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L'assassino travestito da vittima

di Sandro Petrone

Articolo per la rivista “Problemi dell’informazione” n°3 2.000 - Il Mulino

 

La vittima e il carnefice, il buono e il cattivo, il giusto e l’impostore, travolti da un unico destino, confusi nella stessa condanna, ingiustizia o malasorte. Finché un colpo di scena non viene a svelare l’equivoco, a salvare l’uno e ad infliggere la giusta punizione all’altro. E’ uno degli intrecci più classici e avvincenti da romanzo o da film. Lo stesso che Riccardo Staglianò sembra tessere nella sua analisi che parte dalla sigla “Penc” (Politica ed Esteri, Nessun Clic), per descrivere le attuali vicissitudini del mondo del giornalismo e delle sue crisi. “P.E.N.C.” sembra perfino un buon titolo per un nuovo film-documento, tipo il grande “Citizen Kane - Quarto potere” (Orson Welles – Usa 1941) o, anche, i più recenti e meno eccelsi “Network - Quinto potere” (Sidney Lumet – Usa 1976) e “Broadcast news – Dentro la notizia” (James L. Brooks – Usa 1987).

 

   Ma poi, tradendo le buone premesse, anziché dichiarare che il Penc in realtà nasconde un carnefice e una vittima, che Politica ed Esteri non possono essere accomunati in un unico destino, perché è la prima ad aver ucciso i secondi per soffocamento, togliendo loro spazio, Staglianò va avanti come ignaro dell’equivoco contenuto nella sua sigla. E non è, perciò, più in grado di trarre le giuste conseguenze, né tanto meno di risalire alla causa più generale di distorsione del sistema informativo in Italia, unica via per tentare di ristabilire l’ordine violato. Ma, anzi, si avventura a proporre un suo rimedio per i problemi del giornalismo che è peggiore del male stesso. Tentando di salvare senza distinzione il buono e il cattivo al tempo stesso, finisce per favorire, in modo inconsapevole e drammatico, il malvagio a discapito del giusto.

 

   In sostanza, racconta Staglianò, i dati che si ottengono studiando il comportamento degli utenti dell’informazione on line dimostrano in modo inesorabile che Politica ed Esteri non li vuole nessuno. Il pubblico sceglie spontaneamente altri temi, clicca altrove, su informazioni da cui trae maggior vantaggio pratico-immediato (economia) o che lo divertono di più (spettacolo, sport, costume, gossip). Ma, ad andare appresso a questa tendenza –spinti da esigenze di vendita e, soprattutto pubblicitarie- si elimina una fetta di notizie essenziali per la vita dei cittadini, si rischia di fare più varietà che informazione, come già rimproverato alla televisione in preda ai deliri dell’Auditel. Non è, però, l’argomento in sé a mettere in fuga lettori e spettatori, bensì il modo in cui questo è trattato dai giornalisti, rileva giustamente Staglianò, introducendo come fattori decisivi quelli del linguaggio e della professionalità del giornalista.

 

   E qui propone il rimedio: leghiamo un terzo dello stipendio dei redattori ai click, cioè alle preferenze, all’indice di gradimento che ogni pezzo riceve dal pubblico. Un sistema che sembra in grado di tranquillizzare tutti i protagonisti di questa storia: i professionisti che temono di perdere il posto e quelli che invocano più meritocrazia, gli editori ansiosi di aumentare pubblico ed introiti pubblicitari, e gli esperti preoccupati che ciò accada a discapito della qualità e delle informazioni essenziali. I giornalisti, insomma, assumerebbero di tasca propria parte del rischio di impresa, un incentivo a far meglio, a non innamorarsi di idee belle ma perdenti, a tener in maggior conto i desideri del pubblico e ad essere più professionali.

