Questo forum è fermo ormai da tempo. Da qualche anno. Ma, sorprendentemente, gli ultimi temi che trattammo sembrano freschi freschi di giornata. Viene il dubbio che anche il nostro Paese sia da tempo in una sorta di situazione cristallizzata quanto a libertà di informazione. E che non abbiano poi tanto torto le classifiche che vogliono l'Italia fanalino di coda internazionale nella libertà di stampa. In attesa di nuove segnalazioni (e anche di rendere più semplice e anonimo l'ingresso in quest'area), può servire rileggere ogni tanto i vecchi temi...
PENSIERINO Un ragazzo mi ha chiesto: "Perche' in Italia il giornalismo non e' un potere autonomo come negli Stati Uniti, ma e' schiavo del potere politico?". "Perche' i politici hanno occupato i media -ho risposto- si sono impadroniti soprattutto della tv per farne il loro megafono. E i giornalisti li hanno lasciati fare..."
In quest'area si discutono alcuni temi caldi per la professione di giornalista
Chi volesse dire la propria o rivolgere domande, può compilare il questionario
dell'argomento prescelto. Non dimenticate di indicare come oggetto
qual è il tema sul quale intervenite. Se avete proposte di argomenti, inviate un’E-mail
cliccando il relativo pulsante in alto a sinistra.
"E CI DICA, CI
DICA...
Tutte le discussioni, i dibattiti e le polemiche sulle interviste "in ginocchio" non sono serviti a nulla. Non solo la campagna elettorale, ma ogni aspetto del giornalismo italiano dimostrano che la nostra non è patria di confronto aperto e indipendente fra stampa e personaggi pubblici. A differenza di quanto accade nei paesi a democrazia avanzata, e in particolare in Gran Bretagna, Francia e negli Stati Uniti, le domande chiare e dirette, le interviste ben articolate e stringenti, sono considerate un'indebita intromissione, un atto ostile e magari ispirato da opposte fazioni, una scorrettezza e un rischio da schivare da parte dei politici e dei capitani di impresa, come del semplice cittadino. L'atteggiamento accondiscendente, quando non totalmente sottomesso, tenuto fin ora da gran parte dei giornalisti (cedendo alle pressioni, ai criteri premianti e ai veri e propri ricatti degli editori padri-padroni o politici) ha consentito che si diffondesse la convinzione che rispondere alla stampa, alla radio o alla tv siano un'occasione promozionale, la messa a disposizione gratuita di uno spazio da utilizzare per farsi pubblicità personale. Effetto e colpa di un modo di fare giornalismo rivolto più a compiacere il potere e a fare spettacolo che non a informare i cittadini sugli avvenimenti che incidono sulla loro esistenza, se non a fare da energico e puntuale contraddittorio al potere, strumento di controllo e salvaguardia della democrazia.
Se si analizzano le risorse professionali dei giornalisti italiani, mancano quasi completamente le più elementari tecniche dell'intervista, quel bagaglio minimo per porre domande agli altri ricavandone informazioni utili, codificate ormai da anni e che all'estero sono insegnate correntemente non solo nelle scuole di comunicazione, ma perfino nei licei. Le stesse tecniche che in Italia sono, invece, ben conosciute da professionisti di altri campi (sociologi, psichiatri, magistrati, avvocati, funzionari della selezione del personale, ecc.).
Chiedere per sapere, l'intervista non solo come genere ma anche nella sua funzione basilare di strumento per attingere le informazioni, è l'attività chiave del mestiere del giornalista. Può essere proprio l'intervista il punto di partenza per restituire al giornalismo italiano un minimo di dignità e di credibilità? O i buoni intervistatori, nell'attuale sistema, sono destinati all'emarginazione se non vogliono mettere le loro doti al servizio dei potenti, se rifiutano, insomma, il ruolo di gran ciambellano di corte?
DOMANDE
RISPOSTE
INTERVENTO
E ORA, CHI FERMERA' IL
COMIZIO-SHOW?
La
speranza di un cambiamento è durata poco. Il dopo-tangentopoli ha
esaurito in fretta i suoi benefici effetti. Il potere politico ha
ripreso saldamente in mano il controllo, capillare e sistematico,
dell'informazione. Più di prima, i media italiani sono
considerati esclusivamente uno strumento di campagna elettorale.
