BRUNO SENIOR

 

Era il figlio prediletto di Ugolino. Naturalista anche lui, come il padre, morto nella prima guerra mondiale, eroicamente. Ecco due ricordi. Il primo di Amedeo Revere, un fratello della mamma. Il secondo di autore ignoto era apparso su un quotidiano bresciano

 

I fanti, quei gloriosi fanti che primi dispersero in vai Daone il nemico annidato nella vallata profonda,  quei fanti, che udendo nel silenzio della notte la voce soprana del suolo natale, si scagliarono oltre Storo e Condino, quei medesimi che poi arrivarono primi sul Sabotino e che, dopo circa un anno, infransero la resistenza nemica sul Carso, ora lo piangono; lo piangono soprattutto con l’animo, perchè ormai quei soldati non hanno più lacrime. Essi lo amavano, erano i suoi lupi, erano gli arditi, ed Egli era stato il loro iniziatore; Egli li aveva educati nel pericolo, ne aveva fatto belve coscienti, capaci di ogni miracolo, ed egli stesso, primo dinanzi a loro, aveva sempre operato mirabilmente, così coraggioso e sereno da sembrare un Dio.


Dalla sua. vita, dai suoi dolori, dalle sue lotte prima della guerra, Egli aveva imparato a lottare per la guerra. Come prima, fin da fanciullo, superava i dolori più acerbi, i disagi più duri con una fermezza superba, così poi seppe essere un forte fino agli ultimi istanti della sua vita, quando il massimo della sofferenza delle carni lacerate si univa allo strazio di dover morire senza vedere presso di sé il padre. Sempre Egli ha vinto, è passato oltre, ha superato se stesso. In una lettera di circa un anno fa alla nonna, dopo che Bruno aveva compiuto uno dei tanti suoi eroismi, il padre suo scriveva: “Sono orgoglioso dell'educazione morale che ho dato ai miei figli, i quali purtroppo cresciuti senza la madre loro, appresero dalla pura natura, e dal vivere libero, a coraggiosamente combattere e ad affrontare la vita”.


La educazione morale di Bruno Ugolini si è svolta e sviluppata sempre in piena armonia colla natura, con un esempio mirabile, il padre. La madre sua, Elisa Revere, mite e d’un sembiante dolcissimo, è passata come un’ombra ed è morta giovane, quando Bruno non aveva che pochi anni; però l’impressione della madre sul letto di morte non si è mai cancellata dalla sua mente, e fu quello il suo primo grande dolore. Durante tutta la sua prima giovinezza, Bruno Ugolini è caratterizzato da una serietà non comune, da un amore sconfinato per la natura, e da una versatilità prodigiosa nello studio delle scienze naturali. Nelle passeggiate alpestri ch’egli compiva col padre suo (erano quelle vere passeggiate scientifiche, dalle quali Bruno raccoglieva tesori di notizie) mostrava un interesse non comune per tutti i fenomeni della natura, indagava e studiava assiduamente le leggi recondite della vita delle piante, con le quali si era familiarizzato fin da fanciullo e che amava come le creazioni più belle e perfette della natura.


Andato quindi a Padova per compiervi gli studi universitari, egli portò con sé un profondo dolore, la morte d’una creatura ch’egli aveva amato che la vita aveva spento con una malattia terribile.
Dopo qualche anno di vita goliardica, un altro triste amore turbava ancora una volta il suo spirito, ma egli anche allora ne uscì più forte, più temprato.  Da allora uno strano mutamento andò compiendosi nel suo spirito; non era cinismo ma poteva certamente sembrare una leggera ombra di scetticismo: di uno scetticismo sottile, raffinato, e che pure aveva in sé una profonda vitalità sentimentale. Sembrava leggero, ma solo per cacciare un dolore inestinguibile egli dava alla sua vita quella lieve apparenza di epicureismo, che lo rendeva così brillante e profondo insieme. Il volumetto suo preferito, e che l’accompagnava sempre, ovunque, era il “Viaggio sentimentale” di Yorik;  in quel piccolo libro così perfetto, così finemente cesellato, Egli trovava gran parte dei suoi sentimenti, gran parte delle sue piccole debolezze. Leggendo nell’animo di quel triste libertino sentimentale che era Lorenzo Sterne, Egli ritrovava il fratello dello spirito, il “sensitivo”, l’uomo che poteva e sapeva comporre, in un sorriso o in una lacrima, un filo di più nella complicata trama della vita.