 

   Ma questo rimedio non può neppure essere preso in esame proprio perché il Penc contiene un trucco che fa da spia a come tutto il sistema sia viziato. Il punto di partenza è che non è giusto né corretto associare la Politica-carnefice e gli Esteri-vittima nella stessa sigla, solo perché entrambi non ottengono i favori del pubblico. La Politica ha scatenato una reazione di rigetto nella gente per come per anni ha occupato tutti gli spazi che ha potuto nei media, soprattutto nella tv di Stato. Questo ha costretto a sacrificare tutta una serie di argomenti, in primo luogo gli Esteri che la gente non clicca perché non conosce e, quindi, non riconosce più.

  

   La politica, ovviamente, qui non è intesa come la giusta e dovuta informazione ai cittadini, il controllo della stampa sull’attività del potere e delle istituzioni. Ma la politica così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi 25 anni, l’invasione dei partiti negli organi di informazione per trasformali in un megafono sempre acceso e in un continuo strumento di propaganda elettorale.

 

   Altro che Penc! Qui siamo di fronte al vero cancro del sistema informazione in Italia. Non solo il cosiddetto “teatrino” quotidiano cui fa giustamente riferimento Staglianò. Ma, la pervasiva e totalizzante ingerenza dei politici in ogni aspetto della professione, con il controllo della direzione delle testate e delle assunzioni, in modo da garantirsi una finestra fissa che negli anni si è poi dilatata a tal punto da avere per effetto la fuga dei cittadini dalla politica, con i politicanti che, per inseguirli, non hanno esitato a lanciarsi nella politica-spettacolo.

 

   Per anni, gli Esteri, assieme a gran parte dei temi di più immediato interesse della gente, sono stati quasi completamente estromessi dai tg di una televisione pubblica occupata da curatori di affari di partito, controllata dalle segreterie politiche, costretta ai comizi. E’ totalmente venuta meno quella funzione formativa dei notiziari, attraverso cui, giorno dopo giorno, si apprendono i fatti del mondo. Gli Esteri saranno un argomento poco cliccato in Italia, ma basta entrare nel sito della Bbc o in quello della Cnn per rendersi conto che altrove non è così. E che la gente anche da noi abbia fame di sapere e di capire come va il mondo, è testimoniato dagli ascolti dei rari approfondimenti in materia, come quelli di Tg2 Dossier che oscillano fra il 10 e il 15 per cento di share.

 

   Quale interesse possono suscitare paesi di cui non si sa niente, quando appaiono improvvisamente nella marmellata televisiva, sull’onda di un evento eccezionale che per gli spettatori nella maggior parte dei casi non significa nulla? Fino a qualche anno fa, sembravano cronache marziane infilate in spazi sottratti a fatica al cicaleccio dei politici. Ora, nel dopo-Tangentopoli, visto che in tv non basta più far contento “l’editore di riferimento” (cioè il partito o la coalizione che controlla quel tg, secondo la celebre definizione di Bruno Vespa nel diverbio in diretta con il segretario repubblicano Giorgio La Malfa), ma bisogna tener conto anche dell’Auditel e dello scontro con i tg privati, ecco che i servizi di Esteri si trovano a dover contendere una manciata di secondi non solo alle cronache di Palazzo ma soprattutto ai pezzi leggeri, quelli di argomento frivolo o gossip, di facile presa o giocati sulla spettacolarità delle immagini.

 

   Questo perché i servizi del filone “ladydianistico” o di “cazzeggio”, come meno elegantemente li definiamo durante le riunioni di redazione, sono gli unici capaci di garantire ascolti, mentre la macchina dell’informazione televisiva, sventrata da anni di telecomizio, non è in grado di trattare in modo valido, per linguaggio e contenuti, argomenti più seri.

