gassa

I nodi della rete
di Giancarlo Livraghi
febbraio 2007


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(migliore come testo stampabile)



Povera Italia.it



Alcuni lettori mi hanno chiesto di esprimere un’opinione sulla discussa vicenda di mal concepite iniziative che dovrebbero servire ad affermare nel mondo “l’immagine dell’Italia”. Ho esitato un po’, perché l’argomento è fin troppo dibattuto. Ma forse può essere utile cercare di mettere a fuoco quali siano i fatti e i problemi essenziali, dispersi e confusi in un mare di polemiche spesso giustificate, ma non sempre coerenti.

Il 20 febbraio 2007 sono stati presentati, in pompa magna, un cosiddetto “logo” che dovrebbe rappresentare l’Italia e un sito web il cui compito dovrebbe essere “riportare l’Italia al posto che le spetta” nel turismo internazionale.

Non è questa la sede per ragionare sul complesso problema di quanti e quali “turisti” visitano l’Italia e di come possa migliorare, in quel campo, la situazione del nostro paese – che, secondo i dati pubblicati dall’Economist, è al quinto posto nel mondo per numero di visitatori e al quarto per entrate dal settore.

turismo     turismo
Nel grafico a sinistra milioni di visite     Nel grafico a destra milardi di dollari
 

Quale sia “il posto che spetta” all’Italia può essere opinabile, ma è evidente che ci sono grandi possibilità di sviluppo per una risorsa importante non solo da un punto di vista economico, ma anche (o soprattutto) come fatto culturale.

Che a questo obiettivo contribuiscano seriamente le due iniziative presentate è molto improbabile. Visto il modo in cui sono state realizzate, potrebbero avere l’effetto contrario.

Sembra che il governo e gli organizzatori di queste discutibili imprese non stiano prestando alcuna attenzione all’ondata di critiche che si è scatenata. Probabilmente perché sono altre le priorità su cui si affanna il mondo politico. Ma anche perché, per cose di questo genere, è inevitabile che ci sia qualche critica – e spesso si scatenano, su ogni argomento, interessi di parrocchia, o le voci deluse di chi non ha beneficiato dell’elargizione di somme esorbitanti investite in questo progetto. Quindi qualcuno potrebbe fare spallucce e pensare «boh, sono i soliti interessi di settore». Ma non è così – o lo è solo in parte. Molte critiche sono serie e abbondantemente giustificate.

Quello che non c’è (e non se ne sente la mancanza) è il dibattito di partigianeria politica. Fatto curioso, quando ogni frangia di partito si sente perennemente obbligata a litigare su tutto, dai problemi più gravi e importanti alle più banali sciocchezze. Ma la storia non è nuova. Si è già verificato tante volte che, in queste materie, la distrazione, l’insipienza e la superficialità sono diffuse in tutta la classe politica, di ogni schieramento e ideologia – come in molti centri di potere, pubblico e privato.

Nel caso specifico, è difficile immaginare che un progetto come questo sia stato realizzato in pochi mesi. Infatti era cominciato nel 2004, quando c’erano un altro governo e un’altra maggioranza parlamentare. Quindi abbiamo un piccolo, ma non irrilevante, esempio di incompetenza bipartisan, di “coalizione” delle baggianate. Il problema, comunque, non è di “parte” politica, ma di cattiva gestione di risorse e del denaro dei contribuenti – e di cattivo servizio all’interesse nazionale.

Mi scuso per un’osservazione personale. Ma, poiché si può sempre sospettare che qualcuno parli pro domo sua, forse è bene chiarire che la mia opinione, per quello che vale, non è influenzata da alcun interesse individuale o di categoria. Non sono un “grafico”, non disegno marchi né altre immagini. Non offro e non vendo progettazione o gestione di siti web. Non faccio parte di alcuna impresa, associazione o categoria professionale impegnata in quei settori. Insomma non ho alcun motivo di invidia o di ostilità. Ma credo che non sia discutibile la mia capacità di valutare iniziative come queste – non in base ai miei gusti personali, ma a una lunga e larga esperienza nel capire, in base ai fatti, che cosa funziona e che cosa no. E ad abundantiam ciò che sto scrivendo non è solo la mia opinione, ma è confermata da tutte le persone competenti con cui ho avuto modo di verificarla. La sostanza è semplice e chiara. I (molti) critici hanno ragione. Quel progetto è mal concepito e peggio realizzato.

