Università degli studi di
Macerata - Anno accademico 2002-2003
Seminario di Teorie e tecniche della Comunicazione di massa : Sandro
Petrone
IL PROGRAMMA
Il programma del seminario di quest'anno è incentrato sul passaggio dal linguaggio scritto al linguaggio audiovisivo per l'informazione radio-televisiva. Il testo sono le dispense in vendita da metà maggio nella libreria Floriani di Macerata. Dagli appunti pubblicati qui di seguito si può avere un'idea dell'impostazione.
Università degli studi di
Macerata - Anno accademico 2001-2002
III Modulo : Sandro
Petrone
IL PROGRAMMA
Il programma di quest'anno, più limitato del solito, si può reperire nel sito dell'università al seguente indirizzo: Programmi dei corsi. Gli appunti sono gli stessi degli altri anni, la parte pubblicata finora on-line e riportata qui di seguito.
Università degli studi di
Macerata - Anno accademico 1999-2000
III Modulo : Sandro
Petrone
IL PROGRAMMA
- Scenari e parte generale: tra errori del
passato e rivoluzione in arrivo
- Linguaggio e tecniche del giornalismo
televisivo: il Basic reporting tv parte 1 e 2
(immagini, suoni,
parole, l'intreccio)
- Organizzazione del lavoro: macchina
produttiva del tg e inserimento nel palinsesto
- Contenuto dell’informazione: scelta e
trattamento nell’era della globalizzazione
- La tv alla svolta: i motori del
cambiamento e l’esperienza dei canali 24 ore
- Dai media audiovisivi alla multimedialità:
storia, principi, tecniche del giornalismo totale.
Partendo dal “caso italiano” di un’informazione
televisiva rimasta imbrigliata nella cultura della carta stampata, il
corso ricostruisce i principi e le tecniche di un corretto ed efficace
giornalismo audiovisivo così come è stato elaborato all’estero,
passaggio insostituibile per affrontare poi la rivoluzione informatica
in arrivo.
Si parte dal “Basic reporting”, cioè le tecniche
di base per il cronista in tv, in grado di raccontare in uno
spazio assai contenuto tutti gli elementi essenziali di una storia.
Si accenna, poi, all’organizzazione del lavoro
che rende possibile questi risultati.
Si analizzano, quindi, i criteri di scelta
delle notizie nei tg e negli altri programmi di informazione, cioè i
meccanismi decisionali adoperati dai responsabili delle testate e di
come essi siano influenzati dalla cosiddetta globalizzazione.
Infine, le nuove forme di giornalismo portate
dalla rivoluzione tecnologica e da altri fattori economici e
socio-culturali : dai nuovi canali 24 ore alle news-room mutlimediale,
dall’integrazione fra informatica e telecomunicazioni fino al
cyber-journalism.
OBIETTIVI DEL CORSO
:
ovvero capire e imparare a leggere cosa accade dentro il
telegiornale, come è confezionato il prodotto, perché e che cosa
significa;
Acquisire gli strumenti per produrre un
servizio o un programma di informazione : anche se non si arriva a
farlo in pratica, se ne studiano principi, procedure e tecniche ;
Acquisire gli strumenti per capire e gestire l’organizzazione
necessaria a realizzare un particolare prodotto informativo ;
Avere gli strumenti per valutare e scegliere
l'informazione;
Avere gli strumenti per vivere il cambiamento,
per partecipare alla trasformazione tecnologica senza esserne
travolto.
In conclusione, il corso vuole aiutare a capire cosa
accadrà domani, partendo dal tipo di giornalismo che oggi in Italia
non è ancora compiutamente realizzato e che, invece, presto dovrebbe
svilupparsi nelle nuove forme del far informazione. Se, da un lato, si
va verso la globalizzazione, verso fenomeni giornalistici che
riguardano tutto il mondo (dalla rete americana Cnn, alle centinaia di
altre televisioni via satellite o, ancora, a Internet), dall'altro la
stessa globalizzazione porta allo sviluppo di un giornalismo
fortemente personalizzato, “localizzato”, cioè diretto a pubblici
molto mirati o, addirittura, in grado di consentire ad ognuno di
costruire il proprio messaggio individuale.
Come accade in genere dovunque cadano le frontiere
fra stati, anche nell’informazione più ci s’immerge in una
situazione soprannazionale, più rispuntano prepotentemente le istanze
e le culture locali ed acquistano valore le piccole vicende umane in
grado di rappresentarle. Così, mentre da un lato si diffondono
informazioni e storie in grado di essere condivise dal pubblico
globale, dall’altro trovano spazio quelle tipiche di realtà molto
circoscritte.
Nello scenario appena descritto, sotto la spinta
decisiva delle nuove tecnologie, un numero sempre crescente di persone
diventa parte del circuito informativo. E non più in rigida posizione
o di emittenti o di destinatari, ma alternativamente o
contemporaneamente nei due ruoli. Se si pensa che ogni stazione
televisiva ha oggi la possibilità di collegarsi a decine o a
centinaia di telecamere personali, di singoli cittadini, sparse
ovunque nel mondo, è evidente che la tradizionale comunicazione “da
uno verso molti”, secondo lo schema classico di un’emittente che
invia il messaggio ad una moltitudine indistinta di destinatari, tende
a trasformarsi in comunicazione “da molti a molti”, nel complicato
gioco dell’interattività. Un cambiamento che ha subito negli ultimi
anni una forte accelerazione. Basti pensare che il primo
cyber-journalist, giornalista cibernetico, fu accreditato alla Casa
Bianca nel 1995. Oggi il cyberjournalism è diventato diffusissimo,
una realtà alla portata di ognuno di noi.
