due proiezioni. Le prima era che ci fossero 25 milioni di "utenti" internet nel 1994 e che il numero crescesse del 15 per cento al mese (la famosa "crescita esponenziale" di cui molti parlano ancora oggi). A parte il fatto che (come notarono alcuni osservatori attenti) un anno dopo si disse la stessa cosa, e il numero di partenza era sempre lo stesso... nessuno si era fermato a pensare quali sarebbero state le conseguenze. Oggi il numero di persone in rete avrebbe abbondantemente superato la popolazione totale del pianeta. La curva di crescita ipotizzata è (più o meno) quella indicata nel grafico con una linea rossa. Laltra tesi, anche quella ampiamente condivisa, era "un miliardo di utenti entro il duemila". La curva è pressa poco la linea blu nel grafico. Oggi dovremmo essere intorno ai 250 milioni di persone in rete, mentre anche le stime più "ottimistiche" non vanno molto oltre i 100. Dissi allora che mi sembrava più credibile un tasso di crescita non regolare, con "alti e bassi" (il che è avvenuto) e che la curva si sarebbe "probabilmente" collocata entro una fascia (ovviamente) sempre meno precisa, perciò più ampia, man mano che si procede nel tempo. Questa ipotesi è rappresentata nel grafico dalla zona verde. E ora... le valutazioni attuali si trovano "circa" nella zona rappresentata da un tondo giallo; se ne deduce che lo spazio di "crescita ipotizzabile" dovrebbe essere "probabilmente" contenuto nella fascia gialla a destra di quel punto di riferimento; se non ci saranno fatti imprevisti, come tanti cui abbiamo assistito negli anni scorsi. A quanto pare, non ero molto lontano dalla realtà. Ma il punto fondamentale non è se allora io abbia "indovinato" o no. È che tutte le "proiezioni" devono essere esaminate con occhio critico e con una sana dose di diffidenza. Ovvio, ma forse non inutile, notare che si tratta comunque di una crescita molto forte, anche se lontana dalle proiezioni un po azzardate che "facevano testo" in tempi remoti... due anni fa. |
La "danza comica" delle cifre a proposito dellinternet sembra non
finire mai. Gli stessi giornali e telegiornali che tempo fa parlavano di oltre 2,5 milioni
di "utenti internet" in Italia (solo qualcuno esprimeva qualche dubbio) ora
parlano di "enorme crescita" che ci ha portato a 1,8. È solo un ennesimo
esempio di un ciclo che si ripete da anni con estenuante monotonia. Ma da una verifica di dati attendibili risulta che, questa volta, le cifre non sono lontane dalla realtà. Avremo, spero, ulteriori dati prima della fine dellanno. Ma (se si usa una definizione estesa del concetto di "utente") credo che non sia irragionevole affermare che oggi circa 1.800.000 persone in Italia hanno la possibilità di collegarsi, più o meno frequentemente, alla rete. Prevalentemente dal lavoro... come già si sapeva. Analizzeremo in un prossimo numero di questa rubrica qualche ulteriore dato. Ma, per quanto si è potuto verificare finora, le caratteristiche degli "utenti internet" per età, reddito, livello scolastico, zona geografica, comportamento ... eccetera ... non sono significativamente cambiate rispetto al quadro che abbiamo visto in marzo e in aprile. La cosa più interessante (e incoraggiante) in questa fase è osservare la tendenza di crescita. Sembra che nellagosto 1998 chi si occupa dellinternet in Italia non sia andato in vacanza. A parte gli scherzi (ci possono essere varie spiegazioni tecniche per una "punta" in un mese di scarsa attività di lavoro) i dati pubblicati da RIPE il 5 settembre confermano una tendenza positiva in corso ormai da sei mesi. A fine agosto 1998 risultano esserci 11 paesi europei con oltre 200.000 host internet.