Si tratta di due cose connesse, ma diverse. Cominciamo da quella più semplice. Il cosiddetto “logo”. Dicono che il Presidente del Consiglio lo abbia giudicato “bellissimo”. Mi perdoni, signor presidente, ma è un’opinione molto discutibile. È ovvio che questo non è il suo mestiere. Sono altre le competenze necessarie per governare bene un paese. Ma in questo caso lei è stato, come minimo, mal consigliato.

Questo è il “coso” di cui stiamo parlando.


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Vorrei trovare parole meno scortesi, ma non ci riesco. In sintesi: è inutile ed è una schifezza. È inutile perché non si capisce a che cosa possa servire un “marchio” per rappresentare l’Italia. Ed è una schifezza perché è esteticamente pasticciato, sostanzialmente incomprensibile e non trasmette alcun valore o significato. Come ho già detto, non è solo una mia opinione. L’ho verificata con parecchie persone competenti in materia. Non ce n’è una che lo consideri “bello”, o utile, o comunque accettabile. Insomma un’idea sbagliata realizzata male.

Pare che lo sgorbio sia costato centomila euro. La spesa è esorbitante. Ma la qualità sarebbe inaccettabile anche se fosse costato un decimo di quella cifra. Dicono che la stramba e illeggibile “t” voglia rappresentare la penisola. L’idea, comunque, è banale. Ma oltre all’incompetenza grafica e concettuale sembra che qualcuno abbia idee piuttosto confuse in fatto di geografia. Voglio bene al nostro stivale, sono affascinato dalla bellezza dell’Italia, mi nausea vederla così male rappresentata. Chi di noi si riconosce in quel coso? Chi, nel mondo, vedendolo pensa all’Italia?

Il compito era stato affidato a una grande società internazionale, specializzata in questo settore. Che dire? Non sempre i più “grandi” sono i migliori. E quandoque dormitat Homerus – la montagna ha partorito un mostriciattolo. Non ci è dato sapere, comunque, quale obiettivo sia stato indicato e con quali criteri sia stata scelta e approvata questa infelice soluzione.

Sarebbe stato meglio far lavorare gli italiani? Anche senza essere nazionalisti, la risposta è si. Tanti in Italia sono capaci di fare cose enormemente migliori (e a prezzi molto più ragionevoli). Qualcuno potrebbe dire che, per una comunicazione rivolta al resto del mondo, è utile una prospettiva “esterna”. Può essere vero. Ma non mancano in Italia persone e organizzazioni con esperienze internazionali – e non sarebbe stato difficile, né costoso, coinvolgere nella valutazione qualcuno con una visione “straniera” e adeguate competenze specifiche.

Allo stato dell’arte, non è importante ridisegnare questo coso. Visto che è inutile, basta buttarlo via. Scusandosi per lo spreco del denaro dei contribuenti e per la stupida figuraccia che, nel frattempo, abbiamo fatto agli occhi del mondo (o di quella, speriamo piccola, parte del mondo che si è accorta dell’esistenza di questo papocchio).

Ma c’è di peggio. Con un po’ di ricerca online si può trovare ampia documentazione dei motivi per cui il sito “italia.it” è mal concepito e peggio realizzato. In sintesi, ecco alcuni dei problemi.

Molti si scandalizzano per la spesa. Si dice che la cosa sia costata 45 milioni di euro (qualcuno stima che, fatti meglio i conti, siano il doppio). L’impresa non è semplice, non si può fare bene con “quattro soldi”, ma non è irragionevole pensare che togliendo tre zeri ci sarebbe stato un investimento sufficiente per impostare almeno la fase iniziale del progetto.

