LA GUERRA NON VISTA
Cercare la duna giusta appena fuori Dhahran, mettersi lì col
microfono in mano e la telecamera che non deve inquadrare troppo
attorno per non smascherare il trucco di una guerra non vista.
Dopo una giornata trascorsa al telefono, a raccontare e a
commentare una guerra non vista.
Sul tavolino della stanza d'albergo, la radio a onde corte per
ascoltare la BBC e quella a modulazione di frequenza per la
stazione delle forze armate americane. In sottofondo il
televisore, giorno e notte sulla CNN che porta le immagini di una
guerra non vista e l'allarme dei missili Scud che spesso arriva
prima sul video che dalla sirena dell'Hotel Meridien.
"Italiani? Quanti uomini in campo?", chiedono
sornioni gli arabi del ministero dell'informazione, incaricati di
tenerci a bada, incatenati al cartellino girocollo con i dati di
identificazione. Una sorta di non-lascia-passare. Sequestro del
cartellino per chi si muove senza scorta saudita, con conseguente
rimpatrio.
Ma chi riesce ad ottenere la scorta, cogliendo l'attimo giusto
di lavoro fra una preghiera e l'altra, al massimo può andare
all'escursione programmata al mercato dei cammelli. E poi,
scrivere rimpastando le cronichette, depurate dalla censura
militare, inviate dal fronte dai giornalisti americani, quelli del
famigerato "Combat pool", il gruppo ammesso a seguire la
guerra vera. Americani e qualche inglese, una trentina in tutto.
E già. "Italiani? Quanti uomini in campo?". Che vale
raccontare di sette aerei Tornado rientrati alla base prima di
iniziare la missione. E di un ottavo cascato al primo colpo.
Bellini e Cocciolone fanno notizia a Roma. Qui sono solo due
piloti un po' sprovveduti, sopravvissuti fra i tanti che invece
sono morti.
Ai giornalisti italiani non resta che la "swimming
pool", la piscina del Meridien, in cui si incontrano ogni
mattina. Sole, coppe di frutta. E, finalmente, la fuga.
Divisi in equipaggi, tre per automobile, quelli originariamente
costituiti per scampare ad un eventuale attacco chimico, un'unità
con viveri, carburante, maschere antigas e tutte per la guerra
nuclear-batteriologica. E, invece, servirono alla fuga verso le
notizie vere.
Via, verso il confine col Kuwait, attraversando con ogni trucco
i posti di blocco sauditi e alleati, o aggirandoli seguendo piste
nel deserto. Appena arrivavamo ai margini della città, Nasser, il
mio cameraman-cammello egiziano, emetteva un fischio acuto di
libertà e lanciava in avanti l'avambraccio indicando l'autostrada
stile highway americana che ci avrebbe portato nel cuore dello
scudo militare. Un fischio che serviva a vincere gli ultimi timori
legalitari dei due giornalisti italiani dell'equipaggio.
Un altro mondo. Senti il fiato poderoso della macchina da
guerra, il respiro di cinquecentomila uomini, il sudore sotto le
tute, la sabbia che ti affoga se c'è vento, il deserto arato dai
cingolati, la morte allo scoperto fra le dune.
Quei soldati sono eroi. Nasser abbraccia i Desert rats, i Topi
del deserto britannici che, increduli, ci hanno fermato per
controlli. Il giorno dopo non li troviamo più nello stesso posto.
Si sono spostati ad est, raccontano i soldati egiziani che ne
prendono il posto. Accade qualcosa. Tra poche ore i Desert rats
sfonderanno come burro le linee irakene.
E per noi sarà la marcia su Kuwai City, l'ingresso con i
marines, mentre ancora artiglieria e carri armati sputano fiamme
vicino all'aeroporto, la scoperta di una devastazione senza fine,
macerie e armi dappertutto, cadaveri bruciati e dilaniati,
ammucchiati nei sottoscala degli ospedali, i kuwaitiani in festa
ma incapaci di rimettersi al lavoro, gli irakeni in fuga,
fulminati a migliaia sulla via di Bassora (ma da cosa? Dove sono i
corpi? Perché i loro veicoli non sono bruciati e hanno ancora i
motori accesi?), mentre Saddam Hussein resta incredibilmente al
suo posto, burattino di se stesso o degli americani che, spenti i
pozzi kuwaitinai in fiamme, pomperanno per sempre il petrolio
dell'Emirato.
