Bizzarrie dei domain
(nove anni dopo)

Giancarlo Livraghi – ottobre 2011


Un mio articolo nell’ottobre 2002 riguardava le bizzarrie dei domain – stranezze nella definizione dei cosiddetti top level domain, le sigle “nazionali” o “di categoria” che raggruppano i domain internet. Ero ritornato sull’argomento nel 2005, con un aggiornamento nel 2007 e un altro nel 2009.

Vale la pena di riesaminare, con dati più aggiornati, la stessa situazione? Si, per due motivi.

Perché, se il quadro fosse sostanzialmente cambiato, sarebbe “doveroso” constatarlo. Ma non lo è. Col passare degli anni le anomalie non solo si confermano, ma continuano a moltiplicarsi.

L’altro motivo è che, assurdamente, imperversano elaborazioni insensate su questo tema e aumenta lo spreco di energie in interminabili dibattiti su decine o centinaia di ipotesi per la creazione di nuovi top level domain di cui si è ampiamente dimostrata, nei fatti, l’inutilità – a scapito di altre valutazioni che sarebbero molto più utili per capire come cresce la diffusione della rete e come si possa estenderne l’uso in quelle ampie parti del mondo in cui l’attività online è ancora molto scarsa (vedi dati internazionali) – e in quelle aree sociali e culturali che sono ancora oggi “depresse” anche nei paesi più evoluti (in particolare in Italia).

A nove anni di distanza, la confusione rimane prepotente. Continuano i tentativi di proporre e vendere soluzioni più o meno disparate o bizzarre, sempre con esito irrilevante.

Questo accade anche in molti altri modi, con l’attenzione concentrata su presunte o poco rilevanti “novità”, trascurando i valori (e i problemi) che sono, da sempre, essenziali nella rete – come in ogni forma di comunicazione umana.

I cosiddetti “nuovi” top level domain continuano ad avere scarsissimo successo. Nel 2011 il totale di host internet che risultano attivi su questo genere di TLD è salito a 670.000. Può sembrare un numero rilevante, ma non lo è. Sono meno host di quanti ne ha la Moldavia. È lo 0,07 % su 850 milioni di host nel mondo.

Nove anni fa c’erano ottomila host su quello che “sembrava” il più importante, .biz – ora sono quasi centomila. Nonostante la (relativa) crescita, rimangono pochissimi rispetto (per esempio) ai .com, che sono 155 milioni. In pratica la sigla “biz” somiglia più a “bizzarro” che a “business”.

C’è qualcosa di più per .info, con una crescita (in nove anni) da 5.600 a 360.000 (ma sono trascurabili rispetto a quasi 300 milioni .net).

Dalla presenza di 19.000 host su .int si deduce che questo TLD (esistente da parecchi anni) è molto raramente usato da organizzazioni internazionali.

Sembrano un po’ aumentati i .coop (27.900) .travel (4.900) .name (4.200) .mobi (3.200) .aero (2.600) .pro (1.400). Ma sono numeri estremamente piccoli in confronto alla dimensione generale dell’internet – e anche alle specifiche attività online riguardanti le cooperative, i viaggi, l’aeronautica o qualcosa di “mobile” – o ai molti milioni di di domain riferiti alle identità (nomi) di persone.

Sono infinitesimali nel caso di .jobs (73) e .museum (37). Sono tante le attività in rete riguardanti musei, offerta e ricerca di lavoro – ma quasi nessuno si serve dei TLD proposti per identificare le categorie di attività. Ci sono 56 host su .tel che qualcuno pensava potesse interessare a operatori di telefonia o telecomunicazioni.

In sostanza, la disponibilità di questi “nuovi” TLD, immaginati e proposti come importanti per lo sviluppo della rete, si è rivelata inutile e irrilevante – e chi pensava di potersi arricchire con il loro commercio è rimasto molto deluso.

Undici anni fa (quando, nel 2000, avevo scritto La batracomiomachia dei domain – vedi più avanti) ero caduto anch’io nell’errore di credere che potessero servire alcuni “nuovi tld”. Ma dai fatti si è imparato che sono sciocchezze. Se allora si poteva pensare che fosse ragionevole una sperimentazione con due o tre (per verificare se servissero davvero a qualcosa) è comunque inconcepibile una farraginosa proliferazione che, oltre a essere fastidiosamente inutile, potrebbe diventare perversa – se, come alcuni vorrebbero, si trasformasse in tentativi di “classificazione” e controllo, cioè censura dei contenuti.