Corruzione, favori politici, “amici degli amici”, malversazione? Non so, ma non credo che ci sia motivo di scatenare la cultura del sospetto o qualche inutile esercizio di “dietrologia”. Restiamo ai fatti: tutto ciò è costato troppo – e soprattutto è fatto male.

L’incarico è stato affidato a una grande impresa internazionale. Le cui competenze sono in tecnologia, non in comunicazione – e già in questo si è partiti col piede sbagliato. Vale, anche in questo caso, ciò che si è detto per il marchio. Ci sono in Italia risorse più qualificate e meno costose – e non sarebbe difficile avere una verifica da una prospettiva “esterna”. E c’è una responsabilità del committente. Se (come accade troppo spesso) si è badato più alla cosmetica che alla sostanza, è perché si è sbagliato prima nel briefing, poi nella verifica. Cioè sono state date indicazioni sbagliate e si è valutato il risultato con criteri altrettanto balordi.

Qualche critica si e’ soffermata su errori di dettaglio (come una località in Sardegna che si trova misteriosamente trasferita in Sicilia). Forse, anche in questo senso, sarebbe meglio se la cosa fosse gestita da persone con idee meno confuse sulla geografia. Ma non è questo il fatto più preoccupante. In un progetto di questa complessità qualche errore è inevitabile... l’importante è che ci sia una buona “manutenzione”, cioè qualcuno che badi continuamente a verificare, correggere e aggiornare.

I problemi sono altri, e molto più gravi. A cominciare dal modo in cui questo accrocco viene chiamato. Può sembrare una pignoleria semantica, ma è un segnale culturale. Chiamarlo “portale” vuol dire non sapere di che cosa si sta parlando. Quel termine definisce una concezione sbagliata, cresciuta e poi crollata nel balordo periodo della “bolla speculativa”, che giace come squallido rudere fra le macerie di quei disastri. La definizione, come minimo, è infausta.

Un’altra considerazione può sembrare “di parte”. In questo caso devo ammettere che, da molti anni, sono “schierato”: a favore delle risorse opensource, specialmente quando si tratta di servizi pubblici. Quel sito è concepito con altri criteri, che non sono “giusti” solo perché riflettono un’abitudine diffusa.

Per esempio il sito è male accessibile con qualsiasi sistema, ma funziona ancora peggio quando non si usa uno specifico browser (Explorer). Si dirà: è quello usato dal settanta per cento delle persone. Ma la cosa non è così banale. Supponiamo che l’uso di Firefox-Mozilla sia fra il quindici e il venti per cento (con tendenza a crescere). Non è una quota trascurabile. E soprattutto c’è un problema di qualità. Le persone che usano sistemi più efficienti possono essere una minoranza numerica, ma sono le più attente, evolute e capaci nell’uso della rete. Cioè quelle più interessanti se, come si è tante volte proclamato, stiamo cercando “un mercato di qualità” (non solo nel turismo).

In generale... l’incapacità dei politici (e di altri sistemi di potere) quando si tratta di capire i valori delle risorse “aperte” è un problema noto. Qualcuno sta cercando di risolverlo. Per esempio in Francia si è deciso di dotare tutti i parlamentari di computer opensource. In giro per il mondo ci sono iniziative di ogni genere per la diffusione di quelle risorse nell’amministrazione pubblica, nelle scuole, eccetera. Perché l’Italia dorme, su questi e su altri impegni di qualità?

Ma torniamo al caso specifico del sito “italia.it”. Sarebbe interminabile elencare i suoi molteplici difetti. Con un po’ di ricerca online si può trovare ampia documentazione. Vediamo di riassumere alcune delle cose essenziali.

