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Marketing nei new media e nelle tecnologie elettroniche


di Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it


Numero 17 - 2 Aprile 1998
1. Editoriale: Ci vorrebbe un colpo di vento
2. I nuovi mezzi di comunicazione nelle famiglie italiane
3. Il diavoletto e altri misteri
4. Interpretare ricerche e sondaggi
5. Ri-inventare la ruota
6. L'uovo e la sorpresa

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1. Editoriale: Ci vorrebbe un colpo di vento
A me piace il vento. Pulisce l’aria, toglie la foschia, fa sventolare cose leggere, porta in giro i semi da cui nasceranno nuove piante.

Ho attraversato decine di volte quel breve tratto di mare che sta fra la Liguria e la Corsica. Sono solo ottanta miglia, un aeroplano di linea le percorre un quarto d’ora; ma una piccola barca a vela, a cinque o sei nodi, ci mette fra le 14 e le 16 ore (molte di più se deve fare bordi di bolina). Per almeno metà di quel tempo si vede solo il cerchio dell’orizzonte, perché c’è quasi sempre foschia che nasconde le montagne lontane. (L’esperienza di chi "naviga" in rete è spesso molto più simile a una barchetta fra le onde che a un jet sopra le nuvole... con la differenza che mancano carte nautiche e portolani aggiornati e affidabili; porti, rade, fari, punti di riferimento e profili di costa cambiano continuamente).

Una volta, fra tante, mi trovai in una condizione che sembrava magica. C’era un vento teso ma tranquillo, poco mare... e una visibilità straordinaria. Navigammo a vista per tutto il percorso. Vedevamo le Alpi Marittime dietro di noi, Capo Corso davanti, le Alpi Apuane a levante. Quando ci avvicinammo alla Sardegna, vedemmo Tavolara, in realtà lontana 50 miglia, come se potessimo toccarla. Con un piccolo apparecchio VHF, che abitualmente ha una portata molto inferiore, sentivamo nitidissima una stazione costiera di Trapani, a 250 miglia di distanza. Lascio ai meteorologi e agli esperti di frequenze definire quali fossero quelle eccezionali condizioni, ma non dimenticherò mai quell’esperienza.

Mi piacerebbe se qualcosa di simile succedesse nel mondo dell’information technology e della rete. Una fitta nebbia, in cui svolazzano disordinatamente molti milioni di dollari, ci impedisce di vedere con chiarezza la situazione.

Dicevo sei mesi fa in questa rubrica che qualche nuvoletta compariva all’orizzonte del mare tranquillo solcato dalla potente flotta della Microsoft. La turbolenza è arrivata, ma non è una tempesta. Devo confessare che questa Guerra fra Titani mi lascia piuttosto indifferente. Che qualche miliardo in più o in meno finisca nelle tasche di questa o quella impresa è una cosa interessante solo per i loro azionisti.

Ciò che ci interessa capire è se dallo scontro riuscirà a emergere qualche modifica strutturale del mercato – e soprattutto della qualità e del prezzo degli strumenti che usiamo per collegarci.

Le cose sono un po’ cambiate dai tempi in cui Bill Gates appariva sulle copertine di tutti i periodici del mondo come il padre e il padrone di tutto... compresa l’internet, anche ai tempi in cui della rete non si occupava affatto, anzi aveva drammaticamente perso l’autobus, che ha poi recuperato solo imponendo il suo browser come parte del sistema operativo, cioè sfruttando il monopolio che aveva già. Oggi il problema, che era ben noto a chi vive in rete ma sfuggiva all’attenzione dei "grandi mezzi", è salito all’onore delle cronache. Sulla copertina di Newsweek (9 marzo) abbiamo visto di nuovo comparire l’eterno Bill Gates; questa volta non più come l’angelo e il profeta del futuro, ma come qualcuno che cerca di discolparsi dall’accusa di essere sul trono dell’Evil Empire (l’impero del male). Così come non ho mai creduto che fosse un arcangelo, non credo oggi che sia l’arcidiavolo; è solo un astuto e fortunato uomo d’affari che ha saputo approfittare di un allentamento delle norme antitrust e delle debolezze dei suoi concorrenti.