Il corso è stato condotto da Sandro
Petrone, giornalista del Tg2.
La parte sulla scelta e sul trattamento delle
notizie è stata svolta con David
Willey, corrispondente della Bbc.
La parte sulle nuove tecnologie, la multimedialità,
Internet e il cyber-journalism, con Roberto
Mastroianni, giornalista Rai che sta curando lo sviluppo delle
nuove tecnologie e dell’informazione via Internet nel canale Rainews24.
Le dispense sono aggiornate alla data del 30
giugno 2000. La parte nuova va dal capitolo "Le immagini", che
modifica e sostituisce il precedente. Tutti i diritti sono riservati
ed è vietata la riproduzione anche parziale del testo, tranne che
agli studenti dell'Università di Macerata per uso personale.
- 1 - LO SCENARIO ATTUALE E
IL CASO ITALIANO
- Il Teorema dell’acqua calda
Raccontare in cosa consiste e come si realizza il
giornalismo televisivo può sembrare una cosa banale, un po’ come
predicare il “Teorema dell’acqua calda”. Se è vero che la
televisione è un sistema che consente di vedere le immagini e di
sentire i suoni, è ovvio che il linguaggio che le si addice non può
che essere a base di immagini e di suoni, e la parola stessa deve
rientrare nel genere parlato più che scritto. In soldoni: la
televisione si fa con le immagini e con i suoni, un po' come
l'aviazione si fa con aerei e con piloti. Tutto il resto, è una
conseguenza logica di questo principio evidente. E' la scoperta
dell'acqua calda, non c'è certo bisogno di scrivere un libro per
divulgarla. Perciò, con una buona dose di auto-ironia, ho spesso dato
forma di teoremi ai semplici principi enunciati, con tanto di assiomi
e di corollari, nei quali la dimostrazione, lapalissiana, si trasforma
in un gioco mnemonico per ricordare una cosa che, in fondo, già
sappiamo. L'archetipo è, appunto, il Teorema dell'acqua calda: dato
un mezzo di comunicazione in grado riprodurre immagini e suoni, che si
definisce televisione, qualsiasi messaggio si voglia trasmettere
attraverso di esso dovrà essere organizzato in una opportuna miscela
di immagini e di suoni atta a trasferire il maggior numero di
informazioni.
Ma, purtroppo, non è detto che da premesse così
semplici e scontate si traggano conseguenze altrettanto ovvie. Gli
esseri umani, e gli italiani in particolare, hanno una tendenza innata
a complicare le cose e, soprattutto, a adattarle ai propri casi
contingenti, anziché farle marciare per il loro verso naturale.
In Italia è così potuto accadere che, negli ultimi
25 anni, l’informazione in tv seguisse un percorso molto diverso da
quello che sarebbe stato normale e ovvio, cioè quello che, intanto,
si è sviluppato all’estero. Qui, sotto la spinta di fattori
economici, politico-sociali, tecnologici e tecnico professionali, si
è andato progressivamente elaborando e perfezionando, fino ad un
livello ottimale, un modello di linguaggio audiovisivo e di produzione
molto efficiente, di derivazione anglo-americana.
Per anni, invece, in Italia generazioni di
giornalisti sono passate dai giornali alla televisione portando con
sé gli strumenti di lavoro e le tecniche della carta stampata. Hanno
chiamato "tele-giornali" i programmi di notizie che
realizzavano, così come i loro predecessori, anni prima, avevano
chiamato "giornali-radio" i programmi di informazione
radiofonici.
Proprio come se si trattasse solamente di trasferire
sul piccolo schermo gli articoli di un quotidiano, con le relative
foto, hanno cominciato a parlare di "illustrare il pezzo con le
immagini", di "impaginazione" delle notizie, di
"copertina", di "prima pagina", dividendo poi il
programma in successive "pagine" con la stessa scansione e
con gli stessi nomi adoperati dalla carta stampata. Al centro c’è
sempre un testo che va “impaginato”, coperto con qualcosa per
poter essere “pubblicato” in video.
“Dagli una sporcatina di immagini” è la celebre
frase che la dice lunga sul modo distorto di concepite il messaggio
audiovisivo. E’ l’invito che ancora oggi molti redattori rivolgono
ai montatori, tendendogli due cassette, una sulla quale hanno
registrato il testo del servizio e l’altra con le immagini girate da
un operatore alla quale, magari, non hanno neppure dato uno sguardo.
Insomma, arrangiati come puoi a mettere qualcosa di visibile sulla mia
voce che legge il servizio.
