Offline Riflessioni a modem spento


Bizzarrie
dei domain

(tre e cinque anni dopo)

settembre 2005
(agosto 2007)



  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
Per altre osservazioni vedi
il mercante in rete
e altre rubriche online
e tre libri:
  La coltivazione dell’internet  
L’umanità dell’internet
Il potere della stupidità
 


Una nota alla fine aggiorna i dati
alla situazione nel giugno 2007.
Il quadro non è sostanzialmente cambiato.

 

 

Nell’ottobre 2002 un articolo in questa rubrica riguardava le bizzarrie dei domain – cioè alcune fra le molte stranezze nella definizione degli indirizzi su cui si basano i siti web e altre attività in rete. A tre anni di distanza, la situazione non è cambiata. Continuano i tentativi di proporre e vendere soluzioni più meno disparate o bizzarre, ma con scarso esito.

I “non più nuovi” top level domain continuano ad avere scarsissimo successo. Il totale di host internet attivi su questo genere di TLD nel giugno 2005 è circa 80.000 (cioè lo 0,02 % su 353 milioni – vedi dati internazionali).

Tre anni fa ce n’erano ottomila su .biz e ora sono 37 mila. Può sembrare un aumento rilevante, ma non lo è, perché rimangono pochissimi rispetto (per esempio) ai .com, che sono 63 milioni. C’è una situazione analoga per .info, con una crescita da 5.600 a 40.000 (trascurabili rispetto a 156 milioni .net). Sono un po’ aumentati i .coop (1500), .name (1092) e .aero (676), ma si tratta di numeri estremamente piccoli in confronto alla dimensione generale dell’internet – e anche alla specifica attività online di cooperative o di attività connesse con l’aeronautica. Sono infinitesimali nel caso di .pro (26) e .museum (21).

In sostanza, la disponibilità di questi “nuovi” TLD, immaginati e proposti come importanti per lo sviluppo della rete, si è rivelata inutile e irrilevante – e chi pensava di potersi arricchire con il loro commercio è rimasto molto deluso.

Fra le bizzarrie di questi traffici ci sono operatori americani che avevano tentato, un paio di anni fa, di vendere in mezzo mondo domain .cn (cioè cinesi). Con risultati praticamente nulli.

Non c’è stato, in anni recenti, alcun aumento rilevante di attività sul TLD .cn – il che, oltre a confermare il fallimento di quei tentativi commerciali, dimostra la scarsa credibilità delle “statistiche” cinesi, che spesso si rivelano immaginarie anche in altri settori. (Per quanto riguarda l’internet, il numero di host attivi in Cina è inferiore a quello dell’Estonia – e l’affermazione che ci siano 100 milioni di persone collegate alla rete in Cina appartiene, più che al Celeste Impero, al regno delle favole).

Intanto circolano altre ipotesi di cui è difficile prevedere l’esito, come un top level domain europeo (.eu) di cui si parla da anni, ma finora manca l’attuazione pratica. Le richieste di uno per le cose dedicate al sesso (.xxx) e uno per i bambini (.kid o .kids) sembrano avere scarse adesioni (anche se pare che il parlamento europeo abbia tempo da perdere con quisquilie di questa specie). Sono esempi, fra tanti, di come si continui a sbizzarrirsi con svariate ideuzze prive di reale utilità.

Per quanto riguarda i TLD nazionali usati per “assonanza” fuori dal loro territorio, in base a un significato attribuito alla sigla, anche questa è un’idea con cui molti pensavano di arricchirsi, ma ha avuto scarso esito.

Per esempio ci sono meno di 20.000 host su .tv – tanti per Tuvalu, un minuscolo arcipelago in Polinesia, pochi per le emittenti televisive di tutto il mondo. Uno dei primi a essere proposti, alcuni anni fa, per questo genere di utilizzo fu .to (Tonga) – ma anche in quel caso sono solo 20.000 host e non sono aumentati negli ultimi tre anni.