Intanto circolano altre ipotesi di cui è difficile prevedere l’esito. Le richieste di un TLD .sex per le cose dedicate al sesso e di uno, in senso contrario, per i bambini (.kid o .kids) hanno avuto scarse adesioni e, almeno per il momento, non sono realizzate (anche se pare che il parlamento europeo abbia avuto tempo da perdere con quisquilie di questa specie). Sono esempi, fra tanti, di come si continui a sbizzarrirsi con svariate ideuzze prive di reale utilità.

Dopo anni di opinioni contrastanti e balorde disquisizioni, nel 2011 si è davvero realizzato un TLD .xxx “per adulti” che dovrebbe significare “sesso esplicito” o “pornografia”. Finora il numero di host su questo TLD è un infinitesimale 544.

Ci sono anche storie buffe, come la proposta un ipotetico “.cul” per un’indefinibile (o presuntuosa?) categoria “cultura”, che suscita una certa ilarità da parte di chi sa il francese (e anche in italiano e spagnolo lascia qualche perplessità).

Si è discusso per anni su un top level domain europeo (.eu) che si è realizzato nel 2006. Ci sono state dichiarazioni trionfalistiche su oltre due milioni di registrazoni (che comunque non sarebbero molte rispetto allo sviluppo dell’internet in Europa) ma in pratica nel 2011 su domain .eu risultano attivi 162.500 host internet. Cioè 0,1 % dell’Unione Europea – meno del hostcount di Cipro.

“Milioni di registrazioni” .eu o sono una favola, o sono “difese legali” da parte di imprese e persone che non hanno motivo di usare quel TLD, ma preferiscono impedire che qualcun altro lo usi con il loro nome. Anche altre iniziative di questo genere sono servite, più che altro, a dare lavoro agli avvocati.

È bizzarro che a qualcuno sia venuto in mente di inventare un TLD .asia e che quella sciocca idea sia stata realizzata. Alla fine del 2007 risultava presente un solo host internet così identificato. Nel 2011 sono 1.267 cioè 0,01 % di 110 milioni in Asia.

Non è meno bislacca la proposta di alcuni catalani di separarsi dal .es spagnolo con un .cat che li identifica come gatti. Anche questa stupidaggine si è realizzata, ma con scarso esito: nel 2011 si rilevano 3.600 host con quella identificazione, rispetto a milioni attivi in Catalogna (un ottavo di quanti ne ha la repubblica di Andorra). Speriamo che questo fallimento possa far diminuire il rischio di scatenare una proliferazione di identità regionali, etniche, campanilistiche o provinciali, che potrebbe provocare ogni sorta di conflitti in varie parti del mondo.




Intanto l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), cioè l’autorità che gestisce il domain name system, a quanto pare ignara di questi fallimenti, si è persa in interminabili, complicati e futili dibattiti sulla possibile istituzione di altri nuovi, quanto inutili, top level domain destinati a definire categorie di attività o di argomento – mentre è stata meno sollecita di quanto avrebbe dovuto nel prendere atto di cambiamenti nelle identità nazionali.

Per esempio il Montenegro, indipendente dal 2006, dal 2007 ha un proprio top-level domain.me” che si è cominciato a usare alla fine del 2008. Anche per la Serbia è stato necessario trovare un TLD diverso dall’ormai superato “.yu” di Yugoslavia. Ma il TLD.rs” si è realizzato solo nel 2009. Per tutti e due la “procedura” è stata burocraticamente lunga e la “conversione” è ancora incompleta.

I venditori di bizzarrie sono tornati in azione con la bislacca idea di usare “.me” nel senso di “a me”, ma hanno fallito. È ragionevole pensare che gli 11.000 host con quel TLD siano tutti in Montenegro.

In sostanza la definizione di nuovi “suffissi” nazionali è una necessità, non sempre tempestivamente soddisfatta, quando ci sono cambiamenti nella situazione geopolitica. Per il resto, le proposte “tematiche” (comprese quelle già insensatamente attuate) sono inutili – e anche pericolose quando rischiano di diventare strumenti di censura o di discriminazione culturale.




Un caso recente sta suscitando qualche contrasto – e, questa volta, c’è un dubbio ragionevole. In seguito alla scissione, nel luglio 2011, il Sud Sudan ha chiesto il TLDss”. È sensata la preoccupazione che possa sembrare “nazista”. Il problema si complica anche perché ci sono già venti TLD nazionali che cominciano per “s” ed è quasi esaurito l’alfabeto. In totale nei due Sudan ci sono solo 84 host (0,002 per mille abitanti) ma per quanto minuscola possa essere l’attività online di un paese è incontestabile il suo diritto di avere una propria identità. Perciò è necessario trovare una soluzione.