- Wall-paper e Talking-heads
Si tratta di un’informazione scritta nella quale
le immagini servono come illustrazione. Wall-paper, carta da
parato, ironizzano gli inglesi. E, molto spesso, per immagine si
intende la faccia di un giornalista che parla davanti alla telecamera.
Talking-heads, cioè teste parlanti, è ancora la definizione
anglosassone. In sostanza, non conoscendo il linguaggio audiovisivo,
un intera classe di giornalisti ha tentato di riportare il messaggio
nella dimensione primordiale della comunicazione, quella del rapporto
interpersonale, del racconto diretto fatto usando le risorse del
proprio corpo, a cominciare, dunque, dalla voce e dalla faccia.
Effetto dell’equivoco da sprovveduti, o da semplificatori terribili,
convinti che in televisione basti dire, parlare, per far arrivare al
pubblico le informazioni.
"Voltiamo pagina", afferma tuttora
tranquillamente lo speaker del tg, mentre il programma, come se fosse
una pagina di giornale, passa via via dalle notizie più importanti,
"in testa", alle meno importanti, "in coda". E
più avanti si afferma: "veniamo alla pagina degli esteri".
Oppure: "in chiusura, la pagina dello sport". Perfino le
sigle dei tg non hanno avuto fino a poco fa come motivo dominante
l'obiettivo di una telecamera ma, assieme all’onnipresente
mappamondo (ma poi di estero si parla pochino), il ticchettio, la
tastiera, i martelletti o, nel migliore dei casi, la testina di una
macchina per scrivere elettrica Ibm.
Quanto alla struttura dei servizi, la musica non
cambia. Visto che convenzionalmente i pezzi si misurano in cartelle
dattiloscritte formate, in genere, da trenta righe di sessanta battute
ciascuna, e poiché per leggere dodici o quattordici righe ci si
impiega all'incirca un minuto, il modulo adottato in tv è stato
quello delle notizie "brevi" pubblicate dai giornali, vale a
dire tra le dieci e le venti righe.
"A voi basta scrivere dei telegrammi",
hanno sempre ironizzato i giornalisti della carta stampata con i
colleghi della tv. Nella loro visione, è assolutamente secondaria
l'ulteriore fase di lavorazione dopo la scrittura , cioè la
costruzione della storia per immagini, con le interviste-testimonianze
e il testo dove occorre, ovvero il montaggio. Un procedimento visto,
invece, un po' come il passaggio in tipografia del pezzo per la
composizione e l'impaginazione. E, invece, dovrebbe essere la fase
principale, addirittura precedente alla stesura del testo, come si usa
nelle migliori emittenti straniere.
Un equivoco vissuto sempre con forte disagio dall’esercito
di giornalisti televisivi rimasti orfani della carta stampata. Tra
loro è diffuso il vezzo di schermirsi con i colleghi della stampa,
dichiarando di scrivere se non “telegrammi”, “marchettine”.
Cioè, cose insignificanti in termini giornalistici, non certo
articoli di quelli veri! “Marchettine” per milioni di italiani
che, invece, attendevano le informazioni della giornata!
Giornalisti che, per liberarsi dalla prigione dei
“telegrammi” non trovano altro sistema che lasciarsi andare, ogni
volta che gli viene permesso, a interminabili sbrodolate in diretta,
parlando per minuti e minuti con buffi pezzetti di carta o block notes
in mano, su argomenti spesso astratti, come la politica, che si
sarebbero potuti rendere meglio in pochi secondi usando la sintesi
audiovisiva. Interi telegiornali bruciati per spiegare cose che, se
formulati in un modo appropriato al mezzo, avrebbero occupato un terzo
dello spazio, o si sarebbero potuti non raccontare affatto perché
inidonei alla tv, oltre che non essenziali, evitando così di
sottrarre tempo ad argomenti più immediati e più utili per la vita
della gente.
- Cappio politico e cappio professionale
La responsabilità di tutto ciò, può essere in
gran parte attribuita all’indebita ingerenza esercitata dalla
politica sul mezzo televisivo, principale strumento per la propaganda
elettorale di massa. E poi, ad un’inadeguata risposta
tecnico-professionale dei giornalisti, da un lato rimasti
pervicacemente abbarbicati ai precetti della carta stampata,
inapplicabili in tv, e dall’altro in forte difficoltà, per problemi
interni alla categoria, a reagire al giogo dei partiti e dei grandi
gruppi industriali in modo da rendere effettiva la libertà e l’indipendenza
dell’informazione . A voler azzardare cifre, un 70% di
responsabilità al primo fattore e un 30% al secondo. Ma, come
vedremo, c’è un legame strettissimo di causa ed effetto fra i due
elementi.
C’è una data che può essere assunta come punto
di non ritorno per la direzione deviata presa dal giornalismo
televisivo italiano, ed è il 14 aprile 1975 con l’emanazione della
legge n°103 di riforma “Del servizio pubblico di diffusione
radiofonica e televisiva”. Con essa si sottraeva al Governo e si
affidava al Parlamento il controllo del servizio pubblico
radiotelevisivo, considerato “a carattere di preminente interesse
generale” e quindi “riservato allo Stato”.