Certo è curioso, se non divertente, vedere qualcuno che affermava senza scrupoli né esitazioni la sua volontà di "egemonia" improvvisamente presentarsi come un fragile fuscello esposto al turbine di una crudele concorrenza. Certo a nessuno può piacere la stretta mortale in cui ci tiene "wintel" (la ferrea alleanza fra Intel e Microsoft); che cosa penseremmo se fossimo obbligati e comprare tutti la stessa marca di automobili, di detersivo o di cioccolatini? Che tutta l’informatica sia sotto il controllo di due imprese alleate, con la chiara intenzione di estendere il dominio alla rete e ai suoi contenuti, è certamente più grave. Ma stranamente nessuno, all’infuori di poche persone esperte della rete, sembrava preoccuparsene. Ora il tema è arrivato all’attenzione dei grandi mezzi di informazione, del parlamento e del governo americano, dell’unione europea... vedremo come andrà a finire.

Vogliamo "demonizzare" la Microsoft e l’Intel? Mi sembra inutile. Altrettanto inutile piangere sulla loro sorte nel caso che davvero perdessero le loro posizioni dominanti. Ciò che ci serve, innanzitutto, è che nessuno abbia il monopolio. Né loro, né altri. Credo che una più libera concorrenza non sia una tragedia neppure per quelle due aziende, che hanno tutte le risorse per poter sopravvivere e mantenere un ruolo importante nel mercato mondiale anche se diventerà finalmente più aperto e meno condizionato. (Dell’Italia e della Telecom, parlerò un po’ più avanti).

Ma al di là di questa ovvia esigenza occorre qualcosa di più. Che i sistemi diventino, davvero, compatibili. Che qualcuno si metta a diffondere, anche fra gli utenti meno esperti, software più leggero e computer più semplici. Moltissime persone, che vorrebbe collegarsi alla rete, dicono che "costa troppo". Perché temono il costo degli scatti telefonici (perché nessuno spiega che si può lavorare offline?) e perché non hanno ancora capito che si può avere un abbonamento con un provider per duecentomila lire all’anno. Una cifra che è facile risparmiare in telefonate interurbane, fax e francobolli... Ma soprattutto perché pensano che occorra un computer da tre o quattro milioni, più un modem superveloce, più chissà quali inutili aggeggi. Come spiegare a un largo pubblico che un computer usato, che si può trovare per 300 mila lire, e un modem di due o tre anni fa, che chissà quanti stanno buttando via, sono più che sufficienti per quello che il 99% delle persone può o vuole fare davvero in rete?

Da qualche anno una delle grandi rivali della Microsoft, la Sun, ci promette la soluzione di tutti i nostri problemi. Non intendo entrare in un dibattito tecnico sui valori di Java; perché non ho la preparazione teorica necessaria, e perché mi sembra irrilevante. Può darsi che una tecnologia "a oggetti" possa offrire vantaggi interessanti. Ma il fatto è che tutti i programmatori del mondo continuano a scrivere per Windows, e che anche l’ultimo degli utenti si trova in una strana prigione. Ci sono dozzine di word processor che soddisfano le mie esigenze. Ma se tutti gli altri usano word for windows, e se (com’è successo) la versione più recente di quel software è indecifrabile dalle versioni precedenti... mi trovo costretto non solo a usare quel prodotto, ma anche ad aggiornarlo, benché nessuna delle complicatissime funzioni aggiunte nella nuova versione abbia per me la minima utilità. Certo: posso usare RTF (o "puro testo" ascii) e tutti lo possono leggere (anche su un vecchio Macintosh). Ma il problema è che ricevo cose scritte con l’ultima versione di word o di powerpoint e se non ho il software aggiornato non posso decifrarle. È come si ci arrivassero lettere scritte con un "inchiostro simpatico" e ci fosse sul mercato una sola marca del (costoso) liquido per far apparire la scrittura.