Partiti e gruppi li occupano senza ritegno, come animati da una
sacra missione: combattere lo strapotere mediatico della parte
avversa. Si potrebbe dire che il fine, non lasciare nessuno spazio
in mano allo schieramento opposto, giustifica i mezzi...I
giornalisti non riescono a reagire come categoria. Molti ci
sguazzano senza vergogna. Chi prova individualmente a mantenere una
linea di imparzialità e di indipendenza, o solo a difendere i
livelli di onestà professionale, è rapidamente isolato,
emarginato, privato di visibilità. Tutto ciò non è più un
segreto. I cittadini se ne sono accorti da tempo e lo denunciano
quotidianamente, intervenendo nei programmi o sui giornali. Ma,
ormai, anche questo fa parte del copione consumato. "E' per
il vostro bene ", spiegano convinti gli animatori del
comizio-show...Come fermare la macchina del Comizio-show, ora che
anche alcuni tentativi di intervenire dal vertice sono falliti?
DOMANDE
RISPOSTE
INTERVENTO
COME PESA 'STA TV
I giornalisti della carta
stampata continuano a ragionare come se anche la tv si movesse in
modo leggero, con il solo giornalista. La tv, invece, è fatta di
lavoro di squadra, di numerose figure professionali che cooperano
al processo di informazione anche quando si è sul campo. Le
immagini girate, nella gran parte dei casi, non sono merito del
giornalista.
C'è dietro non solo un operatore, ma anche un
producer. Recentemente, in Israele, abbiamo assistito ad una
grande collaborazione fra cameraman e producer locali, arabi ed
ebrei, al servizio di tv straniere. Sotto la stessa emittente, gli
arabi vanno nei territori palestinesi, gli ebrei in quelli
controllati da Israele. Una cooperazione che supera gli odii e il
conflitto e porta il messaggio lontano, negli altri paesi del
mondo. Non sembra giusto ignorare questa realtà e attribuire il
risultato al solo giornalista, come quasi sempre fa la stampa
italiana. Non sembra possibile neppure paragonare il lavoro
televisivo a quello della carta stampata, come se un signore con
una telecamera in spalla si potesse mimetizzare come il
giornalista con il suo block notes. E poi, gli effetti dell'occhio
della telecamera sono ben diversi...
DOMANDE
RISPOSTE
INTERVENTO
DI MALE IN P.E.N.C.
P.E.N.C.
è una sigla drammatica per i giornalisti. Sintetizza i risultati delle misurazioni sui siti di informazione in
Internet. P.E.N.C. vuol dire “Politica ed Esteri Nessun
Click”. Cioè: i navigatori non entrano nei siti che contengono
notizie di politica e di esteri. Da questo Riccardo Staglianò
prende spunto, in un saggio dal titolo Tanto
ti cliccano, tanto ti pago (sottotitolo: "Come usare l'online
per fare giornali di carta più letti e sull'idea di stipendi
differenziati per i giornalisti più apprezzati") sulla
rivista Problemi
dell’informazione, attribuendo buona parte della
responsabilità ai giornalisti, spesso non capaci di comunicare in
modo adeguato. Per questo, Staglianò propone di legare un terzo
dello stipendio dei giornalisti all’indice di gradimento che
essi riescono a riscuotere. Un rimedio che solleva, però, molte
perplessità. Le prime sono pubblicate sul numero di settembre di
Problemi dell’informazione. Ma, il dibattito è appena aperto.
E’ vero che è colpa dei giornalisti se la gente, in particolare
in Italia, rifiuta politica ed esteri? Si può riversare su chi
scrive parte del rischio di un fiasco negli indici di lettura? Non
si spinge, così, complessivamente l’informazione verso il
fenomeno televisivo della corsa all’indice di ascolto come
criterio dominante nelle scelte dei contenuti?
Le
moderne aziende editoriali producono sempre più informazioni
redatte dai giornalisti nel chiuso delle redazioni, rielaborando
comunicati, notizie, immagini e interviste che ricevono da
istituzioni, uffici stampa, agenzie o altre fonti secondarie.Si
riduce progressivamente lo spazio per raccontare fatti individuati
o visti di persona.
