Le donne e la rete
seconda parte

Giancarlo Livraghi – giugno 2011


Alcune osservazioni in aggiunta all’intervista
pubblicata in Dol’s il 23 giugno 2011


Disponibile anche in pdf
(migliore come testo stampabile)
 


 

Mentre, la settimana scorsa, stavo lavorando per l’intervista, mi venivano
in mente alcuni altri pensieri su questo argomento. Ho dovuto escluderli,
per evitare che le risposte diventassero troppo lunghe. Ma credo che ci siano
motivi interessanti per continuare a ragionare. Allargando la prospettiva.


Le donne – dalle origini della specie

Se vogliamo capire il presente (e avere qualche ipotesi ragionevole sul futuro) è importante studiare le lezioni del passato. Che stanno cambiando, perché l’antropologia ci sta insegnando a capire molto meglio le nostre origini.

Un aneddoto curioso è che, alcuni anni fa, si era diffusa una strana “notizia”. «Le donne esistevano diecimila anni prima degli uomini». Era sorprendente che nessuno si chiedesse come fosse possibile. Per diecimila anni, si erano riprodotte per partenogenesi? Accade in altre specie – ma non nella nostra (né, in generale, nei mammiferi). Anche se, con le tecnologie genetiche, forse potrebbe esserci qualcosa di simile in un futuro non lontano.

Mi chiesi, allora, quale fosse la spiegazione. E trovai la risposta: con le ricerche sul DNA, si risale più precisamente per via femminile. È più facile identificare antenate che antenati. I maschi c’erano, ma troviamo le femmine.

Il fatto importante è un altro. La genetica, insieme a più progrediti e attenti studi negli scavi, sta ridefinendo la storia delle nostre origini. Con risultati illuminanti anche per la comprensione del mondo di oggi.

Si è scoperto che i tempi sono più lunghi. Sembrava sorprendente, non molti anni fa, che culture umane, antiche di dieci millenni, fossero più evolute di quanto si immaginasse. Oggi si arriva a centomila anni – ed è probabile che, con qualche nuova scoperta, si possa andare ancora più indietro.

Sembrava impressionante che ci fossero esseri definibili “umani” un milione di anni fa. Ora ci sono motivi per pensare che si possa risalire a due milioni.

La ridefinizione delle origini può sembrare poco rilevante per capire dove siamo e dove stiamo andando. Invece è fondamentale. Perché non c’è umanità senza tecnologia. E alcune tecniche del remoto passato sono molto più raffinate di quanto si poteva immaginare. Più capiamo come questo fosse possibile con le risorse di allora, meglio possiamo interpretare la complessità in cui ci troviamo oggi.


Coscienza sociale e ruolo delle donne

Non voglio ripetere qui ciò che ho già scritto sull’importanza della responsabilità sociale in ogni cultura che si possa definire “umana” (per esempio in L’evoluzione dell'evoluzione – 2006). Ma è tragicamente preoccupante constatare come, nel mondo di oggi, sia troppo spesso trascurato il fatto che senza un intelligente equilibrio di esigenze individuali e collettive la nostra specie non può sopravvivere.

Così come la civiltà non può sopravvivere senza un ruolo importante e consapevole delle donne. Che c’era, ed era indispensabile, fin dalle origini.

Ma occorre sgombrare il terreno da malintesi e pregiudizi. Ora sappiamo che questo genere di cavernicolo non è mai esistito, se non nelle barzellette.


 

È vero che nella storia dell’evoluzione umana ci sono interessanti culture matriarcali. Ma ciò non significa che si debba “rovesciare” la prospettiva scherzando su ironici scenari inconciliabili con la realtà delle nostre origini.


 

Se l’unico strumento del più antico homo faber fosse stato una clava, non sarebbe mai nata alcuna cultura che si possa definire “umana”. E sarebbe così anche se a usarla fossero state le donne. Che di armi ne hanno sempre avute, ma molto meno grossolane.

È vero che molte gerarchie del passato, e troppe ancora oggi, hanno un’impronta “maschilista”. Ma lo studio delle origini ci insegna che l’evoluzione si è sempre basata su interazioni complesse, in cui il ruolo delle donne non è mai stato solo la cura dei bambini e il governo della casa. (Comunque non è il caso di dimenticare che “donna” deriva dal latino domina, signora e padrona).

