LA VENDETTA DEL GOLFO
di Sandro Petrone
Articolo apparso sulla rivista “Problemi
dell’informazione” n°3 1999 - Il Mulino
Inviati con telecamera a carico, con i movimenti impediti e la
visuale sul campo da battaglia preclusa o limitata, costretti ad
andare solo dove è permesso ed a subire i pesanti condizionamenti
di chi concede l’autorizzazione solo quando vuole approfittare
della tv per i propri fini propagandistici. Quale guerra possono
mai raccontare questi inviati?
Eppure, al ritorno dal Golfo, nel marzo del 1991, furono
trattati come eroi. Alcuni di loro, i meno vanagloriosi, restarono
perfino sbalorditi da quell’accoglienza. In fondo, tranne
qualche missile Scud esploso sopra la testa, dai grandi alberghi
sauditi o di Dubai i giornalisti televisivi della guerra avevano
visto ben poco: aerei che decollavano ed atterravano, un po’ di
forze armate nel deserto, la costante compagnia della sirena d’allarme
e tanta, tantissima Cnn, unica emittente rimasta a Baghdad,
sottoposta a strettissima censura e a forti pressioni, ma che
allora si trasformò nella Madre di tutte le televisioni.
Proprio grazie alle immagini, uguali per tutti, diffuse a piene
mani dalla macchina da propaganda degli Alleati, guidata dagli
Stati Uniti, i giornalisti delle tv di tutto il mondo avevano
potuto fare la telecronaca in diretta di una guerra non vista.
Al ritorno dal conflitto del Kosovo, alcuni inviati televisivi
sono rimasti stupiti dalla domanda più frequente che si sono
sentiti rivolgere dalla gente: “Ma la situazione è esattamente
così come l’avete fatta vedere?”, “E’ proprio vero ciò
che avete raccontato?” Altro che eroi e reduci! Accoglienza da
visionari.
Eppure, in questo caso la tv è riuscita a mostrare molto di
più che nel Golfo: profughi disperati, bombardamenti in corso, i
cosiddetti danni collaterali, guerriglieri dell’Uck in azione. E
ogni rete si è sforzata di mostrare qualcosa di diverso dagli
altri. Ma è come se l’effetto di illusione ottica prodotto
negli spettatori nel ‘91, si fosse ritorto contro la tv oggi,
otto anni più tardi.
Il fatto è che questa volta la televisione non si è
confrontata solo con un indubbio fenomeno di maturazione del
pubblico italiano nel dopo tangentopoli e con gli anticorpi da
esso sviluppati nei confronti dei conflitti a base di scenografici
e spesso poco concludenti bombardamenti intelligenti, dei quali in
Iraq non si ve de ancora la fine. E’ accaduto anche che dalla
copertura della guerra del Kosovo gli spettatori non potessero non
pretendere qualcosa di più. Nessuno avrebbe tollerato che finisse
in rappresentazione mitologico-televisiva, come nel Golfo, anche
un conflitto a pochi chilometri dalla porta di casa, nel quale l’Italia
non si è lanciata con otto Tornado ma con migliaia di uomini,
basi aeree e mezzi bellici. Un intervento armato che non ha
riscosso l’appoggio di gran parte degli italiani, come quello
contro Saddam-Saladino, ma anzi ha diviso profondamente il Paese,
dove molti -e tra questi una forza che sostiene il governo-
ritenevano che si fosse scelta la strada sbagliata, che Milosevic
andasse fermato prima e con altri mezzi e che, comunque, non fosse
giusto far pagare gli errori della leadership di Belgrado all’intero
popolo serbo.
Di fronte ad attese così forti, ad un dibattito così
lacerante e a tanti interessi in gioco, è chiaro che dal mezzo
più diffuso e popolare ci si attendesse ogni genere di
informazione e di risposta. Di tutto, di più, insomma, e
soprattutto dal fronte, dal campo di battaglia, dove le
limitazioni sono quel che sono per la tv. E dove i giornalisti
della carta stampata e della radio hanno rivendicato il merito di
aver svolto un lavoro molto più capillare ed approfondito, di
aver raccontato anche quello che la tv non ha potuto far vedere. E
non solo sui loro giornali. Spessissimo sono stati raggiunti
telefonicamente dai tg perché raccontassero ai milioni di
spettatori del piccolo schermo la cronaca dei posti dove le
telecamere non si potevano portare. Per loro una bella rivincita
sullo strapotere televisivo, dunque. Ma anche una bella
dimostrazione di pragmatismo da parte delle emittenti che, senza
farsi complessi, non hanno esitato a seguire questa strada per
assicurare maggiore completezza dell’informazione.