Secondo me, c’è una sola via di uscita. Che il sistema operativo sia unico e liberamente disponibile. O meglio, che possano esistere infiniti sistemi operativi a condizione che siano intercomunicanti e compatibili. Non mi sembra una pretesa così bizzarra. L’intera struttura dell’internet è basata su sistemi freeware. Unix, di fatto, oggi è un sistema aperto (sotto forma di Linux); purtroppo riservato a chi ha le competenze tecniche necessarie per usare un sistema molto efficiente ma di non facile comprensione per i "non iniziati". Quando dico queste cose, quasi tutti mi guardano come un matto e un sognatore. Sarebbe bello, dicono, ma è impossibile. Eppure vediamo che Netscape, per liberarsi dalla morsa mortale in cui la sta chiudendo Microsoft, decide di rendere disponibili i "codici sorgenti" del suo nuovo browser. Certo, una rondine non fa primavera... ma se un concetto del genere si diffondesse forse potremmo assistere a un vero cambiamento. Mi illudo? Chissà. Spes ultima dea.

Il problema, ovviamente, non è tecnologico. Sarebbe perfettamente possibile, con le tecnologie di oggi, avere sistemi aperti, semplici, compatibili, efficienti e poco costosi. Come spiega Kevin Kelly, nelle tecnologie moderne più alta è la qualità, più il prezzo "tende a zero". Manca solo la "volontà politica", o una visione meno miope del mercato. Insomma una coscienza culturale e sociale di ciò che davvero servirebbe per far crescere in ogni angolo del mondo la diffusione dell’elettronica – e soprattutto della rete.

Ci vorrebbe un colpo di vento che pulisse l’aria e mettesse un po’ tutti, dai grandi poteri economici, politici e culturali agli infiniti piccoli "utenti", davanti a una percezione nitida della realtà. Capiremmo di colpo quanto è assurdo, antiquato e inefficiente il sistema in cui siamo costretti a vivere. Forse davvero l’internet si aprirebbe a tanti che oggi se ne sentono esclusi. Il mercato potrebbe allargarsi così rapidamente da compensare tutti, compresa la Microsoft, dei privilegi che perderebbero dovendo operare in un regime di concorrenza. E tutti, da qui alla Tasmania, avremmo prodotti migliori a prezzi enormemente più bassi.

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2. I nuovi mezzi di comunicazione
    nelle famiglie italiane
Nel numero di febbraio di Social Trends sono pubblicati alcuni risultati di un’ampia indagine svolta da Eurisko, che l’ha presentata recentemente al pubblico degli operatori. Le informazioni – spiega l’istituto – sono state raccolte con un sistema integrato di indagini che rileva la penetrazione dei new media, esamina lo scenario della relazione con i new media e approfondisce le modalità di acquisizione e fruizione e il livello di soddisfazione con tre rilevazioni settoriali su utenti di personal computer e cd-rom, internet e nuove televisioni (pay-Tv e Tv via satellite analogica e digitale).

Secondo queste ricerche, la situazione finora si presenta così:

Penetrazione dei new media nelle famiglie italiane

(in percentuale)

grafico

La parte verde delle barre in questo grafico rappresenta l’incremento dal novembre 1996 al giugno 1997.

Fonte: Eurisko


Si conferma ciò che tutti possiamo constatare (la larga e crescente diffusione dei telefoni cellulari) e anche una bassa penetrazione, con crescita zero, dalla pay tv.

Mi sembra sorprendente, invece, la differenza fra le famiglie che "dicono di avere" un personal computer e quelle che dichiarano di avere un accesso internet. Solo il 5 per cento della famiglie in cui c’è almeno un PC ha una connessione alla rete. Questo conferma che l’arretratezza italiana in internet è dovuta soprattutto a fatti culturali: scarso interesse per la rete così com’è presentata dall’informazione più diffusa, falsa percezione della necessità di dotarsi di attrezzature costose, diffidenze e timori dovuti agli assurdi scandalismi sui rischi e sui contenuti, eccetera.

In questa serie di ricerche è stata anche verificata la "propensione all’acquisto", cioè l’intenzione dichiarata di dotarsi di nuovi strumenti.

Propensione all’acquisto di new media nelle famiglie italiane
(in percentuale)

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Fonte: Eurisko


Naturalmente, "fra il dire e il fare" c’è sempre una differenza rilevante; questi dati indicano quali sono le percezioni attuali e le intenzioni dichiarate, non possono e non devono essere lette come "profezie" su quello che sarà il comportamento reale.