Il sito funziona male. È così farraginoso da essere insopportabilmente lento (anche con connessioni cosiddette “veloci”, che a poco o nulla servono quando ci sono “colli di bottiglia” o sovraccarichi di ingombro). Imita ed estremizza le peggiori abitudini, come l’eccesso di cosmetica a scapito dei contenuti. È pieno di orpelli e di marchingegni irritanti, non solo ingestibili se si usa un browser bene impostato, ma comunque fastidiosi e inutilmente ingombranti. Insomma è un’antologia di tutte le storture, e le sciocchezze, che caratterizzano i siti fatti male.

È una macchina di selezione alla rovescia: forse può divertire chi bada solo a qualche trucchetto delle apparenze, ma irrita e delude chi cerca qualcosa di funzionale. Se è questo il modo in cui si propone una “immagine dell’Italia”, non si rende un buon servizio al nostro paese.

Forse anche questo baraccone, come tanti altri, cadrà nel dimenticatoio e finirà nel già affollato deposito dei rottami ai margini della rete. Ma, nel caso che riuscisse a sopravvivere, probabilmente molte delle informazioni (se sottoposte continuamente a efficaci revisioni e aggiornamenti) si potrebbero salvare, riorganizzandole in un impianto meno balordo e più funzionale.

Non è difficile capire come si fa, se le priorità sono collocate nel giusto ordine: ciò che conta è il servizio, non la scenografia. La funzionalità, non gli addobbi. Prima che qualcuno mi accusi di avere una tendenza troppo “spartana”... non è indispensabile che tutto sia ridotto estremamente all’essenziale. Qualche tocco estetico, se fatto con buon gusto e sobrietà, non guasta. Ma è meglio che non sia ingombrante. E che sia un aiuto, non un ostacolo, all’efficace gestione dei contenuti.



Questo articolo è stato pubblicato anche su InterLex



Post scriptum – ottobre 2007


“Italia.it” – si chiude


Sono passati otto mesi. C’era stata qualche timida e confusa ammissione del fatto che “qualcosa non funziona”, accompagnata da ambiziosi, quanto vaghi, propositi di ipotetico “rilancio”. Ma poi si è dovuto constatare che la situazione è irrimediabile.

Il 19 e 20 ottobre 2007 alcuni giornali (per esempio Punto Informatico e il Corriere della Sera) hanno riportato dichiarazioni del ministro Rutelli da cui risulta l’intenzione di chiudere quella sciagurata vicenda.

Il motivo è che i dati sulla “frequentazione” dello squallido sito sono catastrofici (nonostante i soldi male spesi nei tentativi di “promuoverlo” su scala internazionale). Meglio così. Più piccolo è il numero di persone che hanno visto quell’obbrobrio, meno diffusa è la pessima percezione che dà del nostro paese.

(E possiamo sperare che, insieme al resto del caravanserraglio, sparisca anche l’orribile “logo”).

Ma rimane il fatto che l’impegno di due governi, quattro anni di lavoro e di spese esorbitanti, grossolani cumuli di incompetenza e di incauto “trionfalismo”... sono andati a scapito della possibiltà di sviluppare iniziative meno stupide.

Parce sepulto. Ma si tratterà di vedere se da questa tragicomica esperienza si sarà imparata una lezione – e se futuri progetti saranno concepiti con meno superficialità e più buon senso.

(Purtroppo altre attività, non meno sballate, danno l’impressione che si voglia perseverare nel peggio. Vedi per esempio le dabbenaggini modaiole in cui, oltre a quelli di imprese private, si stanno sprecando anche i soldi dei contribuenti).


Gennaio 2008

È passato un anno. Il 21 gennaio 2008 è stata annunciata
la definitiva chiusura di questa fallimentare iniziativa.

Oltre a qualche patetico tentativo
di tardiva “giustificazione”
e di imbarazzato scaricabarile,
si ripetono le polemiche di parrocchia
e le miopi lamentazioni che non aiutano
a evitare la ripetizione degli stessi errori.
Vedi La stupidità della critica.




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