Di un umorismo inestinguibile era nutrita la sua anima,e in mille forme, sotto molteplici aspetti esso si manifestava; era come uno schianto delle profonde dolcezze del vivere, che irrompenti gli salivano sulle labbra, illuminavano i suoi grandi occhi azzurri, la fronte straordinariamente pura e si diffondevano in un sorriso radioso; ed allora la sua parola già facile per la vasta cultura, si svolgeva calda, fluente, come un corso d’acqua ricco di energie possenti. Quando da poco laureato, partì per la guerra, partì come uno studente per una scuola lontana, ove s’impareranno molte cose. Vi andò allegramente, ripromettendosi di compiere tutto il suo dovere per la liberazione dell’umanità travagliata.


Egli prima del 1914 era un pacifista, un umanitario, non militante nella piccola politica quotidiana, ma di idee moderne. Partì per la guerra, convinto che questa non era un semplice conflitto d’interessi, ma un fenomeno sociale vastissimo, che comprendeva in sé complicati problemi nazionali, economici e morali, che non doveva soltanto mutare le condizioni di vita materiale dei popoli, ma, soprattutto, doveva mutare profondamente l’animo di questi. Egli non fu un volontario di guerra, ma fu un volontario della morte e sempre, ovunque, l’ha sfidata, l’ha affrontata, serenamente, con piena coscienza.

Fu all’alba del 28 maggio, a S. Giovanni di Duino, sulla via di Trieste, dopo una notte dì battaglia terribile e magnifica ad un tempo, in un’ operazione compiuta a fianco di un eroe, del maggiore Randaccio, glorificato dalla vittoria, dalla morte e dalla poesia, che Egli cadde, gravemente ferito. Venne dai compagni trasportato in una buca scavata da un grosso proiettile. Non poteva parlare e difficilmente poteva scrivere, perchè ferito alla gola ed alle braccia. Tracciò subito però alcune parole in un foglio, erano parole estreme, invocazioni ai compagni per la resistenza, parole sublimi per la sublime noncuranza di  sé stesso: “So curarmi da solo, partite, lasciatemi, fate il vostro dovere di italiani!”. Venne ricoverato in uno ospedaletto da campo. Attraverso tutte le cure che la pietà moltiplicava su quelle ferite, attraverso tutte le opere che la scienza vanamente suggeriva e praticava, le sofferenze inevitabilmente si ravvivarono. Gli balenò allora l’idea della prossima fine.

 
Nell’ultimo suo messaggio al padre, tracciato con mano tremante, tutto l’animo suo prorompe; sente la morte che si approssima ed egli l’accoglie come un’amante lungamente cercata ed attesa. Dà l’addio alla vita che tanto aveva amata con parole semplici e piane, l’abbandona senza amarezza, senza rimpianto: “Saluto tutti, sono contento di morire.  Bruno”. Le parti vitali erano state orribilmente colpite, i polmoni e la gola avevano rotto il loro ritmo, la voce si spezzava, si smorzava fra le labbra bianche. Le sofferenze furono intense e non cessarono che con la morte. Fra la materia che finiva e lo spirito che persisteva tenacemente a vivere della sua vita normale, vi era tutto un contrasto tragico. La forza di volontà fu sovrumana e fu tesa come un arco. Gli occhi, quei suoi grandi occhi azzurri, brillarono consapevoli e pensosi fino in ultimo. Il pensiero lo ha sempre pervaso, l’equilibrio delle energie nervose si conservò mirabile. Anche nell’ora estrema, di fronte agli abissi della morte, egli ha dominato tutte le colorazioni. Tutte le lamentazioni che potevano sorgere, tacquero. Non parlarono che le ferite ancora vive e sanguinanti. Entrò  nel regno della morte puro, mondo, tranquillo, e ritornò alla natura, alla grande madre.


Così Egli ha chiuso la sua vita. Cosi ha lasciato in noi tutti viva e palpitante l’immagine del suo eroismo, della sua anima generosa e molteplice, del suo saldo carattere, del suo cuore amante. 
Vi ho parlato di un Uomo, Egli è morto. E’ scomparso per sempre colui che più d’una volta, camminando al mio fianco, sui prati ove passava la primavera, mi arrestò perchè io sentissi le arcane gioie che cantavano per sentieri ignoti. Per la poesia di un ricordo, tremuli spunteranno,  sulla sua tomba, degli esili fiori azzurri, delle myosotis, le sue piccole, tenere, dolci myosotis…

Piadena, Giugno 1917 AMEDEO REVERE

 

