Offline Riflessioni a modem spento


Bizzarrie
dei domain

(sette anni dopo)

agosto 2009



  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
Per altre osservazioni vedi
la sezione dati
e altre rubriche online
e tre libri:
  La coltivazione dell’internet  
L’umanità dell’internet
Il potere della stupidità
 


 

 

Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)


Nell’ottobre 2002 un articolo in questa rubrica riguardava le bizzarrie dei domain – alcune stranezze nella definizione delle sigle “nazionali” o “di categoria” che raggruppano i domain internet – cioè i nomi (indirizzi) che identificano i siti web e altre attività in rete. (Come, per esempio, .it per l’Italia o .com per attività “commerciali”).

Ero ritornato sull’argomento nel settembre 2005, con un aggiornamento nell’agosto 2007.

Vale la pena di riesaminare, con dati più aggiornati, la stessa situazione? Si, per due motivi.

Perché, se il quadro fosse cambiato, sarebbe “doveroso” costatarlo. Ma non lo è. E non è meno significativo rilevare che è sostanzialmente “tutto come prima”, con alcune differenze e sviluppi che non modificano il significato della situazione.

L’altro motivo è che, assurdamente, si continuano a ripetere elaborazioni insensate su questo tema e si continuano a sprecare energie in interminabili dibattiti su decine o centinaia di ipotesi per la creazione di nuovi top level domain di cui si è ampiamente dimostrata, nei fatti, l’inutilità – a scapito di altre valutazioni che sarebbero molto più utili per capire come cresce la diffusione della rete e come si possa estenderne l’uso in quelle ampie, parti del mondo in cui l’attività online è ancora molto scarsa (vedi dati internazionali) – e in quelle aree sociali e culturali che sono ancora oggi “depresse” anche nei paesi più evoluti (in particolare in Italia).

A sette anni di distanza, la situazione non è cambiata. Continuano i tentativi di proporre e vendere soluzioni più o meno disparate o bizzarre, ma con scarso esito.

Questo accade anche in molti altri modi, con l’attenzione concentrata su presunte o poco rilevanti “novità”, trascurando i valori (e i problemi) che sono, da sempre, essenziali nella rete – come in ogni forma di comunicazione umana.

I cosiddetti “nuovi” top level domain continuano ad avere scarsissimo successo. Il totale di host internet che risultano attivi su questo genere di TLD nel giugno 2009 è poco più di 200.000. Cioè meno di quanti ne ha l'Islanda (con 300.000 abitanti). È lo 0,03 % su 681 milioni – la stessa percentuale di sette anni fa.

Sette anni fa c’erano ottomila host su quello che “sembrava” il più importante, .biz – e ora (come due anni fa) sono meno di 60 mila. Nonostante la (relativa) crescita, rimangono pochissimi rispetto (per esempio) ai .com, che sono 140 milioni. In pratica la sigla “biz” somiglia più a “bizzarro” che a “business”.

C’è qualcosa di più per .info, con una crescita (in sette anni) da 5.600 a 210.000 (ma sono trascurabili rispetto a 225 milioni .net).

Dalla presenza di 18.000 host su .int si deduce che questo TLD (esistente da parecchi anni) è molto raramente usato da organizzazioni internazionali.

Sembrano un po’ aumentati i .coop (23.800) .travel (4.800) .name (3.200) .aero (1.900) .mobi (1.070). Ma si tratta di numeri estremamente piccoli in confronto alla dimensione generale dell’internet – e anche alle specifiche attività online riguardanti le cooperative, i viaggi, l’aeronautica o qualcosa di “mobile”– o ai molti milioni di di domain riferiti alle identità (nomi) di persone.

Sono infinitesimali nel caso di .pro (230) .jobs (70) .museum (37). Sono tante, e in aumento, le attività in rete riguardanti professioni, musei, offerta e ricerca di lavoro. Ma quasi nessuno si serve dei TLD proposti per identificare le categorie di attività. Ci sono 46 host su .tel – un inutile TLD che qualcuno pensava potesse interessare agli operatori della telefonia o delle telecomunicazioni.