Nonostante la già larghissima diffusione dei telefoni cellulari, ci sono ancora spazi di crescita (in buona parte dovuti all’uso personale di cellulari in famiglie in cui qualcuno l’aveva già). Sembra che ci sia un certa curiosità per la televisione satellitare, mentre rimane "tiepido" l’interesse nella pay tv.

Il mercato dei personal computer non è "saturo", ma sembra che quattro su cinque famiglie interessate ad avere un PC l’abbiano già acquistato. Invece nel caso dell’internet se tutte le "intenzioni" si trasformassero in comportamenti ci potrebbe essere un raddoppio nei prossimi 12 mesi. Ma, come abbiamo visto, per adeguarci a livelli "europei" occorrerebbe una crescita molto più forte.


Stili di comportamento e nuove tecnologie

In questo sistema di indagini sono stati anche verificati valori qualitativi, come l’atteggiamento verso le nuove tecnologie secondo gli "stili" di vita e di comportamento delle persone. L’Eurisko distingue sei "stili tecnologici", che si collocano in questo schema:

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Tre di questi stili sono definiti "gli esclusi".

I Preoccupati (28 % del totale) esprimono le maggiori resistenze psicologiche e sottolineano più degli altri possibili effetti negativi dell’evoluzione tecnologica sugli individui e sull’organizzazione sociale. È una categoria di età elevata e istruzione tendenzialmente bassa, con una forte componente femminile, in cui la presenza di beni/servizi ad alto contenuto tecnologico è molto inferiore alla media e la propensione ad acquisirli è la più bassa di tutto il campione.

Anche i Sorpassati (24 %) – adulti e maturi di bassa istruzione e reddito elevato – hanno difficoltà di relazione con il mondo dei new media, ma non un atteggiamento di preclusione e di chiusura. Il problema, per questo gruppo, è che la "rivoluzione " tecnologica richiede energie e mentalità difficili da acquisire in prima persona, cosicché l’information technology – con i suoi vantaggi e le sue promesse – è vissuta come un mondo "a misura delle nuove generazioni" e fuori dalla propria portata.

Gli Incuriositi (19 %) sono giovani, in maggioranza studenti, cui mancano le condizioni economiche e socio-culturali che nei coetanei più "favoriti" promuovono una partecipazione attiva al cambiamento. Così, pur essendo un segmento giovanile, in questo gruppo la presenza di beni/servizi ad alto contenuto tecnologico non è particolarmente elevata, gli orientamenti futuri sono tiepidi e prevale un atteggiamento curioso, ma superficiale.

Gli altri tre "stili tecnologici" sono definiti "inclusi".

I Cauti (12 %) sono una categoria di buon livello socio-culturale, in una fase centrale e attiva della vita personale e professionale, che sta partecipando al cambiamento ed è consapevole della sua importanza sul piano individuale e sociale. Per dotazioni e competenze i Cauti sono molto vicini ai gruppi più avanzati e attrezzati (Protagonisti ed Entusiasti) ma dimostrano un atteggiamento diverso: disincantato, concreto, lontano da eccessivi entusiasmi, consapevole dei rischi, tiepido rispetto alle promesse, tutte in positivo, dei fautori più accesi.

Lo stile dei Protagonisti (8 %) identifica un gruppo prevalentemente maschile, di età centrale e istruzione e reddito molto elevati, con una forte concentrazione di figure professionali ad alto livello. È un segmento che investe molto sul piano professionale ed è soprattutto in questa logica che si è avvicinato ai new media, vivendone da protagonista l’avvento. Per disponibilità economiche, stile di vita, bisogni professionali è il gruppo più disposto a spendere denaro nell’area dei new media. È interessante osservare che esprime un atteggiamento bilanciato tra valorizzazione delle opportunità (personali e professionali, individuali e sociali) e riconoscimento dei rischi e degli svantaggi.