L’intento dichiarato era di “ampliare la
partecipazione dei cittadini a concorrere allo sviluppo sociale e
culturale del Paese”, dunque di garantire il pluralismo e la
copertura di tutti gli interessi del popolo italiano, canalizzati
attraverso il principale organo della rappresentanza e della
sovranità popolare che è il Parlamento. E proprio questo, si
stabilì, determina l’indirizzo generale ed esercita la vigilanza
attraverso la Commissione per l’indirizzo generale e la vigilanza
dei servizi radiotelevisivi.
In realtà, si consegnò così l’informazione
radiotelevisiva, il più potente strumento elettorale, nelle mani dei
politici. L’accordo concluso dai partiti di governo (DC, PSI, PSDI e
PRI) prima dell’approvazione della legge traduceva la parola “pluralismo”
in spartizione di reti e testate fra le diverse aree politiche (al
voto, il PCI si astenne, PLI e MSI votarono contro). In sostanza, si
sanciva il principio dell’occupazione partitica della Rai, con quote
proporzionali in base ai voti ricevuti alle elezioni o secondo l’effettivo
potere esercitato nella coalizione di governo.
Non solo per il Consiglio di amministrazione, che
per accontentare tutti fu portato a 16 membri, non solo per i
direttori e i loro vice, di cui si indicava apertamente l’area, ma
per ogni singolo giornalista assunto (e molti sostengono anche per
ogni singolo impiegato, tecnico o manovale) cominciò ad essere
necessario stabilire in quale “quota” rientrasse, cioè a quale
partito appartenesse il posto da lui occupato, in base ad un sistema
molto preciso di divisione fondato sul padrinato politico, “l’editore
di riferimento”, secondo la celebre espressione usata dal
giornalista Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, in uno scontro in
diretta con il segretario del Pri, Giorgio La Malfa.
In sostanza, da allora tutte le assunzioni furono
gestite direttamente dalle segreterie dei partiti. E, poiché tutti i
partiti pretesero ovviamente di essere rappresentati, la televisione
di Stato cominciò a dover dire tutto quello che volevano i partiti.
Indipendentemente dal rilievo obiettivo che le esternazioni avevano
per la vita della gente. Un sistema di reclutamento dal quale solo ora
si sta uscendo.
A ciò si aggiungeva l’inconveniente di non poco
conto che le qualità professionali e la meritocrazia diventavano
assolutamente inutili, e si affermava invece come unico criterio
premiante l’appartenenza partitica e la capacità di servire gli
interessi del proprio politico di riferimento, con tanti saluti per l’imparzialità
e la credibilità giornalistica. Ma, in più, il passaggio determinò
altre conseguenze deleterie a livello organizzativo e professionale.
Se nel fare 10 assunzioni, per esempio, 4 dovevano
essere di uomini indicati dalla DC, 3 dal PCI, 2 dal PSI, 1 fra
repubblicani, liberali e altre minoranze, significa che se la DC aveva
da sistemare 4 dei suoi, tendeva a dimostrare che servivano 10
assunzioni. Nel frattempo, i posti si erano comunque allargati, con l’istituzione
di una seconda e di una terza rete, che fu articolata su un livello
nazionale e su uno regionale per l’informazione.
Ma, allora, il problema diventa anche: chi porto in
televisione per farmi rappresentare? Dove mai si trovano, infatti,
tutti questi giornalisti televisivi, bravi ma disponibili a rinunciare
alla propria autonomia professionale. A farsi portatori di interessi
politici di parte, quasi portaborse? Quando possibile, fu reclutata
gente dalla carta stampata, altrimenti dai giornaletti di partito,
dagli uffici stampa o veri e propri portaborse, o addirittura figli e
figlie di amici, o di personaggi influenti, nipoti dei grandi elettori
o dei dirigenti delle banche finanziatrici, e così via nella catena
clientelare, che non ha nulla a che fare con le regole del buon
giornalismo, se non in casi fortuiti.
Così è accaduto che la tv sia stata invasa da
centinaia di persone che conoscevano bene gli interessi di cui erano
portatori ma non sapevano fare televisione. E, quindi, nel migliore
dei casi hanno cominciato ad applicare le regole della carta stampata
o quelle del mestiere che facevano prima, per esempio i comizi
politici. E, poiché sono stati rapidamente fatti promuovere ai posti
di comando dai loro referenti, ansiosi di avere i propri uomini in
posti chiave, questi neofiti del mestiere hanno condizionato tutta la
catena produttiva, determinando un disastro senza via d’uscita
perché le risorse per cambiare rotta sarebbero dovute venire da essi
stessi.
Dunque, ecco i tg invasi da sproloqui di mezzibusti
impegnati con quanto di più astratto un mezzo del concreto, come la
televisione, possa dover comunicare: le elucubrazioni politiche.
Un furto di informazioni. Per tener dietro alla
comiziocrazia (corollario dell'equazione: servizio pubblico uguale
bollettino di partito), ogni giorno i telegiornali hanno soppresso
deliberatamente decine di notizie che sarebbero state più utili per
aiutare a vivere i cittadini-utenti, e contribuenti del canone, ed
avrebbero quindi costituito vero servizio pubblico.