Naturalmente sarebbe sciocco pensare che sia “tutto come prima”. I ruoli nella società di oggi sono necessariamente diversi non solo da quelli delle origini, ma anche da un passato recente. In questo contesto le attività “maschili” e “femminili” sono più facilmente intercambiabili. Un fertile intreccio il cui potenziale è ancora, in gran parte, da scoprire.

Ma (giova ripeterlo) lo studio delle origini rimane una risorsa fondamentale. Mentre tutto intorno a noi sembra in continuo cambiamento, la natura umana è sostanzialmente la stessa di centomila anni fa. Più impariamo a conoscerne la vera sostanza, meglio possiamo capire i nuovi orizzonti della complessità.

Non ci può essere progresso umano senza coscienza sociale. È sempre stato – e continua a essere – necessario capire e gestire il valore delle diversità. Non si tratta di blando consenso, di banale “vogliamoci bene”. Ci sono repressioni e ingiustizie che si devono affrontare con energia. Quando occorre, con severa durezza. Anche nelle società e culture meglio evolute, è necessario, anche desiderabile, che ci siano fasi e situazioni di dissenso, talvolta di conflitto. Ma l’unico esito desiderabile (e concretamente utile) è che si arrivi a capire come le differenze possano essere risorse.

Così accadeva centomila anni fa. Per motivi di cui riparleremo alla fine, oggi è ancora più importante e necessario.

A questo punto mi sembra opportuno inserire un ragionamento su professioni e mestieri. Che riguarda tutti – ma in particolare le donne.


L’importanza della “gavetta”

In un mondo apparente di presunte “carriere facili”, di favoritismi e demeritocrazia, ricorre ogni tanto il giusto ammonimento: “bisogna fare gavetta”. Così è sempre stato. E così è ancora oggi.

Se si tende a dimenticarlo, non è solo perché imperversano nei mass media le storie di successi ottenuti senza merito né impegno (o così si fa sembrare). È anche perché le università si fanno concorrenza con false promesse di “trovare facilmente lavoro”. E perché proliferano scuole “specialistiche” che raramente insegnano qualcosa di utile.

Nell’antica e bella storia di “arti e mestieri”, si è sempre saputo che è necessario “andare a bottega”. Non si diventa Leonardo da Vinci prima di essere stato un servizievole assistente del Verrocchio.

Certo, studiare (e farlo bene) è importante. Ma non basta. E questo ci porta a un esempio che riguarda le donne in un recente passato. Quando raggiungere ruoli di responsabilità era più difficile per le donne che per gli uomini (in parte lo è ancora) molte cominciavano come segretarie. Poi, un po’ per volta, erano “promosse”. Ma ciò che avevano imparato nella prima esperienza, conoscenza pratica di ogni genere di funzioni, rimaneva una risorsa di cui molti uomini erano privi. E perciò, arrivate a dirigere, erano (sono) più brave.

Di questo fatto ho parecchie esperienze personali. Per le molte donne con cui ho avuto il piacere di lavorare (comprese quelle che proprio io avevo promosso a ruoli di sempre maggiore responsabilità – a tal punto che un giorno alcune dirigenti vennero da me a protestare per un “eccesso di gineceo”. Stavano scherzando, ma non del tutto).

Mi scuso per la digressione personale, ma ho sempre avuto anch’io lo stesso vantaggio. Non ho mai lavorato come segretario, ma ho fatto con impegno quegli “umili mestieri” che mi permettono di capire quasi tutti i dettagli di un’organizzazione e ogni sorta di funzioni e attività meno appariscenti, ma indispensabili.

Un esempio fra tanti: molte donne, per quella loro esperienza iniziale. sanno scrivere a macchina. Per altri motivi, anch’io, fin da quando ero un ragazzino. Ne derivano parecchi vantaggi, come quello di imparare più facilmente come mettere le mani sulla tastiera di un computer.

E oggi? Con una maggiore diffusione di studi superiori, c’è meno voglia di “fare gavetta” o “andare a bottega”. Il rischio non è solo che le donne perdano uno dei loro vantaggi, ma che tutti diventino incapaci di passare dalla teoria alla pratica, di capire quelle cose che si imparano solo dall’esperienza.

Prima di tentare una conclusione, vorrei aprire una parentesi su ciò che ci può insegnare un caso di storia recente: lo sviluppo della dattilografia.