Gli Entusiasti (10 %) sono giovani e giovani-adulti – più maschi che femmine, di buona condizione socio-economica – che aderiscono con passione alle prospettive di innovazione legate ai new media. Per competenze e dotazioni sono molto simili ai Protagonisti, ma differiscono decisamente per l’atteggiamento debolmente finalizzato e fondamentalmente acritico rispetto all’evoluzione tecnologica: per gli Entusiasti, infatti la motivazione fondamentale d’acquisto e d’uso dei new media è il desiderio stesso di partecipare al cambiamento e la certezza che dallo sviluppo dell’information technology nascerà un mondo migliore per tutti.

Fin qui ho citato, quasi testualmente, le osservazioni dell’istituto che ha svolto le ricerche. Nella lettura di questa analisi occorre tener conto del fatto che gli atteggiamenti sono riferiti alle nuove tecnologie in generale e non specificamente all’internet o ad altre forma di connessione telematica. Spero un giorno di riuscire ad approfondire in modo più specifico gli atteggiamenti e i comportamenti che riguardano la rete.

Naturalmente queste classificazioni non possono essere prese alla lettera, perché non si tratta di "tribù" rigidamente separate e in ogni persona possono coesistere atteggiamenti diversi. Ma alcuni fatti mi sembrano chiari. Quasi un terzo degli italiani ha un atteggiamento "aperto" nei confronti delle tecnologie. Gli altri due terzi hanno freni e diffidenze, ma anche in quelle categorie ci sono molte persone che potrebbero trarre grandi vantaggi dalla comunicazione interattiva; le barriere culturali che le tengono lontane non sono insuperabili. Se così poche persone usano l’internet o pensano di usarla nei prossimi 12 mesi, dobbiamo seriamente chiederci che cosa c’è di sbagliato nel modo in cui finora si è cercato di far conoscere e capire i valori della rete. Continuare su percorsi che si sono rivelati fallimentari (nella diffusione di conoscenze e cultura e anche più specificamente nella formazione) sarebbe imperdonabile. Errare humanum, perseverare diabolicum.

E a proposito di diavoli...

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3. Il diavoletto e altri misteri
Sembra curioso che la Telecom, per proporsi come provider ai nuovi utenti, abbia scelto un linguaggio puerile e piuttosto rozzo. Non è difficile sapere che il pubblico della rete (compresa gran parte delle persone "nuove" che arriveranno) non è fatto di analfabeti ma in prevalenza di persone con esigenze serie e livelli culturali abbastanza alti.
C’è da chiedersi se per questo pubblico il tono più adatto sia quello adottato in questa campagna, che si incarna in un goffo personaggio di nome Mr. Net; una specie di ragioniere-superman, Mr. Netinteso (immagino) a promettere fantastiche velocità che, come sappiamo, nessuno è in grado di fornire, specialmente in Italia; perché per quanto buono possa essere il collegamento dall’utente al provider la rete è piena di "colli di bottiglia"; per non parlare delle grafiche "pesanti", e di altri impicci perditempo, che ancora infestano troppi siti.
È probabile che questa campagna abbia successo, anche perché è facile supporre che sia sostenuta con dovizia di investimenti. Ma non credo che l’esito sarebbe peggiore se usasse un linguaggio un po’ meno grossolano e proponesse una visione un po’ meno superficiale della rete.
La cosa diventa ancora più bizzarra quando si arriva a una proposta specifica rivolta agli studenti universitari. L’immagine che caratterizza questa offerta è un bambino, seduto su un mouse, vestito da diavoletto. Perché proporre un’immagine infantile? E perché diabolica?

diavoletto

Sarei curioso di sapere che cosa ha indotto la Telecom a esprimersi in questo modo. Non dico che a uno studente universitario debba essere proposta la rete in modo troppo "serioso", perché è probabile (e più che giusto) che voglia usarla anche per divertirsi. Ma perché incarnare quelle persone, giovani ma adulte, in un bambolotto dall’età apparente di due anni? E perché proprio un diavoletto? Qualcuno sta cercando di sfruttare e amplificare (anziché combatterla, come tutti dovremmo) quella diffusa falsa cultura che propone la rete come il rifugio di gente equivoca, di "malintenzionati" e di sette bizzarre?

Perché (almeno finora) tutti i personaggi sono maschili? Già oggi le donne sono un terzo delle persone in rete, e spero che fra i "nuovi arrivi" siano almeno la metà.