In sostanza, la disponibilità di questi “nuovi” TLD, immaginati e proposti come importanti per lo sviluppo della rete, si è rivelata inutile e irrilevante – e chi pensava di potersi arricchire con il loro commercio è rimasto molto deluso.

Nove anni fa (quando, nel 2000, avevo scritto La batracomiomachia dei domain – vedi più avanti) ero caduto anch’io nell’errore di credere che potessero servire alcuni “nuovi tld”. Ma dai fatti si è imparato che sono inutili. Se allora si poteva pensare che fosse ragionevole una sperimentazione con due o tre (per verificare se servissero davvero a qualcosa) è comunque inconcepibile una farraginosa proliferazione che, oltre a essere fastidiosamente inutile, potrebbe diventare dannosa – se, come alcuni vorrebbero, si trasformasse in tentativi di “classificazione” e controllo, cioè di censura dei contenuti.

Intanto circolano altre ipotesi di cui è difficile prevedere l’esito. Le richieste di un TLD per le cose dedicate al sesso (.sex o .xxx) e uno per i bambini (.kid o .kids) hanno avuto scarse adesioni e, almeno per il momento, idee di quel genere sembrano abbandonate (anche se pare che il parlamento europeo abbia avuto tempo da perdere con quisquilie di questa specie). Sono esempi, fra tanti, di come si continui a sbizzarrirsi con svariate ideuzze prive di reale utilità.

Ci sono anche storie buffe, come un ipotetico “.cul” per un’indefinibile (o presuntuosa?) categoria “cultura”, che suscita una certa ilarità da parte di chi sa il francese (e anche in italiano e spagnolo lascia qualche perplessità).

Si è discusso per anni su un top level domain europeo (.eu) che si è realizzato nel 2006. Ci sono state dichiarazioni trionfalistiche su oltre due milioni di registrazoni (che comunque non sarebbero molte rispetto allo sviluppo dell’internet in Europa) ma nel 2009 su domain .eu risultano attivi 118.800 host internet. Meno del hostcount di Cipro – 0,07 % dell’Unione Europea.

“Milioni di registrazioni” o sono una favola, o sono “difese legali” da parte di imprese e persone che non hanno motivo di usare quel TLD, ma preferiscono impedire che qualcun altro lo usi con il loro nome. Anche altre iniziative di questo genere sono servite, più che altro, a dare lavoro agli avvocati.

È bizzarro che a qualcuno sia venuto in mente di inventare un TLD .asia (ma non per altri continenti) e che quella sciocca idea sia stata realizzata. Alla fine del 2007 risultava presente un solo host internet così identificato. Pare che nel 2009 siano 420 – un numero infinitesimale rispetto a 82 milioni in Asia.

Non è meno bislacca la proposta di alcuni catalani di separarsi dal .es spagnolo con un .cat che li identifica come gatti. Anche questa stupidaggine si è realizzata, ma con scarsissimo esito: mille host con quella identificazione, rispetto ad alcuni milioni attivi in Catalogna. Speriamo che questo fallimento possa far diminuire il rischio di scatenare una proliferazione di identità regionali, etniche, provinciali o campanilistiche, che potrebbe provocare ogni sorta di conflitti in varie parti del mondo.




Intanto l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), cioè l’autorità che gestisce il domain name system, a quanto pare ignara di questi fallimenti, si è persa in interminabili, complicati e futili dibattiti sulla possibile istituzione di altri nuovi, quanto inutili, top level domain destinati a definire categorie di attività o di argomento – mentre è stata meno sollecita di quanto avrebbe dovuto nel prendere atto di cambiamenti nelle identità nazionali.

Per esempio il Montenegro, indipendente dal 2006, dal 2007 ha un proprio top-level domain.me” che si è cominciato a usare alla fine del 2008. Anche per la Serbia è stato necessario trovare un TLD diverso dall’ormai superato “.yu” di Yugoslavia. Ma il Il TLD.rs” si è realizzato solo nel 2009. Per tutti e due la “procedura” è stata molto lunga e la “conversione” è ancora incompleta.