La gente, negli Anni Ottanta, ha cominciato a
fuggire da questa politica teleimposta. Ma i politici non hanno capito
il motivo di tanta disaffezione ed hanno pensato di curarla rincarato
la dose di tormentone in tv. E, poiché i loro protetti televisivi,
anziché trovare formule televisivamente più incisive -che, essendo
figli della carta stampata, non avevano a disposizione- hanno
incalzato il pubblico con ancora più mezzobustismo, lo sfascio è
stato inevitabile.
Non è difficile individuare il ruolo di
acceleratore del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica giocato
da questo tele-scollamento tra politici e paese, alimentato dal
cattivo servizio dell'informazione in tv (vedi in appendice: “Il
teorema di Tierreallegre”)
- Alla guerra come alla guerra
Nel 1979 la situazione italiana era già
sufficientemente differente da quella maturata all’estero da
giustificare il legittimo dubbio che fosse il momento di aprire un
confronto e correggere la rotta. Bastava poco per accorgersene. Ma gli
eventi italiani (vedi Paul Ginsborg “L’Italia del tempo presente -
Famiglia, società civile, Stato 1980-1996”, Einaudi 1998) e, in
particolare, il controllo politico sull’informazione televisiva,
hanno fatto sì che il momento della verità tardasse parecchio. Il
vero impatto con la televisione internazionale si ha solo nel 1991,
durante la guerra del Golfo. E solo nel 1993, con Tangentopoli, si
può affermare che si sia iniziato faticosamente un processo di
cambiamento. E questo, ironia della sorte, proprio mentre per l’unica
emittente che in Italia aveva anticipato i tempi al 1987, la
Telemontecarlo gestita dai brasiliani di Rede Globo, cominciava il
declino con l’uscita di scena dei brasiliani (strangolati
progressivamente perché gli erano tolte le poche frequenze che
detenevano, anziché attribuirgli le nuove come era
nei piani) e il successivo uniformarsi della nuova proprietà alle
vicende italiane.
Quando la Guerra del Golfo esplose super-annunciata,
il 16 gennaio 1991, la svolta nel mondo dell'informazione televisiva
era ormai cosa fatta. Sulla scena, dominata dal crollo dell'Est, si
era già affacciato un nuovo modello produttivo, spinto, come spesso
accade da una miscela di difficoltà economiche e di innovazioni
tecnologiche, e basato sull'uso esasperato di immagini attinte
dovunque fossero disponibili, da altre tv o agenzie, non importa.
Ma fu la diabolica macchina da censura alla fonte,
ideata dagli strateghi del Desert Storm, a costringere tutte le tv del
Pianeta a far ricorso a questo nuovo modo di fare informazione,
sfruttando elettronica e satelliti. Per seguire il conflitto gli
americani imponevano un modulo di lavoro basato sulla condivisione
delle informazioni e delle immagini fra tutte le emittenti.
Nessuno poteva andare in giro a raccogliere la propria parte di storie
e di testimonianze. Tutti i giornalisti e i cameraman erano bloccati e
sorvegliati negli alberghi dell’Arabia Saudita.
Ognuno aveva a disposizione gli stessi filmati,
ripresi da un pool o direttamente dai militari, e le stesse notizie.
Era un modo per mettere finalmente sotto controllo totale i reporter,
con un meccanismo di propaganda e di disinformazione che nelle altre
guerre non aveva mai raggiunto un livello simile di perfezione
organizzativa e di ineludibilità. Una censura geniale, c'è da
aggiungere. Senza dover filmare un'immagine e spesso senza neppure un
inviato in zona di operazioni, qualsiasi emittente fu messa in grado
di offrire ai propri spettatori l'illusione della guerra in diretta
(vedi in appendice: “La guerra non vista”).
Il modulo produttivo su cui gli americani fecero
leva, era in grado di abbattere i costi delle coperture
giornalistiche, fatto essenziale per le emittenti di tutto il mondo i
cui budget erano già saltati due anni prima, quando con il crollo
dell’Est per mesi e mesi avevano dovuto mandare in giro troupe e
pagare i costi di viaggio e di trasmissione via satellite. La novella
dottrina del villaggio globale non lasciò scampo, dalla Cbs alla
turca Trt, toccò adeguarsi o annegare in un mare di problemi e di
spese.
La tv italiana si trovò forzata a questa seconda
via. I giornalisti italiani allora furono costretti ad accorgersi che
il loro modo di fare informazione non aveva seguito lo stesso processo
di impiego generale dei modelli anglo-americani. Non era in grado di
funzionare in quel modo. E questo non perché la tv italiana avesse
elaborato autonomamente un sistema diverso e altrettanto valido,
magari in grado di sottrarla alle insidie dell’omologazione.
In realtà, pur facendo ricorso a risorse umane e
tecnologiche vastissime, il giornalismo televisivo italiano aveva
semplicemente espresso linguaggio, organizzazione del lavoro e
contenuti che erano quanto di più inadeguato alla tv si possa
immaginare. E questo in un paese che, oltre ad essere la settima
potenza industriale del mondo, vanta una cultura cinematografica
eccezionalmente ricca e nel quale i primi anni del piccolo schermo
sembravano assai promettenti anche nel campo giornalistico, dove un
motore interessante era costituito dalla tradizione del documentario d’autore.