Una situazione che ha perfino provocato l’auto-fustigazione
di alcuni inviati della televisione. E’ accaduto, infatti, che
nell’ansia di espiazione per non aver potuto raccontare
adeguatamente la guerra, una volta entrato in Kosovo a pace fatta,
qualche collega abbia voluto a tal punto ostentare gli orrori che
finalmente era in grado di mostrare, da far inorridire i
telespettatori dell’ora di cena con corpi dilaniati e
putrefatti. Dimenticando che, proprio perché il mezzo audiovisivo
ha una sua eccezionale capacità di comunicare, è in grado di
portare la gente sul luogo di un massacro e farne comprendere la
portata anche senza obbligare tutti a scoprirne i dettagli che gli
stessi anatomopatologi preferirebbero risparmiarsi. Cioè che dove
arriva la telecamera non c’è più un problema di capacità del
mezzo televisivo ma, semmai, di preparazione del giornalista ad
adoperare adeguatamente il linguaggio che esso richiede.
Ma, il discorso della vittoria sul campo riconosciuta ad altri
mezzi rispetto alla tv non può essere considerato sufficiente se
ha ragione, come sembra, Michele Santoro a ricordare che alla fine
dei conti “il senso comune lo produce la televisione”. Ovvero,
è il mezzo che entra nelle case di tutti gli italiani a
condizionare maggiormente l’idea e la rappresentazione che essi
hanno di un avvenimento. Dunque, da un lato è opportuno chiedersi
cosa si possa fare di più dal fronte e se abbiano davvero senso
ed efficacia per superare i limiti del mezzo televisivo iniziative
rischiose o estremamente complicate, come le incursioni in
territorio nemico al seguito dell’Uck o il tentativo dello
stesso Santoro di girare la telecamera dalla parte dei serbi con
una diretta dal ponte di Brankov (“non mi hanno bombardato lì,
mi hanno bombardato al mio ritorno in Italia”, dirà per
descrivere le reazioni alla sua impresa). Ma dall’altro lato la
domanda da porsi è cosa possa fare la televisione
complessivamente per non mancare al suo ruolo di strumento che
forma il “senso comune” anche quando la sua operatività sul
campo è fortemente limitata o completamente impedita, come in una
guerra.
Insomma, è necessario andare ad analizzare cosa possa essere
programmato a livello centrale da un’emittente, quali e quante
trasmissioni sia necessario realizzare quando la situazione sul
campo non basta da sola a raccontare nella sua completezza e
imparzialità un avvenimento. Non si tratta solo di adeguare lo
spazio o il tipo di servizi che ciascun telegiornale dedica all’argomento,
anche se proprio una riflessione sul mix seguito da alcune testate
nella copertura della guerra del Kosovo può fornire spunti utili
e, in qualche caso, sorprendenti. Bisogna anche allargare lo
sguardo al complesso dell’informazione che può essere
realizzata sull’intera programmazione di una rete, per trovare
le giuste forme di integrazione che assicurino al rispettivo
pubblico gli strumenti necessari a informarsi compiutamente ed a
formarsi un’opinione. Questo, consentirebbe anche di alleggerire
l’enfasi su quanto la tv non può far vedere direttamente e
servirebbe a ridare valore e dignità a quanto la tv è invece
riuscita a documentare anche nella Guerra del Kosovo, nonostante
tutte le difficoltà che si scoprono quando si ripercorre il
diario dell’inviato televisivo in questo conflitto.
Proprio sul fronte Belgrado, la televisione si trova subito in
panne. Il controllo del regime sull’uso della telecamera è
totale. Come a Baghdad, si riprendono i bombardamenti dai balconi
degli alberghi e dagli altri edifici occupati dalle tv. Si viene
condotti sugli obiettivi colpiti dalle bombe con visite guidate,
sotto il peso della propaganda di Milosevic. I pezzi sono
sottoposti a censura, vanno presentati con ore di anticipo
rispetto alla trasmissione. Questo ne fa perdere l’attualità.
Si ripiega sulla diretta, telefonica o, con altre difficoltà, in
collegamento audio-video, uno strumento meno idoneo del servizio
chiuso a dare il senso generale di quanto accade. Diversi
giornalisti televisivi italiani e stranieri sono accusati di
parteggiare per Belgrado o, comunque, di essere fortemente
condizionati nei loro servizi.
E come il regime intenda usare fino in fondo la forza
amplificatrice e anche la capacità di distorcere della
televisione, lo si vede con la cattura di tre marines americani,
episodio di poco rilievo militare, trasformato in evento di forte
impatto psicologico sull’opinione pubblica degli Stati Uniti
attraverso l’immediata esibizione davanti alle telecamere. La
televisione incassa con impaccio la scomoda posizione. Non può
non mostrare. E’ cronaca. Non può non enfatizzare. Anche
perché non c’è molto altro da far vedere.
Ma, ecco che, se giornalisti e operatori non possono andare in
Kosovo, c’è il Kosovo che va verso di loro. Migliaia di
profughi, con racconti di violenze ed orrori, si riversano sulle
frontiere albanesi e macedoni. E, proprio qui, la decisione del
governo di Skopie di non lasciarli entrare finché la comunità
internazionale non assicurerà di prenderli in carico, trasforma l’esodo
in un magma televisivo che conquista la scena.