Un problema che è stato risolto bene è quello della Palestina. Poiché non è ancora riconosciuta come stato indipendente, non può avere un top level domain nazionale definito secondo quel criterio. Ma la “autorità palestinese” a Ramallah è riuscita ad avere il TLD .ps che in pratica ottiene lo stesso risultato. La trattativa è stata lunga – iniziata nel 1997, dopo varie vicende e ripensamenti si è conclusa nel 2004. Nel 2011 la Palestina ha 29.344 host internet (7,2 per mille abitanti).




Per quanto riguarda i TLD nazionali usati per “assonanza” fuori dal loro territorio, in base a un significato attribuito alla sigla, anche questa è un’idea con cui alcuni pensavano di arricchirsi, ma ha avuto scarso esito.

C’è un solo caso verificaible in cui una cosa di quel genere è accaduta davvero (ma in dimensioni poco rilevanti). Ci sono 125.000 host su .tv – tanti per Tuvalu, un minuscolo arcipelago in Polinesia con 11.000 abitanti. Pochi per le emittenti televisive di tutto il mondo.

Per gli altri... praticamente nulla. Uno dei primi a essere proposti, parecchi anni fa, per questo genere di utilizzo fu .to (Tonga) – ma si tratta di 21.000 host, tutti attribuibili ad attività locali (e non sono aumentati negli ultimi sette anni).

Sono 17.000 quelli su .ws (Samoa) che, per quanto si può constatare, nessuno usa nel senso di website (i siti web sono 500 milioni). Anche altri improbabili tentativi di vendere domain su TLD territoriali come se fossero “tematici” sono miseramente falliti. Nel caso di .fm (è della Micronesia, ma si immaginava che potesse interessare a un’emittente radiofonica) ci sono 4.600 host (pochi per 110.000 abitanti in un esteso arcipelago). Sono 2.500 (e sono in Africa) quelli su .cd (Congo) che qualcuno, chissà perché, voleva proporre nel senso di compact disc. Circa 180 su .sr (Suriname) che si immaginava potesse significare senior. Eccetera...

Ma i pasticcioni insistono. Un esempio recente di questo buffo genere è il tentativo, iniziato nel 2010, di vendere in giro per il mondo domain .co come “commerciali” (cioè in sostituzione di .com). Non cè modo di misurare l’esito di questa ennesima sciocchezza, ma è molto probabile che i più di tre milioni di host attivi su quel TLD siano tutti (o quasi) in Colombia.

Come dicevo undici anni fa (aprile 2000) in La batracomiomachia dei domain, se qualcuno abita a Torino può divertirsi ad avere un domain .to registrato a Tonga, se sta a Napoli può cercare un .na in Namibia. Un fiorentino può trovare un ottimo servizio su un .fi in Finlandia... un romano si può registrare in Romania, un palermitano a Panama, un veneziano in Venezuela, un bolognese in Bolivia... eccetera... mentre a Varese la cosa è difficile, perché è arduo ottenere un domain vaticano – e a Milano è impossibile, perché un .mi non esiste (e .mil è riservato alle attività militari americane).

Naturalmente scherzavo, ma tutta la faccenda (insensatamente dibattuta) dell’istituzione di nuove sigle si è rivelata un gioco poco divertente e un inutile perditempo – e così l’uso di TLD nazionali in base a un presunto significato.

Alcuni lettori mi hanno chiesto se sulla crescita del numero di domain .it (e perciò di host “italiani”) possa influire l’uso di quel “suffisso” da parte di stranieri (giocando, qualcuno immagina, sul significato di “it” in inglese). La risposta si trova in uno studio dell’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr di Pisa da cui risulta che i domain .it attribuibili a “utenti di altra nazionalità” alla fine del 2005 erano 22.000 – cioè il 2 % del totale (non c’è motivo di pensare che negli anni seguenti la percentuale sia aumentata). Si conferma così che il fenomeno, nel caso dell’Italia, è irrilevante. (Sono probabilmente due o tre volte tanti gli italiani che usano top-level domain diversi da .it).

Fra le bizzarrie c’è stata anche, nel 2007, la grottesca vicenda del fallimentare tentativo di trasformare la sigla .it in un orribile “marchio” e in un faraonico quanto inutilizzabile sito web. Vedi Povera Italia.it.




Un caso curioso è quello di .nu (Niue). Un’isoletta nel Pacifico con duemila abitanti, che nel 2009 aveva quasi 400.000 host internet (il fenomeno ora è in diminuzione – nel 2011 sono scesi a 76.000). Ovviamente quelle attività non hanno sede nell’isola. Infatti sono quasi tutte in Svezia.