Sono 9.179 quelli su .ws (Samoa) che, per quanto ne so, nessuno usa nel senso di website. Altri improbabili tentativi di vendere domain su TLD territoriali come se fossero “tematici” sono miseramente falliti. Nel caso di .fm (è della Micronesia, ma si immaginava che potesse interessare a un’emittente radiofonica) ci sono 433 host. Sono 188 quelli su .cd (Congo) che qualcuno voleva proporre nel senso di compact disc e 122 su .sr (Suriname) che si diceva potesse significare senior. Eccetera...

Come dicevo cinque anni fa, se qualcuno sta a Torino può divertirsi ad avere un domain .to registrato a Tonga, se sta a Napoli può cercare un .na in Namibia, un fiorentino può trovare un ottimo servizio su un .fi in Finlandia... mentre a Varese la cosa è difficile, perché è arduo ottenere un domain vaticano. Naturalmente scherzavo, ma tutta la faccenda (talvolta insensatamente dibattuta) dell’istituzione di nuove sigle si è rivelata un gioco poco divertente e un inutile perditempo – e così l’uso di TLD nazionali in base a un presunto significato.

Un caso curioso è quello di .nu (Niue). Un’isoletta nel Pacifico con duemila abitanti e 270.000 host internet – più di quanti ne ha la Cina. Ovviamente quelle attività non hanno sede nell’isola. Infatti sono quasi tutte in Svezia (qualcuna in Danimarca, Olanda e Belgio).

La bizzarra vicenda cominciò sei anni fa. Qualcuno nell’isola decise di fare un gioco, un po’ alla maniera di chi fa una pizza gigante o una gara di mangiatori di salsicce per entrare nel “Guinness dei primati”. L’intenzione dichiarata era “diventare il secondo TLD mondiale dopo .com” (l’idea è sbagliata, perché sono di più i .net, ma quello è un altro discorso).

L’offerta piacque a qualcuno in Svezia, che per qualche motivo aveva difficoltà a registrare un domain .se (non sembra rilevante il fatto che “nu” in svedese vuol dire “nuovo”). Fu introdotta anche qualche facilitazione tecnica, come per esempio la possibilità di usare lettere accentate (che nella maggior parte dei TLD, compreso quello italiano, non sono possibili).

La vicenda ormai è quasi dimenticata – ed è tramontata l’azzardata ambizione di poter competere con i milioni di domain su altri TLD. Ma rimangono in uso i .nu in Svezia, che sono circa il 10 % rispetto a oltre 2.700.000 host su .se – cioè relativamente pochi, ma più di ogni altro caso noto di sigle “straniere” usate in qualsiasi parte del mondo. Un altro risvolto bizzarro di questa vicenda è che il governo di Niue si rifiuta di usare un domain .nu ed è registrato come niuegov.com (cosa ovviamente impropria perché non è “commerciale”).

Pare che in Svezia i siti o servizi su .nu siano considerati meno affidabili di quelli su .se – e “si dice” che qualcuno in Russia usi un domain .nu per proporre immagini di donne svestite, in base a un’assonanza con il francesismo “nu” per “nudo” (ma probabilmente sono chiacchiere – o dettagli irrilevanti).

È solo una “bazzecola”, un aneddoto curioso. Ma non sono meno sciocche tante altre vicende che si propongono come se fossero chissà quali invenzioni e innovazioni per poi (dopo aver provocato un po’ di inutile confusione – e forse sottratto un po’ di soldi a qualcuno che ha commesso l’errore di crederci) cadere nell’affollato dimenticatoio dell’inutilità.




In fatto di host e domain, può essere interessante cogliere un altro segnale, che smentisce gli uccelli del malaugurio a proposito di un’immaginaria “morte” dell’internet libera o gratuita (come la stranamente diffusa opinione che “tutto” in rete sia su .com).

Naturalmente c’è molta confusione: ci sono attività commerciali che non hanno il suffisso .com e ci sono attività su .com che non sono commerciali – o che, anche se lo sono, offrono accesso libero e informazioni gratuite. Ma se guardiamo i grandi numeri di host su TLD per categoria (prevalentemente, ma non esclusivamente, americani) vediamo che su .com sono 63 milioni, mentre in aree “non commerciali” (come .net, .edu, .org eccetera) sono quasi tre volte tanti.