Ma il mistero di questo conflitto lo avevamo assaggiato poco
prima di quella notte in cui partimmo da Dhahran in ottanta
equipaggi di giornalisti. Prima di vedere l'orribile teatro della
nostra guerra fin allora non vista. Prima di ritrovarci sulle
montagne turco-irakene, tra i milioni di curdi in fuga da Saddam,
il cui orribile dramma smise in tre giorni di fare notizia, ma
segnò le nostre vite. E prima anche del dolore profondo delle
nostre anime, che ci tornava a galla ogni volta che non lo
sapevamo descrivere nei trionfi celebrati al nostro ritorno in
patria.
Fu l'ultimo Scud sparato su Dhahran a mostrarci il mistero.
Quello che mancò per un miglio l'hotel Dhahran International,
quartier generale di giornalisti e tv, sfiorò di venti metri un
complesso in cui dormivano mille e cinquecento immigrati asiatici,
e centrò in pieno un'ex-fabbrica di bibite, trasformata in
caserma dei marines statunitensi.
Ventotto morti e centinaia di feriti. Un inferno in cui
riconoscemmo i ragazzoni con cui lavoravamo ogni giorno, i marines
che ci scortavano o montavano la guardia ai check-point e al
dhahran International. Uno Scud contro il quale, per la prima
volta, gli americani avevano deciso di non lanciare gli
anti-missile Patriot.
E questo perché, ormai sancita la sconfitta irakena, gli
avvistatori del sistema di difesa americano per la prima volta
furono convinti che lo Scud in arrivo fosse caricato con armi
chimiche. E così, quando suonò la sirena, via radio ai marines
fu diramata la precisazione che quella volta si trattava di un
allarme da attacco chimico.
Non si spara su un'arma del genere. Colpirla in volo vuol dire
aiutarla a spandere meglio tutt'intorno il carico di morte
invisibile. E perciò, unici a sapere ciò che stava accadendo, i
soldati americani gridavano fra loro istruzioni in uno stato di
agitazione mai visto prima.
Quando corsi fuori dall'albergo per assistere, come sempre
facevamo, al lancio dei Patriot dalle rampe piazzate attorno
all'aeroporto, vidi invece lo Scud che era già su di noi. Nel
rifugio, per la prima volta, diedero l'ordine di aprire le tute
chimiche. Per la prima volta avevo dimenticata la mia in auto.
Più fortunato di un giornalista elvetico che non aveva neppure la
maschera antigas.
L'ultimo Scud uccise molti marines, ma non era caricato con le
più temute armi della guerra del Golfo. Quando ormai non serviva
più, mostrò un buco incredibile nella difesa americana e mise in
luce un mistero. Quel missile rese chiaro che anche tutti gli
altri Scud sarebbero diventati inarrestabili, non intercettabili
dai Patriot, se fossero stati armati chimicamente, o se solo
Bagdad lo avesse fatto credere. Dunque, i Patriot persero in un
colpo la loro portata di difesa mitica, che aveva suscitato
fiducia e gratitudine smisurate tra la gente.
E il mistero. Le armi chimiche. Perché Saddam Hussein non le
ha usate? Quasi fosse prigioniero di un patto. Davvero funzionò
la minaccia che, poco prima del conflitto, il segretario di stato
americano, James Baker, avrebbe gettato sul tavolo di un incontro
col ministro degli esteri irakeno Tarek Aziz: niente armi
chimiche, oppure gli Stati Uniti useranno quelle nucleari.
Questo o altro, sembra il frutto di un patto col diavolo in cui
la sconfitta assicura la vittoria. E la guerra si trasforma di
colpo in una colossale commedia in diretta televisiva.
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