Per la prima volta lItalia supera (di poco) la Svezia e si colloca al sesto posto in Europa "in cifra assoluta" benché ancora molto arretrata per densità rispetto alla popolazione e al reddito. Se non si considera il caso danese, lItalia ha laumento più rapido nel mese di agosto e (fatto più rilevante) negli ultimi sei mesi. Con una crescita nettamente superiore alla media europea, lItalia comincia a mostrare una tendenza molto dinamica. Se continuerà nei prossimi mesi saremo davvero in una fase importante di sviluppo; come dicevo nel numero del 16 agosto, un andamento di questo genere potrebbe portarci in tre anni a quel 12-13 per cento sul totale europeo che rappresenta lequilibrio rispetto al nostro ruolo economico in Europa. Un grafico della crescita dei host italiani (dallagosto 1997 allagosto 1998) rende evidente una nuova tendenza in corso dal marzo 1998. Host Internet in Italia agosto 1997 - agosto 1998 Dati RIPE Réseaux IP Européens Mi sembra interessante anche questo grafico della percentuale di host italiani sul totale europeo dallagosto 1997 allagosto 1998. Host internet in Italia come % del totale europeo Elaborazione su dati RIPE Réseaux IP Européens
Per la prima volta nellagosto 1998 lItalia ha superato il suo "massimo storico" come percentuale dellEuropa, che era stato nellagosto 1997. Ora lobiettivo dovrebbe essere il raddoppio; cosa che, come abbiamo visto, non è impossibile nellarco di tre o quattro anni. Nel prossimo grafico confrontiamo la crescita italiana ed europea con base agosto 1997 = 100.
Vediamo che lItalia, dopo un periodo di debolezza rispetto allandamento europeo, da sei mesi è nettamente in ripresa. Sarebbe importante incoraggiare lo sviluppo, non interferire con freni e controlli inopportuni, far crescere una coscienza culturale e umana che porti luso della rete anche nelle famiglie e in quei settori della popolazione che ne sono ancora esclusi. Ma, come vedremo nelle osservazioni che seguono, cè chi sta facendo tutto il possibile per ostacolare un sano sviluppo della rete in Italia. |
Ho sentito voci autorevoli, compresa quella del Prof. Gianni Degli Antoni
("storico" sostenitore dellinternet) dire: Non ha importanza se partono
male, se fanno cose sbagliate, se si interessano di stupidaggini. Limportante è che
prendano confidenza con la rete". Non mi sento di contraddire queste affermazioni, che contengono una buona dose di saggezza e di realismo. Ma un conto è dire "lasciamoli sbagliare" e non prendere sul serio le pedagogie rigide o autoritarie o le "alfabetizzazioni" pappagallesche. Tuttaltra cosa è alimentare continuamente affermazioni che, se non sono terroristiche, sono disorientanti. "Sbagliando simpara" dice un vecchio proverbio. Questo è vero anche per le imprese, i governi, lamministrazione dello stato, i mezzi di informazione... ma non è sano lasciare a chi ha responsabilità importanti uno spazio di errore inutilmente ampio, né spargere continuamente cortine di fumo che oscurano la possibilità di tracciare un percorso ragionevole e non troppo dispersivo. "Malgrado tutto" la rete in Italia cresce; e come abbiamo visto da alcuni mesi si sviluppa in modo incoraggiante. Ma non credo che "malgrado tutto" possa essere una strategia ragionevole. Proprio perché è finalmente arrivato il momento in cui possiamo sperare di riguadagnare il tempo perduto, dobbiamo porci seriamente il problema di come si sviluppa nel nostro paese la conoscenza e luso delle nuove tecnologie di comunicazione. Come ho detto tante volte, in questa corsa disordinata verso la distorsione dei valori e del fatti chi "dice bene" della rete in modo troppo "fantatecnico" fa quasi altrettanto danno di chi sparge continuamente diffidenza, ostilità e paura. Ma ci sono casi (purtroppo ripetuti, da anni, con frequenza quasi ossessiva) in cui la denigrazione supera i limiti estremi del tollerabile. Dovremmo chiederci perché questo avvenga in Italia più spesso, e più intensamente, che in altri paesi. La "crociata contro linternet" lanciata da quasi tutti i quotidiani italiani (e da altri mezzi a grande diffusione, compresa ancora una volta la televisione) a partire dal 3 settembre 1998 ha proporzioni smisuratamente maggiori che negli altri (sette, pare) paesi in cui si dice che si sia svolta unindagine internazionale contro persone che facevano un uso criminale della rete. Per chi volesse approfondire questo argomento, ecco alcuni riferimenti.