Tentare di comprendere cosa sia accaduto e perché,
non è importante solo per dare un contributo e, se possibile, per
accelerare il processo di recupero che sembra finalmente essersi messo
in moto e i cui risultati si sono cominciati a vedere dai primi mesi
del 1999. E neppure perché i molti che queste cose vanno ripetendo
praticamente da metà Anni Settanta, come chi scrive, possano
rivendicare di aver visto giusto e di aver lottato contro corrente,
pagando un prezzo professionale altissimo, molto spesso con la
completa emarginazione o disoccupazione.
Il punto decisivo è che anche la multimedialità e
i nuovi media saranno sviluppati a partire da quello che è il
linguaggio di base della tv, cioè il linguaggio audio-visivo e l’organizzazione
del lavoro necessaria a produrlo. Se proprio questa base è viziata,
rischiamo di cominciare con il piede sbagliato. Anziché approfittare
della trasformazione per sanare e superare i difetti del passato,
finiremo per precipitare in una situazione ancor più di arretratezza.
Oppure, visto che nella globalizzazione un sistema efficiente di nuove
tecnologie in Italia dovrà per forza esserci, si creerà un’elite
informatica che dominerà la scena. E così, le nuove tecnologie della
comunicazione, invece di essere uno strumento di democratizzazione e
un’occasione di lavoro per milioni di persone, in Italia darebbero
vita ad un'altra oligarchia, una centrale di potere e di consenso
facilmente controllabile dal potere politico.
Dunque, anche se la televisione scivola nel “teleputer”,
il nuovo elettrodomestico che si dice sarà al centro del cottage
elettronico, o comunque evolve in qualcos’altro grazie alle nuove
tecnologie, è sempre da lì, dal linguaggio audio-visivo che bisogna
partire per costruire correttamente il futuro. Dal modo più idoneo di
combinare gli elementi per dar vita ad un qualsiasi servizio
giornalistico televisivo, oppure ad un messaggio pubblicitario, o ad
un sito Internet, o a qualsiasi altra cosa sia una combinazione di
immagini-suoni-parole.
- 2 - LINGUAGGIO E TECNICHE
- Il Basic Reporting - Parte prima
INTRODUZIONE
C'è un punto di partenza molto efficace per
comprendere perché pensare e realizzare l'informazione televisiva
come se si trattasse di carta stampata trasferita sul video provochi,
a livello di messaggio, una drammatica povertà espressiva e dia vita,
a livello organizzativo, ad un meccanismo contorto, dove la distanza
fra la notizia e la messa in onda aumenta, in un tortuoso e innaturale
percorso di guerra.
Se vi viene affidato un pezzo in un giornale, la
misura è in righe. Come abbiamo visto, lo standard più diffuso è
quello delle trenta righe di sessanta battute per cartella
dattiloscritta. In televisione, invece, gli spazi a disposizione si
esprimono in secondi e in minuti.
Per orientarsi su quanto dovessero
"scrivere", i giornalisti si sono da sempre posti il
problema di quante righe entrassero nell'unità di tempo, vale a dire
quale sia il tempo di lettura dei loro testi. Si tratta, ovviamente,
di un rapporto variabile. Ma, uno standard medio, in italiano, è di
circa 14 righe al minuto.
La conclusione che se ne è tratta è che fare un
pezzo di un minuto equivale a scrivere 14 righe. E, dunque, in un
minuto e mezzo, che più correttamente si esprime come 90 secondi,
"entrano" una ventina di righe. Ciò vuol dire che in un
telegiornale medio, la cui durata oscilla attorno ai 20-25 minuti,
riusciremo a "ficcarci" a stento 280-350 righe. Davvero
pochino per dare un panorama della giornata rispetto ad un quotidiano
a stampa. E per fare ciò, si mantengono mobilitati un centinaio di
giornalisti a testata, più decine di altri addetti, più l'apporto di
sedi locali e corrispondenti. Insomma, per definizione una macchina
colossale in grado di produrre solo un topolino.
- Il teorema di Udinì e i maghi della Bbc
E, invece, la folle ipotesi dalla quale proponiamo
di partire è che in 90 secondi, anziché 20 righe, si possa far
entrare una quantità di informazione equivalente o senz'altro
maggiore di quella contenuta in 90 righe dattiloscritte. Insomma: 90
secondi =/> 90 righe.
E' da sottolineare subito che naturalmente si tratta
di "quantità" di informazione, perché il tipo di
informazione sarà certamente diverso. Lo abbiamo già messo in
chiaro. La tv è un mezzo che fa qualcosa di molto differente dalla
carta stampata, ciò che produce non è raffrontabile o sovrapponibile
al prodotto del giornalismo scritto. Anche per questo appare privo di
significato ogni conflitto tra le due, fino alla quotidiana e nefasta
rincorsa l'una dell'altra, come più avanti sarà messo meglio in
evidenza dal cosiddetto Teorema di Mosè.
Altrettanto ovvio è che a questo punto non si possa
più far conto unicamente sul testo scritto. Anzi, per raggiungere
l'obiettivo a prima vista irreale di tanta informazione in così poco
spazio, bisogna dare un taglio proprio alle righe...