Un po’ di storia della “dattilografia”

Chi non è interessato all’archeologia delle tecniche e della scrittura, può saltare questa parte. Ma spero di no. Perché (anche indipendentemente dalla mia personale curiosità sull’argomento) è interessante, spero utile, conoscerne la storia, per capire un po’ meglio gli strumenti che usiamo oggi.

Un progetto di Henry Mill risale al 1714. Nel 1808 Pellegrino Turri inventò una “macchina per scrivere” (e anche la “carta carbone”). Altri prototipi erano il “tachigrafo” di Pietro Conti (1827), il “typowriter” di William Austin Burt (1829), il “chirographer” di Charles Thurber (1843), il “cembalo scrivano” di Cesare Ravizza (1855), il “pterotype” di John Pratt (1865).


 
Il “cembalo scrivano” di Cesare Ravizza

Un prototipo funzionante di macchina a tasti fu realizzato nel 1867 da un falegname sud-tirolese, Peter Mitterhofer.


 
La macchina di Mitterhofer

La “palla scrivente”, inventata in Danimarca da Rasmus Malling-Hansen nel 1867, fu realizzata e messa in commercio nel 1870. Devo confessare che non sono riuscito a fare una ricerca per capire come funzionasse. Ma a qualcosa doveva servire, visto che ebbe una certa diffusione negli uffici in Europa fino agli inizi del ventesimo secolo.


 
La “palla” di Malling-Hansen

Ci sono vari motivi per cui così tanti progetti non portarono alla diffusione della dattilografia (il problema più difficile era la velocità: molte di quelle macchine erano più lente della scrittura a mano). Non sono rari i casi di percorsi lunghi e complicati in ogni genere di invenzioni e scoperte.

Sembrano bizzarri quegli arnesi d’altri tempi. Ma segnavano il percorso di ricerca e sperimentazione da cui sono nati gli sviluppi successivi. E ci sono dettagli curiosi – come, per esempio, il fatto che una “palla” era ricomparsa nel 1961 come dispositivo di “battitura” nelle macchine elettriche IBM.

Potremmo anche chiederci quanti aggeggi, che oggi si propongono in pompa magna come “innovativi”, siano destinati a diventare ingombrante spazzatura o pezzi da museo. Ma quello è un altro discorso.

Vedi, per esempio, il caso dei mal concepiti dispositivi di lettura per i cosiddetti “e-book”.
Le malattie infantili degli e-book (e testi successivi sullo stesso argomento).

Insomma ci vollero centocinquant’anni di esperimenti prima di arrivare alla typewriter come poi fu diffusa in tutto il mondo: quella concepita da Christopher Latham Sholes (insieme a Carlos Glidden e Samuel W. Soule) nel 1867 (aveva già la tastiera “qwerty”).

A produrla industrialmente fu la Remington, nel 1874. È abbastanza strano che fossero passati più di quattrocento anni da quando Johann Gutenberg aveva sviluppato la tecnologia per la stampa. Duecentocinquanta da quando Blaise Pascal aveva progettato la prima calcolatrice moderna.

Sulle complesse calcolatrici sviluppate in epoca ellenistica, ma poi dimenticate per più di mille anni, vedi Il computer di Archimede.
Se osserviamo le prime macchine scriventi progettate nel diciannovesimo secolo, costruite con materiali e metodi disponibili da millenni, non è facile capire perché né Leonardo da Vinci, né altri inventori del rinascimento o dell’ellenismo, abbiano mai pensato a un “meccanismo per scrivere”. Forse sembrava poco dignitoso meccanizzare la scrittura?
 


 
La Remington del 1874
 

Agli inizi, la prima Remington ebbe scarsa diffusione. Se ne vendettero solo cinquemila. Era una macchina ancora un po’ rozza e poco efficiente. Il secondo modello, nel 1878, con un aspetto più sobrio, era notevolmente migliore. Ma ci vollero altri dieci anni per farlo diventare un grande successo.

La diffusione mondiale della dattilografia fu graduale. Continuò ad allargarsi nel ventesimo secolo. Assunse presto la caratteristica di una professione femminile. Questa immagine è tratta da una cartolina francese di cento anni fa (“circa” 1910).


