La crisi economica del 1929-32

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Alla fine degli anni ’20, i traumi prodotti dalla prima guerra mondiale sembravano essere superati. L’indebitamento pubblico e l’inflazione andavano infatti riassorbendosi, gli accordi franco-tedeschi aprivano una prospettiva di pace e di relazioni stabili e il sistema produttivo statunitense continuava ad espandersi in modo sostenuto. Tutto ciò portò ad un boom economico con una grandissima crescita del sistema industriale americano.

L’euforia e l’ottimismo derivati dal boom economico misero in moto comportamenti che ebbero come risultato il crollo del mercato borsistico americano. La grande crescita del sistema industriale fece aumentare grandemente non solo i profitti, ma anche il valore delle azioni e l’aspettativa di poter realizzare grandi guadagni con la compravendita azionaria. Da ciò derivò una corsa sfrenata alla speculazione azionaria, cioè all’acquisto di azioni per lucrare sul loro incremento di prezzo. Questo incremento era tuttavia sempre più legato al gioco della domanda borsistica che agli effettivi risultati delle imprese.


La saturazione del mercato interno statunitense si intrecciò con la decisione delle maggiori banche di distogliere finanziamenti dall’Europa per concentrarli sulla speculazione di borsa. Ciò portò ad una contemporanea caduta della domanda interna ed esterna, compromessa sia dalla caduta dei finanziamenti americani che dalle misure protezionistiche che molti paesi adottarono come risposta a quelle statunitensi. Negli USA vennero poste barriere d’ingresso alle importazioni e vennero bloccati i finanziamenti all’estero. Ciò provocò il tracollo del commercio internazionale e la crisi finanziaria di molti Stati, soprattutto europei.
La “grande crisi” andò quindi a colpire anche l’Europa.


La ripresa delle economie europee fu immediatamente arrestata dalla crisi americana e il sistema produttivo venne messo in ginocchio dal collasso del sistema bancario e di quelli monetari. L’esportazione della crisi avvenne quando le banche statunitensi chiesero il pagamento dei crediti che avevano concesso all’estero. Grandi banche tedesche ed austriache fallirono, provocando una contrazione del credito, cosicché molte industrie, non potendo più ricevere finanziamenti, furono costrette a chiudere.

I Paesi più colpiti furono quelli che avevano avuto maggiore necessità dell’aiuto delle banche statunitensi, in particolare la Germania, che aveva fatto ampio ricorso al credito americano dopo il piano Dawes; inoltre la politica deflazionistica di Bruning incrementò il malessere sociale, dato che egli adottò una politica di contenimento delle spese statali, di riduzione dei salari e dei prezzi e il rifiuto di intraprendere lavori pubblici. In questo modo crebbe a dismisura la disoccupazione.

La sterlina inglese era sull’orlo del collasso (le riserve auree della Banca d’Inghilterra erano esaurite) e venne svalutata del 40%; ciò portò grande turbamento in quanto era sancita la decadenza commerciale della Gran Bretagna. Le autorità statali, per migliorare le condizioni delle aree depresse, incentivarono progetti di edilizia privata e pubblica. Per la Gran Bretagna le conseguenze della crisi furono comunque attenuate dall’esistenza di un mercato protetto, costituito dall’impero britannico.

Le conseguenze per gli altri paesi furono meno gravi. La Francia, infatti, non ebbe bisogno di finanziamenti perché aveva un commercio interno in grado di sopperire alla contrazione di quello internazionale. I costi della disoccupazione vennero pagati dai lavoratori immigrati che rientravano in patria, e l’agricoltura fu in grado di assorbire parte degli operai che erano stati licenziati nei centri urbani.




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