"Il candidato realizzi un servizio televisivo
da 90 secondi, utilizzando non più di 40 secondi di testo". Di
fronte a un tema così formulato trasecolava ogni giornalista
britannico quando qualche anno fa, appena lasciata la carta stampata,
le redazioni del Times, del Guardian o di meno gloriose
testate, per un posto alla Bbc, si ritrovava seduto tra i banchi del
Journalist Training, un'aula con annessa sala docenti nel Television
Centre di Wood Lane (la Saxa Rubra di Londra). Messo in questa
situazione, il nuovo assunto dimenticava istantaneamente la credenza
che fare informazione in tv fosse la rilassante e piacevole arte di
scrivere telegrammi da dodici o quindici righe, e precipitava in uno
stato di preoccupato disorientamento.
Non potendo eludere il problema, né prenderlo
sottogamba, visto che il corso di formazione era ed è ancora un
requisito obbligatorio per entrare in redazione, l'aspirante
telegiornalista si scatenava in una raffica di domande.
Quante righe sono 30 secondi di testo? E cosa
diavolo si mette negli altri 60 secondi, se non altro testo? Cosa si
adopera prima, i 30 secondi di testo o quegli altri 60 di non si sa
cosa? E cosa mai sarà possibile dire in 30 secondi?
Appreso dall'istruttore che non è il caso di fare
traduzioni da numero di secondi in numero di righe, che 30 secondi
sono 30 secondi, e che tutt'al più è utile sapere che ogni
secondo corrisponde a circa tre parole, sempre che si adoperino
parole brevi, più comprensibili e più pronunciabili, ricevuto il
consiglio di distribuire i 30 secondi di testo fra gli altri 60 di
"situazioni televisive", il candidato era costretto
immediatamente a porsi interrogativi più propriamente televisivi.
Quali immagini e interviste ho a disposizione? Quali informazioni
raccontano le immagini e le interviste? Cosa posso evitare di dire,
perché sarà già stato detto dal conduttore prima del mio servizio?
Da dove mi conviene far cominciare la mia storia? Cioè, quale
immagine introduce meglio lo spettatore nel racconto, in modo che sia
più facile spiegargli cosa è accaduto? Come posso fare quando non ho
le immagini per rappresentare una situazione? E così via.
- Il teorema della Tavolozza
Dietro ognuna delle risposte corrette a questi
interrogativi ci sono pezzi consistenti di teoria e tecnica della
comunicazione, elaborazioni nate nel grande laboratorio del mestiere
pratico o dallo studio e dalla ricerca che nel mondo sono state
realizzate giorno dopo giorno per migliorare e per rendere più
efficace, o solo più adatta alle differenti situazioni e ai diversi
pubblici, l’informazione televisiva.
Entrare da questa porta, costringerebbe ad una
costruzione della materia molto complessa. Un percorso non solo
impossibile in un breve corso universitario, ma anche nella maggior
parte delle situazioni in cui ad apprendere sono gli stessi
giornalisti che hanno già una cognizione diretta della materia e dei
problemi che si devono affrontare.
E’ più semplice ed efficace entrare direttamente
nella logica del linguaggio audiovisivo applicato all’informazione e
far riferimento alle giustificazioni teoriche solo quando le ragioni
delle scelte e delle soluzioni non siano immediate e lapalissiane,
così come per fortuna avviene nella maggior parte dei casi.
E’ un procedere per “verità” enunciate come
principi assoluti, assistiti dall’evidenza dei fatti, che si è
rivelato molto efficace sia con gli studenti sia con i professionisti
e al quale, per autoironia e per facilitare la memorizzazione, ho
attribuito la forma dei “teoremi”, come detto più su.
Enunciazioni che servono a comprendere e che, al contrario dei teoremi
veri, si possono abbandonare quando si vuole, tutte le volte che il
messaggio raggiunge correttamente l’obiettivo anche violando il “teorema”.
Perché nulla come la comunicazione è il regno di ciò che
pragmaticamente funziona. E, nella maggior parte dei casi, si può
lasciare agli studiosi la spiegazione del perché funzioni.
Perciò, per spiegare come va cambiata la
prospettiva in cui ci si pone quando dal linguaggio scritto si passa a
quello audiovisivo, racconto che tutte le volte che devo realizzare un
pezzo per il telegiornale, immagino di avere in mano una tavolozza
da pittore sulla quale dispongo tutti gli ingredienti necessari a
fare un buon lavoro.
Non è per dare alla mia attività un taglio
artistico o poetico. Ma per imporre a me stesso il cambio di
linguaggio, poiché anche io sono stato formato a scuola alla
comunicazione della parola e poi al giornalismo scritto. E’ un
passaggio simbolico da uno strumento di comunicazione ad un altro, un
modo per non dimenticarmi che sto strutturando un messaggio diverso.
Proprio come dipingere è diverso da scrivere.
Afferrato il concetto, che è quello di tenere
costantemente presenti tutti gli strumenti propri di un certo
linguaggio, ognuno può poi sostituire la tavolozza con ciò che gli
è più congeniale. Per esempio, uno schermo da computer con tutte le
icone, oppure una scrivania con tanti cassetti, la plancia di una
cabina di pilotaggio e così via.