E sono sempre meno i giornalisti ai quali è consentito andare
a scoprire qualcosa che non sia preconfezionato da altri. Il
risultato è un'informazione in ciclostile, piatta, acritica,
spesso asservita agli interessi del potere e, quindi, non più in
grado di svolgere la sua funzione primaria in una democrazia:
consentire il controllo delle istituzioni da parte dei cittadini.
Perché avviene questo e cosa si può fare per risolverlo?
Il
controllo sugli inviati di guerra esiste da sempre. Ma, dal
conflitto nel Golfo, la censura militare si è trasformata in
un'operazione sofisticata, di alta tecnica della comunicazione, in
grado di gestire la diffusione delle informazioni a livello
mondiale, semplicemente fornendo ad ogni giornalista gli elementi
per realizzare la propria corrispondenza.
Il sistema sfrutta la globalizzazione dei modelli di
organizzazione del lavoro giornalistico, basati sull’esasperata
condivisione delle informazioni e dei materiali tra gli organi di
informazione. I militari mettono i giornalisti, soprattutto quelli
televisivi, in condizione di raccontare la guerra, senza poterla
mai vedere direttamente e senza poter mai verificare le notizie
sul campo. Gli inviati ricevono le immagini e le informazioni
necessarie per preparare le loro storie. Ma, naturalmente, in gran
parte si tratta di notizie addomesticate alle esigenze strategiche
dell'una o dell'altra parte. Insomma, è "disinformatia"
ben organizzata. Come se ne può uscire?
La
televisione, per definizione, si fa con immagini, suoni e parole,
combinati secondo le regole del linguaggio audiovisivo. Negli
ultimi anni, il modello più avanzato di questo linguaggio,
applicato all’informazione, è stato adottato da gran parte
delle televisioni del mondo, dei paesi avanzati come di quelli in
via di sviluppo.
In Italia, invece, nonostante i tentativi e gli sforzi di
alcuni, si è continuato a fare un giornalismo televisivo basato
sulle tecniche e sull’organizzazione del lavoro della carta
stampata (un testo al quale si appiccicano un po’ di immagini)
che in tv semplicemente non funzionano e producono un messaggio
assai povero. E questo si traduce, tra l’altro, in un “furto”
di informazioni a danno degli spettatori.
Le cause sono politiche e tecniche professionali.
Da un lato, i partiti hanno controllato capillarmente l’accesso
e le carriere nelle testate, adoperando come unico criterio quello
della fedeltà ai propri interessi. Così, per anni schiere di
persone prive di qualsiasi nozione o idoneità televisiva hanno
invaso i tg e assunto ruoli di comando, asservendo il processo
produttivo al loro non sapere.
Dall’altro lato, la categoria dei giornalisti non ha fatto
fronte con i normali strumenti professionali al processo di
degenerazione in atto da metà Anni Settanta (quando si scatena la
grande spartizione politica). Non solo è mancata l’attività di
formazione, l’elaborazione di modelli propri della specificità
del mezzo, e perfino il confronto con la realtà internazionale.
Ma non è stata posta in essere neppure un’adeguata difesa dei
giornalisti televisivi che agivano in base a puri criteri
professionali.
Anzi, invece di correre ai ripari, di fronte a una così forte
patologia dell’informazione in tv, la categoria si è lanciata
in blocco in una teorizzazione della inferiorità e mediocrità
strutturale del giornalismo televisivo rispetto all’unico “vero
e buon giornalismo”, quello della carta stampata. E, vera beffa,
il primato di quest’ultimo è stato sbandierato dagli stessi
giornalisti televisivi che in patetici slanci di nostalgia per il
loro passato nei giornali, anziché rendersi conto di non saper
fare televisione, ammettevano di scrivere miseri “telegrammi”
rispetto ai “veri articoli”, quelli dei giornali. Tutto ciò,
mentre per milioni di italiani i tg erano il principale o l’unico
strumento di informazione.
Che fare, a questo punto, visto che le cure tentate finora
hanno dato risultati molto limitati?