 

   Ma, la verità è ancora peggiore e va detta fin in fondo. Con il proprio destino stretto da un lato da pressioni politiche, economiche e lobbystiche di ogni genere, e dall’altro dalle esigenze dell’Auditel, nessun direttore si azzarda più a dar spazio al vero giornalismo. Si vive appiattiti sul desk, appiccicati alle agenzie, prigionieri dello sciroppo quotidiano. Si rinuncia a cogliere l’opportunità di un sistema di produzione dell’informazione che ormai consente di realizzare con pochi uomini la base del giornale e di liberare, quindi, abbondanti energie per produrre notizie, inchieste, approfondimenti, servizi per i cittadini. Invece, restiamo tutti chiusi nelle redazioni, lontani dalla realtà della gente, dipendenti dalle voci del Palazzo e alla ricerca di un po’ di “cazzeggio” per rinvigorire gli ascolti.

 

   Prendersela con il dilagare dell’informazione leggera, non ha, dunque, senso. E’ solo un effetto, transitorio e giunto quasi ad esaurimento, di ben altra causa: di un sistema informativo profondamente drogato dallo spazio che i giornalisti hanno lasciato ai politici, dalla subalternità del mondo editoriale ai partiti, alle cariche istituzionali e ai potentati economici, cioè a coloro sul cui operato, in una sana democrazia, la stampa dovrebbe esercitare il proprio controllo nel nome dei cittadini.

 

   Di un po’ di informazione piacevole, in grado di guadagnare ai notiziari l’interesse di pubblici più vasti, ne avevamo bisogno da tempo. Non si può giurare che sia vero, ma certo rende bene l’idea l’aneddoto secondo il quale Federico Fellini, dopo un po’ che guardava un film di quelli seri e drammatici, rivolgendosi a chi gli sedeva vicino, chiedeva: “Ahò, e quanno se ride?”

 

   Ancora nel 1994, la madre superiora dell’asilo parrocchiale dove scaricavo la mattina i miei figli, un giorno sì e l’altro pure, mi fermava con fare preoccupato per ripetermi la sua giaculatoria sui telegiornali: “Dottore, ma quando ci data qualche buona notizia? Perché parlate solo dei morti, di cose orribili e dei mali che affliggono l’umanità –insisteva con fare supplice- E le cose belle del mondo, gli atti positivi, edificanti, la gioia di vivere…”

   “Vedrà, vedrà che cambieremo presto”, rispondevo per togliermela di torno. E le citavo come esempio le soft-news che nella nella loro Telemontecarlo i brasiliani di Rede Globo avevano realizzato con abbondanza fin dal 1987, sia all’interno dei tg, sia in spazi appositi, premiati dall’ascolto e dai pubblicitari (basta citare il successo nel 1989 della “Tv donna” condotta da Carla Urban).

 

   Altro che Penc! Viene voglia di inventare altre sigle per ricordare i numerosi aspetti interessanti di quell’esperienza unica che per l’Italia è stata Tmc, prima che l’emittente monegasca, privata delle frequenze perché non rientrava nei giochi politici, ma lasciata in vita ai limiti della sopravvivenza come simulacro del Terzo Polo (in modo che esistesse un alibi alla realtà del soffocante duopolio), nel 1993 fosse rilevata interamente da proprietari italiani.

 

   Spqb= Sono pazzi questi brasiliani. Perché, contemporaneamente al lancio prematuro dell’infotainement, assegnavano alla politica uno spazio assai ristretto rispetto ai tg italiani. Se Craxi tirava una bordata ad Andreotti, e Andreotti rispondeva con un siluro, e gli altri partiti o correnti intervenivano per appoggiare l’uno o l’altro o, in ogni caso, per dire la loro, come spettava secondo manuale Cencelli della Rai a controllo parlamentare, ai redattori che proponevano l’argomento per un’apertura politica, il direttore brasiliano replicava: “Quali sono le conseguenze per la gente? Che cosa cambia?”

 

   Poiché nove volte su dieci la risposta era “nulla” e “niente”, la politica diventava una notizia di pochi secondi. E i giornalisti di Tmc restavamo un po’ confusi ad osservare le aperture degli altri tg italiani con sette, dodici e perfino quindici minuti di politica, pastone incluso.