Ed ecco l'articolo apparso sul quotidiano bresciano

Quando, quattro o cinque sere or sono, il prof Ugolino Ugolini, qui in Redazione, ci diceva che sarebbe partito l'indomani per recarsi a San Giorgio di Nogaro, dove trovatasi degente suo figlio, il capitano dottor Bruno, ferito alla bocca e al braccio, appariva tormentato da una lotta che si  agitava nel suo spirito: la lotta fra il ragionamento e la critica, per le ultime notizie giuntegli da San Giorgio, con il presentimento oscuro e vago della verità. Bruno gli aveva fatto scrivere, giacché egli non poteva, perchè ferito al braccio destro, che riteneva la ferita non grave; ed aveva anche scritto con la sinistra il nome soltanto – Bruno - ; poteva dunque sperare che le condizioni del figlio non fossero allarmanti. Ma tuttavia, benché egli argomentasse a questo modo, non pareva sicuro; insisteva anzi in questo ragionamento che sembrava fatto più per infondere fiducia in sé stesso che per persuadere gli altri...

 

Egli è partito. con l’altro figlio, capitano Augusto. E' giunto a San Giorgio; e colà una piccola pietosa bugia gli ha risparmiato il supplizio di assistere al seppellimento del suo Bruno. Ora è tornato a Brescia, si è chiuso nella sua casa col suo dolore immenso, perchè è dolore di padre e di maestro. Bruno Ugolini, infatti, aveva avuto dal padre,  oltre che la vita, anche l'Amore fervidissimo,per la natura. Giovanissimo, era stato abilitato all'insegnamento della storia naturale, da lui studiata con rigore di scienziato e passione di idealista; sì che il padre - che pur ama di eguale amore tutti i suoi figliuoli, -  vedeva in lui il suo erede spirituale, colui il quale era il continuatore degno dei suoi studi e delle sue ricerche, illuminate da tanta genialità.

 

Può dirsi che Bruno Ugolini aveva formato la sua educazione morale nel sano allenamento della montagna. Questa gli aveva dato un senso di sicurezza, di gagliardia e di tranquillità: e uno spirito di osservazione acuto, perchè la montagna era per lui il più grande libro del suo studio e della sua cultura. I  primi mesi della guerra egli li trascorse in Val di Daone. Ne conosceva tutte le vette, tutte le strade, tutte le capanne, le voci delle acque e dei boschi, i reconditi alti e profondi della valle. Quivi aveva trascorse le ore più belle delle sue escursioni; quivi, prima della guerra, era passato e ripassato, per toccare le vette più ignorate dell’Adamello, per cercare le strade verso le Giudicarie, per raccogliere materiale di  studio. Quivi lo  portò la guerra, dove aveva cercato una pace che pareva eterna. E allora rifece quei passi, quelle strade che conosceva. Ricercò l'insidia austriaca dovunque fosse annidata, nella paurosa zona neutra che correva fra l’una e l’altra cima nemica, cogliendo mine dove aveva raccolto dei fiorellini, cacciando gli austriaci dove aveva rincorso gli insetti. Di giorno, di notte, davanti sempre ai suoi soldati, con la fermezza potente del coraggio cosciente, con l'opera sicura dell'ufficiale che non adopera galloni per comandare, ma comanda con l'esempio.  Era diventato celebre.

Ogni notte era fuori, ogni giorno era all'ordine. Si parla adesso delle pattuglie degli Arditi. Bruno Ugolini ne fa l'iniziatore e il maestro per conto suo, col metodo sagace e fermo del suo temperamento. Pareva cinico ed era un sentimentale. Voleva ridere con le sue lagrime, come credeva di essere un naturalista anche nel pensare.  In verità, odiava la retorica, mentre tanti giovani se ne fanno un abito mentale. Il segreto del suo fascino sui soldati stava in questo: nel valore morale della sua personalità, nella vigoria fisica del suo corpo, che sapeva rifiutare qualunque bisogno, superare qualunque sforzo per compiere il suo dovere. E questo dava ai suoi soldati la fiducia illimitata. Con lui tutto, con lui dovunque.

Un giorno, poiché insistentemente e fastidiosamente il nemico batteva ì suoi colpi lungo le vie delle corvées, prende con sé cinque soldati, si traveste e fa travestire i suoi uomini da montanari, nascondendo i fucili in mucchi di paglia caricati a spalla. E via... Via dove? Nel campo nemico. Vede e osserva, gira e scruta; e dopo quattro giorni, quando già il suo comando lo dava dispèrso, ritorna nelle nostre linee. Lungo la strada, malauguratamente uno degli uomini della pattuglia urta  in una mina che, scoppiando, l’uccide. Bruno Ugolini non lascia il morto per strada. Fa strappare dei rami e comporre con essi una barella, sui cui adagia l'oscura vittima del dovere.  E' un episodio fra i tanti, fra i moltissimi dai quali potrebbe sembrare che egli fosse un temerario, uno spregiatore della vita. No, tale non era.  Bruno Ugolini, per abito scientifico, era un calcolatore tranquillo. E il sublime mistero della natura, nonché fargli spregiare la vita, doveva fargliela  amare col più puro amore e il più ardente desiderio. Soltanto egli, per questo amore e per questo desiderio, assegnava alla vita un valore ed una funzione cosi alti, adeguandone la misura del dovere da compiere, giungeva fino all'eroismo.