Se qualcuno pensa che io sia così indignato da non riuscire a impedirmi di parlarne anche qui, non posso dire che abbia completamente torto. Ma cè un motivo molto più importante. Alcuni operatori intelligenti si rendono conto del problema e cominciano a preoccuparsi seriamente; anche se non mi risulta che abbiano ancora fatto sentire pubblicamente la loro voce. Mortificare lo sviluppo della rete in Italia (proprio nel momento in cui dà segni di crescita), o cercare di avvelenarlo, non è solo un danno grave per la società civile. Lo è anche per leconomia e per le imprese. |
7. Diffamazione |
Vorrei ancora una volta (in presenza
di grave e recente recidiva) denunciare il comportamento di chi "diffama"
sistematicamente la rete. Lo faccio "davanti allopinione pubblica" (o
meglio a quel piccolo numero di persone attente che hanno voglia di approfondire un
po) e non in tribunale (anche se fare denunce per diffamazione sembra uno degli
sport preferiti degli italiani) per tre ragioni:
Secondo me, le opinioni sbagliate si combattono con analisi critiche e con altre opinioni. Eccomi a dire, per quel che valgono, le mie. Non solo "notizie" di ogni sorta, spesso gonfiate e deformate, vengono diffuse senza equilibrio né approfondimento. Che sia malizia o superficialità, poco importa: il risultato è grave in ogni caso. Che il pretesto sia (secondo il caso) qualche "filia", qualche attentato, qualche vera o presunta "intrusione"... tutti i pretesti sono buoni per spargere paura e disagio. Per fare due esempio fra mille, ecco due casi recenti. Qualcuno manda a varie persone un pacco-bomba (per fortuna nessuno di quei pacchetti esplode). I giornali si affrettano a dire che il costruttore delle bombe "ha trovato sullinternet le istruzioni per farle". Nulla, che io sappia, giustifica questa ipotesi. Si ripete quel ritornello (già tante volte confermato falso) dimenticandosi di precisare che le stesse "istruzioni" si trovano facilmente nelle biblioteche e che bombe anche molto più efficaci si producono sistematicamente in paesi in cui la rete è praticamente inesistente. La "ciliegina sulla torta" è che allarticolo si affianca, nella stessa pagina del giornale, una dettagliata descrizione di come erano fatte quelle bombe: che potrebbe essere usata come "istruzione" dal prossimo bombarolo. Intanto qualcuno va in giro a minacciare sequestri di computer a persone e organizzazioni del tutto estranee ai fatti. Ma quella dei sequestri è unaltra, e grave, storia. Il secondo esempio riguarda una notizia ancora più recente: la diffusione "a disposizione di tutti", quindi anche sullinternet, del famoso rapporto Starr. Largomento è interessante. Ci vorrà unanalisi attenta per approfondire; ma sarà interessante capire se davvero la ricerca di quel documento ha prodotto un ingorgo tale da mettere in "sovraccarico" la rete; e quali siano i significati politici e culturali della così larga diffusione di un documento di questo genere. Ci vorrà tempo. E sarà meglio farlo quando sarà passata londa dei frenetici dibattiti sui problemi pubblici e privati del presidente degli Stati Uniti. Ma intanto... comè stata pubblicata la notizia? Presentando (per lennesima volta) la rete come unorda di maniaci sessuali alla ricerca di dettagli su una squallida tresca che sarebbe estremamente banale se non coinvolgesse una famiglia "importante". Naturalmente non sapremo mai quante persone hanno voluto una copia del rapporto (o letto un giornale) per capire il significato di una crisi politica, e quante invece solo per rimestare in una storiella di sesso. Ma certamente non è questo laspetto più rilevante della notizia. O i giornalisti che hanno scritto (e soprattutto "titolato") in quel modo considerano i loro lettori una massa di imbecilli, o per lennesima volta si sono fatti prendere la mano da un meschino senzazionalismo. Se fossi al loro posto, mi vergognerei. Tutti quanti (mezzi di informazione, poteri esecutivi e legislativi, funzioni della pubblica amministrazione, eccetera) continuano a ripetere che non cè una sistematica persecuzione e diffamazione della rete. Alla luce dei fatti, queste affermazioni sono poco credibili. Ma, anche se fossero sincere, la non intenzionalità del danno è unattenuante molto relativa; specialmente quando a farlo non è un "comune cittadino" ma chi, per il ruolo che occupa, ha responsabilità serie verso la collettività. Anche se, come dicono, "non avevano lintenzione" sarebbe ora che si rendessero conto dei danni che hanno fatto, e continuano a fare; e cercassero di porre rimedio, o almeno di non aggravare ulteriormente le conseguenze dei loro errori.