 

   Ssqb=Sono suicidi questi brasiliani. Perché occupavano il tempo lasciato libero dalla politica con tanti servizi di esteri. Roba da far rabbrividire gli studiosi del Penc. Si aggiungevano, poi, una buona dose di reportage e di inchiestine su fatti italiani. I giornalisti andavano e raccontavano, senza filtri, senza compromessi. Gli ascolti di Tmc erano già stati falcidiati con la questione delle frequenze, inutile citarli. Ma la gente e gli esperti definivano “autorevole e veloce” quel tg messo assieme con un gruppo di ragazzi tra i 22 e i 35 anni. Se non fosse esistito questo caso Tmc, oggi potremmo stare ad ascoltare i tanti che, per giustificare la nostra situazione, dicono che l’Italia è un paese a parte, che da noi certe cose non funzionano, che la tradizione è tutta politica!

 

   “Furto di informazioni”, è la frase ricorrente nelle diverse ricostruzioni del fenomeno da me proposte in passato (i punti principali si possono trovare negli spazi “Forum sul giornalismo” e “Campus” del sito web sandropetrone.it). Nutro seri dubbi che a correggere tutto questo possa bastare l’idea di legare un terzo dello stipendio dei giornalisti all’indice di lettura dei pezzi. A parte gli inaffondabili potentati di partito, qui abbiamo a che fare anche con uno zoccolo duro proprio tra i giornalisti che hanno preso un abbaglio –un comodo abbaglio- su cosa voglia dire fare questo lavoro.

 

   Ho una collega che mi ripete orgogliosa, soprattutto sotto elezioni o crisi di governo: “Il nostro mestiere è militanza politica”. E non ha difficoltà a fare campagna elettorale adoperando la sua presenza, ovviamente retribuita, nel servizio pubblico. Non credo che tema la minaccia di perdere un terzo dello stipendio. Ho il vago sospetto che troverebbe il modo di farselo aumentare subito, magari anche di un po’ più che un terzo.

 

   In un sistema così drogato dalla politica, il rimedio di Staglianò non avrebbe neppure l’effetto del metadone. Per restare alla metafora, non spezzerebbe l’omertà fra spacciatore e tossicodipendente. Danneggerebbe solo i più esposti e indipendenti, pronti a misurarsi davvero sul mercato. Un mercato nel quale, se Internet funziona ancora in base a meccanismi sani, come fu anche per le emittenti libere negli Anni Settanta, interessi e condizionamenti si profilano già all’orizzonte.

 

   Mentre infuriava Tangentopoli, intervistato dal mio programma Antennopoli, l’allora direttore del Tg2 Alberto La Volpe dichiarò “Quello che è cambiato è che oggi dirigo un tg finalmente libero da condizionamenti…” Un’ebbrezza che durò pochi mesi, lo spazio dello sbandamento dei politici. Un fattore di cui i giornalisti italiani non furono capaci di approfittare per recidere il nodo

 

   Altro che Penc! Altro che taglio degli stipendi per i redattori che non realizzano forti indici di lettura o di ascolto! Se vogliono sopravvivere, difficilmente i giornalisti possono fare a meno di affrontare di petto il rapporto tra la professione e la politica. Ed è la categoria, la cosiddetta “base”, oggi tanto disorientata, non i manager o i taumaturghi inviati dall’alto, a dover prendere in mano il proprio destino, ad avere il compito di indicare agli editori le condizioni in cui è possibile esercitare questo mestiere nel XXI Secolo.

 

   A un intervistatore che gli chiedeva come mai il Parlamento avesse approvato senza la minima opposizione di nessuno una norma liberticida per il diritto di cronaca, il presidente della Camera Luciano Violante qualche tempo fa rispose: “C’erano quaranta giornalisti parlamentari a seguire i lavori della Commissione che s e ne è occupata, a sua volta composta da quaranta deputati. Dunque, parità piena. E in sei mesi, nessuno dei suoi colleghi ha avuto da ridire una sola parola...”

 


 
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