 

Con le nuove macchine era nato un nuovo mestiere. E non si trattava solo di dattilografe. Anche scrittori e giornalisti impararono, un po’ per volta, a scrivere a macchina. Mark Twain si vantava, nel 1883, di essere stato il primo a consegnare un dattiloscritto a un editore. Ma si scoprì che aveva scritto il libro a mano e l'aveva fatto copiare.

Quando ero un ragazzino, mio nonno mi regalò una vecchia macchina “dismessa” dal suo ufficio (che per fortuna non era stata buttata via quando le avevano tutte sostituite con altre più moderne).


 

Questa robusta vecchietta mi è stata fedele compagna nell’adolescenza. Era un po’ azzoppata, con qualche tasto debole, ma non ha mai smesso di funzionare. Le volevo bene. Era la mia complice, rumorosa ma a modo suo quieta, negli ostinati tentativi di imparare la difficile arte di scrivere.

Tutto il mondo sa che nella storia della dattilografia, in generale delle macchine per ufficio, ha avuto un ruolo importante un’impresa italiana. Olivetti. Cominciò a produrre “macchine per scrivere” nel 1908. Protagonista, per più di settant’anni, non solo per la cultura d’impresa e per l’eccellente design, ma anche per la qualità tecnica, spesso innovativa, dei suoi prodotti.

È famosa nel mondo, specialmente fra giornalisti e scrittori, la sua storica portatile – la gloriosa lettera 22.


 

Naturalmente l’ho avuta anch’io, per parecchi anni. Ma poi l’ho sostituita con la sua attraente sorella, la Valentine. Tecnicamente uguale, ma esteticamente più bella.


 
Vedi La bella Valentina
 

Sarebbe troppo lungo ripercorrere qui la storia di un’eccellente impresa, purtroppo decaduta quando non è stata capace (nonostante le sue risorse tecniche e strategiche) di competere nel mercato, distorto e confuso, dei computer. Ma èil caso di ricordare che all’inizio la scrittura elettronica è stata un'evoluzione della dattilografia, non dell’informatica. E che la prima macchina per scrivere elettronica al mondo era, nel 1976, la ET 101 Olivetti. Seguita poi da altri modelli, che continuavano a essere i migliori di tutti. (A dirigere quegli sviluppi c’era una donna, Marisa Bellisario).

Finisce qui la parentesi sulla storia della dattilografia. Ritorniamo al tema. Qual è il ruolo di tutti noi, e in particolare delle donne, nel complesso mondo di oggi e di domani?

Sappiamo che oggi la situazione è cambiata, per tanti sviluppi della scienza e della conoscenza – e in particolare per i sistemi di comunicazione. Sappiamo anche che continuerà a cambiare. Ma è difficile prevedere come. L’ancora più sicura che abbiamo è capire le radici, la natura della nostra specie. Che è sostanzialmente la stessa da centomila anni (o forse milioni).

Visto che, “nonostante tutto”, finora l’umanità è riuscita a sopravvivere e a crescere, probabilmente non è inesorabilmente condannata a un tragico declino. Comunque, sta a noi gestire la situazione. Che ci offre grandi possibilità, mentre ci pone complicati problemi.


Un nuovo genere di “uguaglianza”

Rimango convinto che conoscere la storia e la natura della nostra specie sia la risorsa fondamentale per capire il presente e governare il futuro. Ma è vero che ci sono sviluppi nuovi le cui origini sono molto più recenti – e perciò il quadro è, in parte, diverso. E ancora da esplorare.

Il numero di umani viventi è enormemente cresciuto, molto più velocemente negli ultimi secoli e decenni che in qualsiasi epoca precedente. Sono anche molto aumentate le risorse di “benessere materiale” di cui una parte dell’umanità dispone – mentre il resto, giustamente, le desidera.

È un “successo” biologico ed evolutivo, ma anche un crescente problema, per il rischio di conseguenze catastrofiche nell’intero ecosistema. E anche lo sviluppo delle risorse di comunicazione, in sé un progresso importante, è inquinato da distonie e contraddizioni che non è facile gestire.

Anche il ruolo delle donne si colloca in un quadro di crescente complessità e di conflitti difficilmente gestibili. Con forti diversità, da situazioni molto evolute ad abominevoli repressioni che sono un tragico, pericoloso degrado rispetto agli equilibri di centomila o diecimila anni fa.