Non ho la fortuna di conoscere Gianni Agnelli (anche se ho lavorato per alcuni intensi anni al servizio della Fiat) né il suo attuale addetto stampa. Perciò non posso chiedere "alla fonte" se alcune sue recenti affermazioni sono state riferite in modo preciso. Intervistato a proposito della crisi istituzionale negli Stati Uniti, ha detto cose che mi sembrano molto sensate. (Come ne hanno scritte Indro Montanelli e altri giornalisti non abbagliati dagli aspetti più pittoreschi, e meno rilevanti, della vicenda). Cè però un accenno allinternet che (così come è riferito e "titolato") risulta ambiguo. Mi sembra giusto (e importante) chiederci se linusuale diffusione "urbi et orbi" di un documento come il "rapporto Starr" sia un atto di straordinaria democrazia e trasparenza o una lurida manovra del più basso intrigo politico. Mi sembra rilevante chiederci se certe forme di "democrazia di massa" non siano demagogia della peggiore specie e "lanticamera della dittatura". Mi sembra importante approfondire che ruolo abbiano in questo quadro i sistemi di comunicazione, compresa la televisione, la stampa e anche linternet. Ma sono materie che meritano un esame serio e una meditazione più lunga di quanto sia possibile nelleco immediata di un "clamoroso", e perciò deviante, fatto di cronaca. Adelante, Pedro, con juicio. |
Quando metto in discussione il significato di una parola ho sempre il
dubbio che qualcuno mi consideri un pedante; o un vecchio idiota che non capisce come una
lingua debba evolversi e cambiare continuamente. Non ho nulla contro in "neologismi". Alcuni sono linguisticamente divertenti e affascinanti, altri sono utili e precisi (anche se brutti) come ipertesto). Come allievo di Socrate e di tanti altri che dopo di lui hanno studiato significati e linguaggi, vorrei ricordare che la comprensione richiede un "comune intendere" dei significati. Parole poco comprensibili, o con significati imprecisi, confondono le idee a chi legge o ascolta; spesso anche a chi parla o scrive. Non vorrei ripetere i motivi per cui considero nocive, proprio per la loro mancanza o incertezza di significato, parole come "virtuale", "multimediale" o "ciberspazio". Questa volta, e con un diretto riferimento a quanto ho detto a proposito di disinformazione, vorrei soffermarmi su una parola che ricorre continuamente quando si parla della rete: "pirata" o "pirateria". Il termine è molto preciso, nella lingua come nella legge. Un pirata è qualcuno che rapina a mano armata, e spesso uccide, in mare (una forma di criminalità tuttaltro che estinta). Questa parola viene usata sistematicamente, con intenzionale improprietà, per parlare di tuttaltro. Mettendo nello stesso fascio erbe molto diverse. Persone che potrebbero aver fatto danni o agito "a scopo di lucro" con altre che se sono colpevoli di "intrusioni" lhanno fatto solo per vantarsi della propria abilità tecnica, senza alcuna intenzione di nuocere. E, assurdamente insieme a queste, persone che forse non hanno totalmente rispettato le (discutibili) clausole dei contratti di utilizzo del software, imposte unilateralmente dai venditori; persone che potrebbero al massimo essere citate in sede civile per non adempimento di un patto privato, ma è demenziale incriminare per reati penali. Come alcuni magistrati, per fortuna, hanno riconosciuto. Che queste improprietà siano costruite "ad arte" dalla propaganda dei grandi produttori di software è ovvio. Che se ne servano i tutori della legge è sconcertante. Quando si troverà, in tutte queste cose, un linguaggio meno ingannevole e un atteggiamento più ragionevole e corretto? |