I venditori di bizzarrie sono tornati in azione con la bislacca idea di usare “.me” nel senso di “a me”, ma in tutto il mondo ci sono tremila host di quel genere (metà di quanti ne ha la repubblica di San Marino). È probabile (e sperabile) che anche questa stupidaggine continui ad avere scarso esito, come è accaduto finora con altre fantasie dello stesso genere.

In sostanza la definizione di nuovi “suffissi” nazionali è una necessità, non sempre tempestivamente soddisfatta, quando ci sono cambiamenti nella situazione geopolitica. Per il resto, le proposte “tematiche” (comprese quelle già insensatamente attuate) sono inutili – e anche pericolose quando rischiano di diventare strumenti di censura o di discriminazione culturale.



Da qui in avanti il testo è simile a quello
che avevo pubblicato nel 2007 (con alcuni aggiornamenti).
Può essere utile ai lettori che non conoscono
o non ricordano la versione precedente.



Per quanto riguarda i TLD nazionali usati per “assonanza” fuori dal loro territorio, in base a un significato attribuito alla sigla, anche questa è un’idea con cui molti pensavano di arricchirsi, ma ha avuto scarso esito.

C’è un solo caso verificaible in cui una cosa di quel genere è accaduta davvero (ma in dimensioni poco rilevanti). Ci sono 103.000 host su .tv – tanti per Tuvalu, un minuscolo arcipelago in Polinesia, pochi per le emittenti televisive di tutto il mondo.

Per gli altri... praticamente nulla. Uno dei primi a essere proposti, parecchi anni fa, per questo genere di utilizzo fu .to (Tonga) – ma si tratta di 20.000 host, tutti attribuibili ad attività locali (e non sono aumentati negli ultimi cinque anni).

Sono 14.000 quelli su .ws (Samoa) che, per quanto si può constatare, nessuno usa nel senso di website (i siti web sono 240 milioni). Anche altri improbabili tentativi di vendere domain su TLD territoriali come se fossero “tematici” sono miseramente falliti. Nel caso di .fm (è della Micronesia, ma si immaginava che potesse interessare a un’emittente radiofonica) ci sono mille host (pochi per 110.000 abitanti in un esteso arcipelago). Sono tremila (e sono in Africa) quelli su .cd (Congo) che qualcuno voleva proporre nel senso di compact disc. Circa 160 su .sr (Suriname) che si immaginava potesse significare senior. Eccetera...

Come dicevo nove anni fa (aprile 2000) in La batracomiomachia dei domain, se qualcuno abita a Torino può divertirsi ad avere un domain .to registrato a Tonga, se sta a Napoli può cercare un .na in Namibia. Un fiorentino può trovare un ottimo servizio su un .fi in Finlandia... un romano si può registrare in Romania, un palermitano a Panama, un veneziano in Venezuela, un bolognese in Bolivia... eccetera... mentre a Varese la cosa è difficile, perché è arduo ottenere un domain vaticano – e a Milano è impossibile, perché un .mi non esiste (e .mil è riservato alle attività militari americane).

Naturalmente scherzavo, ma tutta la faccenda (insensatamente dibattuta) dell’istituzione di nuove sigle si è rivelata un gioco poco divertente e un inutile perditempo – e così l’uso di TLD nazionali in base a un presunto significato.

Alcuni lettori mi hanno chiesto se sulla crescita del numero di domain .it (e perciò di host “italiani”) possa influire l’uso di quel “suffisso” da parte di stranieri (giocando, qualcuno immagina, sul significato di “it” in inglese). La risposta si trova in uno studio dell’Istituto di Informatica e Telematica del Cnr di Pisa da cui risulta che i domain .it attribuibili a “utenti di altra nazionalità” alla fine del 2005 erano 22.000 – cioè il 2 % del totale (non c’è motivo di pensare che negli anni seguenti la percentuale sia aumentata). Si conferma così che il fenomeno, nel caso dell’Italia, è irrilevante. (Sono probabilmente due o tre volte tanti gli italiani che usano top-level domain diversi da .it).

Fra le bizzarrie c’è anche la grottesca vicenda del fallimentare tentativo di trasformare la sigla .it in un orribile “marchio” e in un faraonico quanto inutilizzabile sito web. Vedi Povera Italia.it.