Mi si perdoni un tocco di maligna ironia e di finta psicanalisi... ma in fatto di diavoli la Telecom è recidiva. Quale stato dell’inconscio l’ha indotta a chiamare Virgilio il suo motore di ricerca? Se la guida si chiama Virgilio, dove stiamo andando se non nei gironi dell’inferno, anche se forse quello che immaginano è solo l’inferno delle bambole? Più felice, secondo me, la metafora di chi l’ha chiamato Arianna; o, con lirica semplicità, Il Trovatore.

A parte gli scherzi, dietro a tutto questo c’è una prospettiva abbastanza seria – e in parte incoraggiante. Se la spinta della Telecom, accompagnata (speriamo) da quelle dei suoi concorrenti, allargherà l’uso della rete (come già detto, ci sono le circostanze favorevoli perché questo avvenga) sarà un fatto positivo. Se il modo in cui la rete è proposta è culturalmente debole e grossolano, peccato; ma si è visto molte persone poi riescono, anche se inizialmente deluse, a usare la rete in modo più intelligente.

Un piccolo mistero in tutto questo è la rassegnazione con cui gli altri provider accettano la dichiarata volontà di dominio oligopolistico del "diavoletto" Telecom. Non può mai essere sano che una sola impresa abbia più di metà del mercato, specialmente se quell’impresa ha il controllo delle connessioni di base. Insomma se nel mondo ci sono pesanti distorsioni della "libera concorrenza", anche in Italia abbiamo i nostri problemi.

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4. Interpretare ricerche e sondaggi
Diceva Benjamin Disraeli: There are three kids of lies: lies, bloody lies, and statistics ("Ci sono tre specie di bugie: le bugie, le sfacciate bugie, e le statistiche"). Quella frase è spesso citata dai più attenti studiosi della materia; compreso Darrell Huff, l’autore di un eccellente libriccino, How to lie with statistics, pubblicato nel 1954 e purtroppo dimenticato (ma non del tutto... la copia che ho, stampata nel 1982, è la 43ª ristampa).

David Ogilvy diceva: le ricerche sono come un lampione. Possono illuminare la strada; ma non dobbiamo fare come l’ubriaco, che ci si appoggia perché non sa stare in piedi sulle gambe.

Naturalmente il problema non è quasi mai la statistica, nel senso stretto della parola. Si possono fare molti errori anche nella definizione di un campione e nell’analisi quantitativa dei dati, ma la statistica è una scienza "quasi esatta"; o meglio, è la scienza dell’inesattezza, in grado di dirci con precisione qual è il margine di errore in ogni dato.

È assai meno facile gestire gli aspetti qualitativi: cioè il modo in cui si formulano e si pongono le domande – e l’interpretazione delle risposte. Chiunque abbia un po’ di familiarità con i sondaggi di mercato e di opinione sa che, secondo la metodologia, si può "dimostrare" tutto e il contrario di tutto. Le ricerche migliori, naturalmente, sono quelle che non si propongono di "dimostrare" qualcosa ma vanno seriamente e apertamente alla ricerca di conoscenza. Il problema è che non tutti i sondaggi sono fatti in quel modo; e farlo bene è tutt’altro che facile.

Quand’ero agli inizi della mia carriera professionale, tanti anni fa, corsi un grosso rischio. Avevo venticinque anni. Ero a Zurigo, nell’ufficio di una grande multinazionale. Le altre persone nella stanza avevano almeno vent’anni più di me, molta più esperienza e ruoli molto più importanti. Avevo studiato a fondo un problema di strategia di comunicazione e avevo un’opinione piuttosto precisa. L’ascoltarono con cortese attenzione, ma dissero che una ricerca dimostrava il contrario. Prima di rendermi conto della bestemmia che mi stava uscendo dalle labbra, dissi "Se i risultati sono quelli ci dev’essere qualcosa di sbagliato nella ricerca". Fui abbastanza sorpreso quando, invece di buttarmi in pasto ai coccodrilli, chiesero una verifica. Se l’analisi mi avesse dato torto, forse avrei dovuto dedicare il resto dalla mia vita al fare il bracciante agricolo o il commesso in una libreria. Ma si scoprì che la ricerca era sbagliata davvero... e così invece di licenziarmi mi diedero più responsabilità.