Non possiamo permetterci di aspettare che a risolvere i problemi sia il meccanismo, efficace ma lento, dell’evoluzione “darwiniana”. Anche perché si dovrebbe svolgere con l’inevitabile estinzione dei “meno adatti” – cosa mostruosamente rischiosa per una specie che dispone di strumenti di distruzione di massa (non solo armi, anche inquinamenti dell’ecosistema).

Vedi Stupidità e biologia, capitolo 2 di Il potere della stupidità.

Qual è il ruolo delle donne nel mondo di oggi e di domani? La risposta è diversa secondo le situazioni culturali. Dove sono represse e oppresse, il primo passo necessario è liberarle dalle loro catene. Nelle culture più evolute, occorre capire come si ridefiniscono i ruoli.

Ai tempi delle origini alcune diversità di ruolo erano determinate dalle caratteristiche fisiche. Era necessario che fossero gli uomini a cacciare i bisonti o difendere dai leoni. Oggi abbiamo tecnologie diverse, macchine e strumenti, le differenze non dipendono più dai muscoli.

Nessuno si stupisce più che una donna possa guidare un tir o pilotare un aeroplano. È normale che ci siano donne chirurgo, ingegnere, astronauta, soldato, generale, poliziotto, eccetera. È ancora infrequente, ma nessuno più lo considera strano, che ci siamo uomini “casalinghi” – o almeno capaci di contribuire a compiti domestici, compresa la cura e l’educazione dei figli.

Nelle nuove generazioni non si comincia a “scrivere a macchina”, si parte dal computer (anche se le tastiere sono ancora “qwerty”, cioè la serie dei tasti alfabetici comincia con q-w-e-r-t-y – cosa necessaria nelle macchine meccaniche, inutile nelle elettroniche). Così viene a mancare uno “storico” elemento di superiorità femminile (che nel frattempo, con l’evoluzione dei ruoli, diventa meno importante).

La riduzione, se non eliminazione, di discriminazioni e ostacoli è un serio progresso. Ma ci resta ancora molto da imparare. Non avrebbe senso “copiare” le intelligenti distribuzioni dei ruoli così com’erano nel paleolitico – ma possiamo utilmente applicare, nella realtà di oggi, gli stessi criteri.

Oggi, per fortuna, in società come la nostra le donne vanno a scuola come gli uomini. O anche di più. Spesso le ragazze sono più brave. Ma anche loro rischiano di dimenticare l’importanza della “gavetta” e di “andare a bottega”. Oggi anche loro si aspettano che un “titolo di studio” possa aprire miracolosamente le porte di un lavoro qualificato e motivante. Dovranno imparare che la cosa non è – e non è mai stata – così semplice.

Non è “vergognoso” cominciare, anche se si ha una laurea o si sta frequentando un’università, a “fare pratica” come falegname, mozzo, commessa, babysitter, fattorino, giardiniere, bibliotecario o guida turistica. Anzi, è educativo e utile fare esperienze di lavoro mentre si è ancora a scuola, non necessariamente connesse alle materie che si stanno studiando.

La scuola, comunque, non è tutto. È sempre importante, anche prima e dopo, aver voglia di imparare da tutto e da tutti. Arricchirsi di conoscenza anche su argomenti che possono sembrare estranei al proprio percorso formativo. E rimanere sempre aperti, anche quando si è più avanti nella vita professionale, a tutto ciò che ci può insegnare il lavoro di gruppo.

La diversità di culture e di esperienze, come la diversità di “genere”, età e modo di pensare, non è un problema. È una risorsa. Se questo era vero in una piccola tribù preistorica, lo è ancora di più nel mondo “globale” di oggi. Con metodi che non abbiamo ancora avuto il tempo di imparare in tutta la loro possibile utilità.

Non sono così stupido da credere che ci possa essere una ricetta miracolosa per risolvere questi problemi. Ma “prenderne coscienza” è già un passo importante.

È vero che le donne sono spesso più concrete, consapevoli, pragmatiche, efficienti? Credo di si. Ma è venuto il momento di dimostrarlo, nella realtà di oggi. Difficile e faticosa per la complessità dei problemi, ma affascinante quando si trovano le soluzioni.


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Tre altri testi

Su “le donne e la rete” un articolo pubblicato nel 2006

L’arte di comunicare, così nuova e così antica 2008

La comunicazione, oggi – il paradosso dell’abbondanza 2009



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