La bizzarra vicenda cominciò più di dieci anni fa. Qualcuno nell’isola decise di fare un gioco, alla maniera di chi fa qualcosa di strano per entrare nel “Guinness dei primati”. E intanto guadagnare un po’ di soldi. L’intenzione dichiarata era “diventare il secondo TLD mondiale dopo .com” (l’idea è sbagliata, perché sono di più i .net – ma quello è un altro discorso).

L’offerta piacque a qualcuno in Svezia, che per qualche motivo aveva difficoltà a registrare un domain .se (non sembra rilevante il fatto che “nu” in svedese vuol dire “nuovo”). Fu introdotta anche qualche facilitazione tecnica, come la possibilità di usare lettere accentate (che, per raginevoli motivi “tecnici”, nella maggior parte dei TLD, compreso quello italiano, non sono possibili – per esempio il domain stupidita.it è registrato senza accento).

L’origine di questa vicenda ormai è dimenticata – ed è tramontata l’azzardata ambizione di poter competere con i milioni di domain su altri TLD. Ma rimangono in uso (benché in diminuzione) i .nu in Svezia. Sono pochi rispetto a 4.900.000 host su .se – ma questo è un caso da ricordare come “unico nel suo genere” in 27 anni di storia del domain name system.

È solo un aneddoto curioso. Ma sono molto più sciocche tante altre vicende che si propongono come se fossero chissà quali invenzioni e innovazioni per poi (dopo aver provocato un po’ di inutile confusione – e forse sottratto un po’ di soldi a qualcuno che ha commesso l’errore di crederci) cadere nell’affollato dimenticatoio dell’inutilità.




Nonostante i fallimenti, gli inventori di insensati TLD non desistono. Qualcuno dice che potrebbero diventare migliaia.

Circolano vari elenchi, di cui non è chiara l’origine, né l’intenzione, in cui sono raccolte ipotesi di “futuri” tld. Per esempio questo ne contiene cinquanta: .africa .app .art .baby .berlin .bike .blog .board .books .buy .car .cash .casino .earth .eco .eng .family .film .food .games .gay .gift .golf .green .health .hotels .law .london .love .miami .money .movie .music .nyc . paris .phone .radio. real .resort .roma .sfo .shoes .shop .site .skate .ski .sucks .surf .sydney .vegas  Alcuni sono incomprensibili, parecchi sono ambigui, tutti sono inutili.

Fin che i numeri di host basati su quelle stupidaggini rimarranno piccoli, come sono finora, è probabile che eventuali aggiunte siano più comiche che nocive. Ma, se crescessero nella misura che i venditori sperano, potrebbero fare danni. Per esempio confondere le statistiche basate sul hostcount, che (benché imperfette) sono l’unica risorsa coerente per tracciare la crescita dell’internet dal 1981 a oggi e ne prossimi anni (vedi la sezione dati di questo sito).

Per ora le dimensioni del fenomeno non sono tali da avere conseguenze preoccupanti. Ma è meglio stare attenti, perché la combinazione di avidità e stupidità è spesso pericolosa.




In fatto di host e domain, può essere interessante cogliere un altro segnale, che smentisce gli uccelli del malaugurio a proposito di un’immaginaria “morte” dell’internet libera o gratuita (come la per fortuna in diminuzione, ma stranamente ancora diffusa, opinione che “tutto” in rete sia su “punto com”).

Naturalmente c’è molta confusione: ci sono attività commerciali che non hanno il suffisso .com e ci sono attività su “puntocom” che non sono commerciali – o almeno che, anche se lo sono, offrono accesso libero e informazioni gratuite.

Ma se guardiamo i “grandi numeri” di host su TLD per categoria (prevalentemente, ma non esclusivamente, americani) vediamo che su .com sono 155 milioni, mentre in aree “non commerciali” (come .net .edu .org) sono il doppio. (Anche nei “piccoli numeri” dei “nuovi” TLD c’è un’analoga differenza: i .info sono più del triplo dei .biz).

Per quanto rozzo possa essere questo criterio di valutazione, non è privo di significato. E anche altri tipi di analisi confermano che sono predominanti in rete le attività con accesso libero e aperto a tutti. Non solo non sono moribonde, né malate, ma sono in continua e vigorosa crescita.

Un’occasione in più per confermare un concetto tante volte ribadito in queste pagine. La rete funziona e si sviluppa quando e dove è libera e aperta. E questo conviene anche alle attività commerciali, o comunque d’impresa, che funzionano molto meglio quando si collocano (senza tentare di opprimerlo o condizionarlo) in un fertile terreno di libero scambio umano e culturale. Nell’internet come in ogni altro sistema di comunicazione e di convivenza civile.


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