 

 - Era un magnifico ufficia!e! - dicono coloro che lo hanno conosciuto ed amato. E qui l'aggettivo riassume le più alte virtù non solo militari, ma anche civili, di Bruno Ugolini. Coscienza diritta,  lucida, serena, la sua; una coscienza nella quale una legge e una fede vi avevano messo la loro luce: - la legge e la fede del dovere. Così, e prima, da cittadino,   come da soldato d'Italia, dopo. Al padre, prof. Ugolino Ugolini, ai fratelli, alla famiglia tutta, l'espressione del nostro profondo orgoglio.

Brescia, 6 giugno 1917

 

LA BIOGRAFIA DALLA ENCICLOPEDIA BRESCIANA DI ANTONIO FAPPANI

(Edizioni "La Voce del Popolo")

UGOLINI Bruno- (Padova, 7 giugno 1889 - S. Giorgio di Nogaro, 31 maggio 1917). Di Ugolino e di Elisabetta Revere. Attivo nel circolo radicale Goffredo Mameli, nel febbraio 1910 veniva arrestato a Padova per aver parte­cipato ad accese manifestazioni anticlericali di disturbo ad una funzione di riparazione, indetta dal vescovo, in seguito ad una sassaiola ad una statua di S. Antonio. Sull'esempio del padre, fu appassionato cultore di bota­nica. Chiamato alle armi nel 77° Fanteria, combatté in vai Daone, sul Sabotino, alle porte di Gorizia, alle quote 21 e 21 bis di Monfalcone, alle fonti del Timavo e a S. Giovanni Duino e si segnalò per diversi atti di valore. Oltre a tre encomi solenni meritò due medaglie d'argento: l'una per l'attacco ad un fortino austriaco del Sabotino, per avere, alla testa di una pattuglia, aperti i varchi nei reticolati nemici; l'altra con la seguente motivazione: «Appreso che una pattuglia della Compagnia di cui egli aveva il Comando era stata sorpresa da forze avversarie superiori e che un valoroso sottufficiale del reparto era caduto ferito in prossimità della posizione nemica, pre­cedendo uno dei suoi plotoni accorreva generosamente e fulmineamente sul luogo dello scontro, e, incurante del pericolo, sotto le violente raffiche della fucileria avversaria, faceva ripetute ricerche del ferito stesso, im­pedendo ai nemici di farlo prigioniero» (Monfalcone, 6-7maggio 1917).  Il 28 maggio fu incaricato di affrontare il nemico annidato in case e boscaglie presso S. Giovanni di Duino; una scarica di mitragliatrice lo colpiva. Ferito a morte, fu trasferito nell'ospedale di campo n. 234 di S. Giorgio di Nogaro, dove mori. Venne promosso capitano per meriti di guerra.

Anche sui campi di battaglia continuò a coltivare la passione per la botanica giungendo perfino a fermarsi sotto il fuoco nemico per raccogliere erbe e fiori che lo interessavano come studioso. Lasciò in eredità un erbario che il padre, prof. Ugolino Ugolini, presentò al Congresso della Società Italiana per il progresso delle scienze di Trento del settembre 1930 con una relazione dal titolo: "Un Erbario di Guerra, composto dal cap. dott. Bruno Ugolini con piante delle Tre Venezie raccolte durante la guerra al fronte, sulle linee di combattimento, illustrato e pubblicato dal padre prof. Ugolino Ugolini" e raccolto in Val Daone, Sabotino, Carso dal 24 maggio 1915 al 28 maggio 1917. Il suo nome venne inciso in una lapide inaugurata a Rovereto durante il convegno e dedicata agli scienziati caduti in guerra. Inoltre il 4 novembre 1932 gli venne dedicata sul colle S. Stefano di Collebeato, su iniziativa dell'U.O.E.L, una lapide, poi rifatta nel 1974, con le parole, "Il Consiglio direttivo / della sezione di Brescia / dell'U.O.E.L / riconsacra questo campo / a Bru­no Ugolini / ricordando / nel nome suo glorioso / i propri soci / caduti per la patria 24/5/1914-5/5/1974".

 

 

 

 

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