Trenta, quaranta, forse sessantamila persone intrappolate sulla
terra di nessuno, a morire e soffrire per oltre una settimana,
davanti ai teleobiettivi delle telecamere che i macedoni tentano
di tenere a distanza, in un violento tira e molla tra soldati e
giornalisti che amplifica l’effetto lager nazista e treno per
Dacau. Anche qui, la tv vive con lucidità il conflitto di non
riuscire a non distorcere ed esasperare quanto sta accadendo. Il
dramma del campo di Blace è un fortissimo strumento per
dimostrare che la guerra umanitaria è inevitabile, per convincere
i riluttanti e travolgere i contrari con lo shock emotivo. Non
solo nei paesi occidentali, ma nella stessa Macedonia dove si
ferma l’ondata di violenza filo-serba che imperversava contro la
Nato. Lo spettacolo televisivo di Blace, infatti, consente a
Skopie di trasformarsi agli occhi dei propri cittadini in
protagonista diretto del braccio di ferro con americani ed
europei.
Proprio la coscienza di essere rimasti ancora una volta
imprigionati in un meccanismo che deforma e strumentalizza la
realtà, facendo leva sull’informazione che non può non essere
data, spinge i giornalisti televisivi al passaggio chiave nella
copertura della Guerra del Kosovo. I profughi sono la fonte
primaria di tutto quanto sta accadendo in Kosovo. Arrivano a
migliaia ogni giorno, mezzi morti, portandosi dietro ognuno decine
di storie. Vissute o sentite da altri. Basta andare ad
interrogarli sul confine o nei campi di accoglienza. Le telecamere
cominciano a documentare, con paziente opera di scrematura, di
confronto, di incrocio di dati e di nomi.
Puro lavoro da cronista: domande, risposte, controllo
incrociato delle fonti. E’ esattamente la stessa documentazione
che silenziosamente raccolgono altri signori, esperti militari
dell’inteligence che si aggirano con discrezione nei campi. I
sentito dire, le imprecisioni, le storie visionarie e le leggende
abbondano, bisogna schivare continuamente le esagerazioni e i
travisamenti di gente stravolta. Ma cominciano a venire fuori
anche i diari di massacri senza fine con nomi, riferimenti,
descrizioni che non lasciano dubbi. I sopralluoghi della forza di
pace, quando diventerà possibile entrare in Kosovo, confermeranno
gran parte di quanto la tv aveva già documentato.
Fare cronaca spicciola, aprire piccole finestre su tante
realtà, lì dove non è possibile portare la telecamera in prima
linea. Nel dubbio, documentare ciò che si può. “Troppo comodo
attendere i profughi al varco, senza tentare di rischiare, di
entrare in Kosovo a vedere direttamente”, è la critica mossa da
alcuni alla “profugheide” raccontata dalla tv. Chi la pensa in
questo modo è portato, in genere, a subire il fascino degli
avventurosi reportage televisivi in territorio kosovaro, buona
parte dei quali al seguito di guerriglieri dell’Uck, arricchiti
da eventuale scontro a fuoco con pattuglia serba. Ma portano
davvero un contributo maggiore di informazione e di comprensione
del conflitto queste finestre dal forte contenuto emotivo, che
documentano una realtà, questa sì, estremamente parziale e, a
pensarci un attimo, anche molto prevedibile?
Alla Guerra del Golfo, da un punto di vista dell’orgoglio
giornalistico, fu un grosso sacrificio fermarsi all’ultimo check
point alleato prima dell’ingresso a Bassora. Qualcuno confuse la
decisione di gran parte delle televisioni con la paura di dover
affrontare la Guardia Repubblicana irachena, che presidiava la via
di accesso alla città. I giornalisti della carta stampata che
decisero di passare, furono arrestati e trattenuti a lungo.
Quando, alla fine, gli iracheni li lasciarono liberi, raccontarono
sui loro giornali l’avventura di prigionia nelle mani delle
truppe scelte di Saddam Hussein. I giornalisti televisivi che
passarono quel check point, subirono lo stesso trattamento, non
poterono raccontarlo nei loro telegiornali e fecero solo perdere
per diversi giorni alle rispettive emittenti la preziosa presenza
di un uomo sul campo. Nel frattempo, quelli che non passarono,
ebbero la possibilità di documentare con certosina pazienza da
cronista tutto quello che era accaduto sulla via per Bassora,
centinaia di carri armati e blindati iracheni distrutti, senza che
si trovasse un solo corpo al loro interno.
In conclusione se la televisione non si può spegnere, è
necessario dedicare grande preparazione alla copertura delle
guerre e al training dei giornalisti che si inviano sul campo.
Bisogna studiare le procedure del “cosa-quando”, le reazioni
alle diverse situazioni e i rischi che esse nascondono.
Fondamentale è la logistica, l’organizzazione del lavoro che
garantisca la possibilità di una risposta flessibile ad un mezzo
pesante come la tv. Ma, tutto questo non servirà a risolvere
quello che sembra il problema principale della copertura dei
conflitti da parte della tv.
Il giornalista sul campo è facile preda di distorsioni,
esagerazioni, false impostazioni e, soprattutto, di visioni
parziali della realtà. In nessun modo è possibile evitare che
ciò accada. Sta a chi è al centro, a chi programma il
telegiornale e gli altri spazi informativi, ricomporre il
difficile equilibrio che la rappresentazione della guerra in tv
richiede.
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