Un caso curioso è quello di .nu (Niue). Un’isoletta nel Pacifico con duemila abitanti e quasi 400.000 host internet. Ovviamente quelle attività non hanno sede nell’isola. Infatti sono quasi tutte in Svezia (poche in Danimarca, Olanda e Belgio).

La bizzarra vicenda cominciò più di dieci anni fa. Qualcuno nell’isola decise di fare un gioco, un po’ alla maniera di chi fa una pizza gigante o una gara di mangiatori di salsicce per entrare nel “Guinness dei primati”. L’intenzione dichiarata era “diventare il secondo TLD mondiale dopo .com” (l’idea è sbagliata, perché sono di più i .net, ma quello è un altro discorso).

L’offerta piacque a qualcuno in Svezia, che per qualche motivo aveva difficoltà a registrare un domain .se (non sembra rilevante il fatto che “nu” in svedese vuol dire “nuovo”). Fu introdotta anche qualche facilitazione tecnica, come la possibilità di usare lettere accentate (che nella maggior parte dei TLD, compreso quello italiano, non sono possibili – per esempio il domain stupidita.it è registrato senza accento).

L’origine di questa vicenda ormai è dimenticata – ed è tramontata fin dall’inizio l’azzardata ambizione di poter competere con i milioni di domain su altri TLD. Ma rimangono in uso (e continuano a crescere) i .nu in Svezia, che sono un po’ più del 10 % rispetto a 3.900.000 host su .se – cioè relativamente pochi, ma molti più di ogni altro caso di sigle “straniere” usate in qualsiasi parte del mondo.

Un altro risvolto bizzarro di questa vicenda è che il governo di Niue si rifiuta di usare un domain .nu ed è registrato come niuegov.com (cosa ovviamente impropria perché non è “commerciale”).

Pare che in Svezia i siti o servizi su .nu siano considerati meno affidabili di quelli su .se. E “si dice” che qualcuno in Russia abbia usato un domain .nu per proporre immagini di donne svestite, in base a un’assonanza con il francesismo “nu” per “nudo” (ma in realtà sono chiacchiere – o dettagli irrilevanti).

È solo un aneddoto curioso. Ma sono molto più sciocche tante altre vicende che si propongono come se fossero chissà quali invenzioni e innovazioni per poi (dopo aver provocato un po’ di inutile confusione – e forse sottratto un po’ di soldi a qualcuno che ha commesso l’errore di crederci) cadere nell’affollato dimenticatoio dell’inutilità.




In fatto di host e domain, può essere interessante cogliere un altro segnale, che smentisce gli uccelli del malaugurio a proposito di un’immaginaria “morte” dell’internet libera o gratuita (come la per fortuna in diminuzione, ma stranamente ancora diffusa, opinione che “tutto” in rete sia su “punto com”).

Naturalmente c’è molta confusione: ci sono attività commerciali che non hanno il suffisso .com e ci sono attività su “puntocom” che non sono commerciali – o che, anche se lo sono, offrono accesso libero e informazioni gratuite.

Ma se guardiamo i “grandi numeri” di host su TLD per categoria (prevalentemente, ma non esclusivamente, americani) vediamo che su .com sono 140 milioni, mentre in aree “non commerciali” (come .net .edu .org eccetera) sono più più del doppio. (Anche nei “piccoli numeri” dei “nuovi” TLD c’è un’analoga differenza: i .info sono il triplo dei .biz).

Per quanto rozzo possa essere questo criterio di valutazione, non è privo di significato. E anche altri tipi di analisi confermano che sono predominanti in rete le attività con accesso libero e aperto a tutti. Non solo non sono moribonde, né malate, ma sono in continua e vigorosa crescita.

Un’occasione in più per confermare un concetto tante volte ribadito in queste pagine. La rete funziona e si sviluppa quando e dove è libera e aperta. E questo conviene anche alle attività commerciali, o comunque d’impresa, che funzionano molto meglio quando si collocano (senza tentare di opprimerlo o condizionarlo) in un fertile terreno di libero scambio umano e culturale. Nell’internet come in ogni altro sistema di comunicazione e di convivenza civile.


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