Rinfrancato da quell’esperienza, e poi da molte altre analoghe, divenni un tremendo rompiscatole in fatto di ricerche. Lo sono ancora. Spero che dopo questa piccola confessione chi mi legge capisca perché dubito di tutti i "dati" e di tutte le ricerche (e ancor più di scenari e previsioni) almeno fino a quando ho avuto modo di verificare a fondo e di trovare riscontri coerenti fra analisi diverse.

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5. Ri-inventare la ruota
La storia della pubblicità, come di ogni altra disciplina o esperienza umana, è piena di piccoli eroi silenziosi e dimenticati. Uno di questi si chiama John Williams. Non ha mai avuto cariche importanti, non ha mai (che io sappia) scritto libri, pubblicato saggi o tenuto lezioni universitarie; è in pensione da alcuni anni e non ho più sue notizie. Non è mai stato un protagonista, né aveva l’ambizione di esserlo. Ma aveva un’esperienza quotidiana e concreta di quella complicata cosa che è il coordinamento internazionale della comunicazione. Dieci anni fa scrisse un breve documento, che circolò solo all’interno del gruppo Ogilvy & Mather, intitolato "Ri-inventare la ruota".

Correvano allora (e sono in circolazione ancora oggi) alcune espressioni gergali, come NIH (Not Invented Here) per intendere la resistenza che tutti oppongono a un’idea che viene "da fuori". Più grossolanamente, da noi lo chiamavamo "non puono per Cermania". Cioè se un’idea nasceva in un paese, e si voleva applicarla in un altro, si apriva sempre un conflitto fra chi ne sosteneva l’universalità e chi la considerava inadattabile alle sue esigenze locali. Oggi ci sono più spesso organizzazioni centralizzate e forme di coordinamento rigido (la stessa cosa in tutto il mondo e guai a chi non è d’accordo) ma il problema è tutt’altro che risolto. Chi, come me, ha lavorato alle due estremità del sistema (talvolta coordinatore, talvolta coordinato) porta ancora le cicatrici di quelle interminabili schermaglie. Ricordo anche, non senza divertimento, quanto sconvolti e smarriti fossero gli americani, abituati a essere il "centro coordinatore", quando si trattava di trasferire nel loro mercato un’idea nata altrove.

Un altro modo di descrivere il problema (sempre dal punto di vista del "coordinatore" centrale) era dire "non bisogna ri-inventare la ruota". La geniale osservazione di John Williams fu che invece bisogna saperla ri-inventare. Pochi, ancora oggi, capiscono quel semplice ragionamento.

Supponiamo di avere inventato un’ottima ruota. E supponiamo di produrne decine di esemplari e trasportarli in tanti paesi diversi. L’operazione è costosa e complessa; e molto probabilmente ci troveremo poi a scoprire che le dimensione e le caratteristiche della nostra ruota sono inadatte alle automobili, carri, biciclette o camion che troviamo quando arriviamo a destinazione.

Invece di distribuire ruote, dobbiamo far conoscere a tutti il progetto (blueprint) da cui è nato il nostro prototipo. Così capiremo, prima di girare il mondo carichi di ruote inutilizzabili, se in qualche posto la nostra ruota è inutile, perché servono slitte o cammelli, barche o teleferiche; oppure come va costruita la ruota per adattarsi alle esigenze locali con tutti i valori del disegno originale.

Se questo è vero nel mondo tradizionale della comunicazione e del marketing, lo è ancora di più nel nuovo mondo della rete. Dalla metafora si possono, secondo me, ricavare alcuni insegnamenti.

Prima di tutto, le tecnologie. La soluzione più debole è usare tecnologie "prefabbricate" e costringere la nostra organizzazione ad adattarsi. Sul letto di Procuste si rischia non solo di soffrire molto, ma anche di finire malconci e perdere la propria identità. È molto più semplice definire prima le esigenze (compresi i comportamenti umani) e poi obbligare le tecnologie ad adattarsi a ciò che davvero ci serve; anche se questo significa spesso smontare e disattivare montagne di cose inutili e talvolta scrivere ex-novo qualche parte del programma. Più ci rendiamo omogenei e uguali agli altri, in obbedienza a uno stereotipo che non ci appartiene, più rischiamo di perdere la nostra individualità e i valori che ci rendono diversi, unici e inimitabili.