Per quanto rozzo possa essere questo criterio di valutazione, non è privo di significato. E anche altri tipi di analisi confermano che sono predominanti in rete le attività con accesso libero e aperto a tutti. Non solo non sono moribonde, né malate, ma sono in continua e vigorosa crescita.

Un’occasione in più per confermare un concetto tante volte ribadito in questa pagine. La rete funziona e si sviluppa quando e dove è libera e aperta. E questo conviene anche alle attività commerciali, o comunque d’impresa, che funzionano molto meglio quando si collocano (senza tentare di opprimerlo o condizionarlo) in un fertile terreno di libero scambio umano e culturale. Nell’internet come in ogni altro sistema di comunicazione e di convivenza civile.




Post scriptum – febbraio 2006

Alcuni lettori mi hanno chiesto se sulla crescita del numero di domain .it (e perciò di host “italiani”) possa influire l’uso di quel “suffisso” da parte di stranieri. La risposta si trova in un recente studio dell’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr di Pisa da cui risulta che i domain .it attribuibili a “utenti di altra nazionalità” alla fine del 2005 sono 22.000 – cioè il 2 % del totale. Si conferma così che il fenomeno, nel caso dell’Italia, è irrilevante. (Sono probabilmente due o tre volte tanti gli italiani che usano top-level domain diversi da .it).




Aggiornamento – agosto 2007


A distanza di due anni (e di cinque dalla prima stesura di queste osservazioni) le dimensioni della rete (vedi dati internazionali) sono molto aumentate, ma la situazione non è cambiata per quanto riguarda le “bizzarrie dei domain”.

Nel giugno 2007 risultano esistenti 40.000 host su domain “.biz” e 63.000 su “.info” – numeri insignificanti rispetto a quasi 500 milioni di host internet. Sono ancora meno i 5.500 “.coop”, 1.300 “.name”, 1.300 “.aero” e rimangono infinitesimali i 207 “.mobi”, 57 “.travel”, 56 “.pro”, 33 “jobs”. e 21 “.museum”. Sono saliti a 30.000 i “.tv”, ma rimangono un numero trascurabile rispetto alle dimensioni della rete – e continuano a essere irrilevanti gli altri ipotetici suffissi “tematici”.

Intanto l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), cioè l’autorità che gestisce il domain name system, a quanto pare ignara di questo fallimento, si perde in interminabili, complicati e futili dibattiti sulla possibile istituzione di altri nuovi, quanto inutili, top level domain destinati a definire categorie di attività o di argomento.

Sembrava che ci fosse un affollamento di richieste per i nuovi domain “.eu” (cioè “Europa”) ma finora l’esito è molto scarso. Il numero di host internet attivi sul quel TLD è 18.000. Un numero infinitesimale rispetto a 104 milioni di host in Europa – poco più dei 16.000 della Repubblica di Andorra o dei 15.000 del Principato di Monaco.

Sono saliti a 372.000 i “.nu” (Niue) che confermano il già noto uso di quel tipo di domain in Svezia.

Un elenco delle bizzarrie sarebbe interminabile. Ci sono casi seri, come il fatto che il Montenegro, ora indipendente, dovrebbe avere un proprio top-level domain, ma di un ipotizzato “.me” ancora non si vede traccia, mentre rimane in uso per Serbia e Montenegro l’ormai superato “.yu” di Yugoslavia. Ci sono anche storie buffe, come un ipotetico “.cul”, per un’indefinibile (o presuntuosa?) categoria “cultura”, che suscita una certa ilarità da parte di chi sa il francese (e anche in italiano e spagnolo lascia qualche perplessità). O la proposta di alcuni catalani di separarsi dal “.es” spagnolo con un “.cat” che li identificherebbe come gatti – oltre al rischio di scatenare una proliferazione di identità regionali o etniche, provocando ogni sorta di conflitti in varie parti del mondo.

In sostanza la definizione di nuovi “suffissi” nazionali è una necessità, non sempre tempestivamente soddisfatta, quando ci sono cambiamenti nella situazione geopolitica. Per i resto, le proposte “tematiche” (comprese quelle già insensatamente attuate) sono inutili – e anche pericolose quando rischiano di diventare strumenti di censura o di discriminazione culturale.


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