Ma soprattutto la qualità della comunicazione e del servizio. Scimmiottare ciò che fanno in America o in Finlandia è altrettanto sciocco che cercare di imporre abitudini bergamasche a un esquimese. Non meno sbagliato è copiare pedestremente ciò che fanno i nostri vicini. Il grande vantaggio della rete è la possibilità di verificare continuamente e imparare sempre di più. Le ruote che usiamo non sono pesanti e ingombranti oggetti di metallo. Sono idee, pensieri, informazioni... rapidamente modificabili e adattabili. Partiamo con un’idea ben chiara del blueprint, del progetto, della nostra strategia. E lasciamo che l’esperienza modifichi le nostre ruote per adattarle alla varietà del terreno in cui ci andiamo a muovere. È facile chiedere all’esquimese come vuole la slitta: e fargliela su misura senza allontanarci dal nostro computer. Ma bisogna saperlo ascoltare, e questa purtroppo non è un’arte diffusa; uno dei più gravi limiti allo sviluppo della conoscenza e della comunicazione umana è la tendenza ad ascoltare solo la propria voce. O contemplare onanisticamente la pesantezza cosmetica e i noiosi narcisismi del proprio sito web.

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6. L’uovo e la sorpresa
Alcuni mesi fa, negli uffici marketing di molte imprese che producono cioccolato, ci furono impegnative riunioni su un tema apparentemente frivolo: che cosa mettiamo nelle uova di pasqua?

Ogni anno si ripropone lo stesso problema. Che cosa acquistare che costi poco ma sia interessante? Come evitare un’eccessiva delusione quando si rompe l’uovo e si trova la sorpresa?

Sembra che nel complicato e confuso mercato dell’information technology succeda qualcosa di simile. Tutti si affannano a cercare di sorprenderci, di proporre qualcosa di nuovo, spesso bizzarro e inutile. Non solo i programmi contengono infinite funzioni che per il 99 % degli utilizzatori non servono a nulla, ma (dicono gli esperti) spesso qualcuno ci nasconde una "sorpresa" di cui non siamo neppure informati. Pare che i programmatori si divertano a infarcire il software di funzioni nascoste, come una specie di sfida agli altri tecnici per vedere se le scoprono.

Uno dei motivi per cui installo sempre meno volentieri nuovi programmi (o nuove versioni di quelli che ho) è che non solo devo sempre imparare qualcosa di nuovo e spesso astruso, ma devo passare ore a disattivare funzioni ingombranti che non mi servono, anzi mi danno fastidio.

Se chi progetta quelle gigantesche uova, che spesso assumono le dimensioni e le pericolose caratteristiche di cavalli di Troia, badasse un po’ meno alle complicazioni barocche e un po’ più alle esigenze reali delle persone e delle imprese, la vita di noi miseri "utenti" sarebbe molto più semplice.

So che questa preghiera resterà inascoltata, ma se la mia piccola voce potesse farsi sentire direi per piacere, cerchiamo di capire che la pasqua è passata. Dateci semplici tavolette di cioccolato, con una chiara indicazione degli ingredienti. Fuor di metafora, non mettete nel programma montagne di funzioni inutili e ingombranti, o almeno dateci un semplice "menu" di installazione che ci permetta di scegliere solo ciò che vogliamo. E fateci pagare solo ciò che ci serve, non imballaggi coloratissimi, nastri, fronzoli e "sorprese" di cui faremmo volentieri a meno.

E voi, che gestite i siti online... fateli accessibili facilmente con qualsiasi browser, ricchi di contenuti e non di ingombrante cosmetica; fateli "leggeri", così che non ci vogliano interminabili minuti solo per vedere le rutilanti decorazioni della vostra homepage; dateci il modo di arrivare in fretta a ciò che ci interessa, invece di somministrarci per forza ciò che piace solo a voi. Chiedo troppo?



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