La tavolozza va divisa in tre parti diverse.
Nella prima metteremo le immagini, nella seconda i suoni,
nella terza le parole. E’ come se stessimo dicendo: divido la
tavolozza in una parte per i colori, una per i bianchi e i neri e una
terza per gli strumenti da disegno. E, proprio come i tanti colori che
possiamo mettere sulla tavolozza, avremo a disposizione immagini di
tipo diverso, differenti tipi di suono, parole di natura diversa.
Proprio questa ricchezza di strumenti va
elencata ed analizzata, prima di passare a vedere come si possono
combinare tra loro gli elementi per delineare il messaggio,
cioè dargli una struttura, proprio come si abbozza un quadro.
E, infine, come il messaggio assuma forma compiuta attraverso il montaggio,
ovvero l’operazione che serve a mettere concretamente assieme gli
elementi secondo la struttura prevista.
Alcuni considerano il montaggio il quarto elemento
della tavolozza. A nostro avviso, si tratta di un passaggio successivo
che conviene trattare a parte.
L’ordine scelto, prima le immagini, poi i suoni e,
infine, le parole, non serve solo ad enfatizzare il fatto che troppo
spesso in Italia si parte dal testo per aggiustarvi sopra immagini e,
se proprio serve, il suono. E’ anche l’ordine logico in cui
considerare gli elementi se nel lavoro pratico si vogliono evitare
false partenze, vicoli ciechi, giri tortuosi, perdite di tempo.
LE IMMAGINI
Il primo passo è stilare una lista dei vari tipi di
immagine che possiamo utilizzare, una specie di campionario nel quale
attingere secondo necessità.
Un elenco che si può compilare semplicemente
guardando in tv un po’ di notiziari italiani e stranieri: immagini
fisse e immagini in movimento; immagini di cronaca e immagini di
archivio; grafici, cartine e animazioni; realtà virtuale e disegni.
L’unità di base dalla quale bisogna partire è il
fotogramma, termine che indica una singola immagine, la
singola foto, che resta impressa sulla pellicola, fotografica o
cinematografica. Con il passaggio dalla pellicola al nastro magnetico,
a metà-fine Anni Settanta, il fotogramma è sempre più
frequentemente indicato con il termine inglese frame. Il
principio tecnico tra la impressione di un fotogramma sulla pellicola
e la riproduzione di un frame in tv è diverso, come vedremo tra un
attimo. Ma, ciò che si indica da un punto di vista della percezione
visiva è la stessa cosa: una singola immagine catturata in un
determinato istante. E l’angolo di realtà che essa racchiude è l’inquadratura.
A) Immagini fisse e Immagini in movimento.
La prima distinzione è fra immagini fisse e
immagini in movimento.
- Le immagini fisse sono le foto o le
diapositive oppure i fermo fotogramma, cioè un frame, una singola
immagine estratta da una ripresa video o cinematografica. Fornite
dalle agenzie o attinte da qualsiasi altra fonte come video,
pellicole, copie su carta o da giornali, queste immagini sono
trasferite in formato digitale e conservate nella DLS (Digital
Library System) o biblioteca digitale per essere poi usate in
vario modo, o all’interno dei servizi registrati, o direttamente
in onda.
- Le immagini in movimento. La rapida
successione di immagini fisse, nel cinema moderno 24 fotogrammi al
secondo, è percepita dall’occhio umano come immagine in movimento
ed è, perciò, anche definita “illusione” del movimento.
In tv, lo stesso principio si applica al frame,
che è però composto da due semi-quadri, corrispondenti a metà frame
ciascuno, che si accavallano in successione.
L’immagine televisiva in movimento, in Europa, è
data da 25 frame al secondo. La corrente elettrica, infatti, da noi ha
una frequenza di 50 Hertz (cicli) al secondo, capace di generare 50
semi-quadri al secondo, corrispondenti a 25 frame (negli Stati Uniti
si marcia a 60Hertz e, dunque, 30 frame al secondo).
A.1) L’inquadratura.
Dal punto di vista del linguaggio, l’unità
di base alla quale corrisponde il singolo fotogramma (nella tecnica
fotografica) o una sequenza omogenea di fotogrammi (nella tecnica
cinematografica) è l’inquadratura, cioè: lo spazio o
campo visivo che si decide di delimitare con l’obiettivo
e che varia in estensione, angolo e profondità
secondo la posizione della macchina, il tipo di lente
adoperato, la luce presente.
L’inquadratura è, dunque, la scelta fondamentale
attraverso la quale si stabilisce cosa far vedere di una determinata
realtà o scena. E il primo esercizio, per chiunque voglia occuparsi
di comunicazione audiovisiva, è cominciare ad inquadrare la realtà,
prima con una macchina fotografica, poi con una videocamera, tenuta
ferma su un cavalletto e senza muovere l’ottica durante ciascuna
inquadratura (che deve avere una durata di circa dieci secondi,
comunque non inferiore a sette), e verificare poi cosa comunichi e
cosa significhi ognuna delle immagini fisse o, nel caso della
videocamera, ciascuna delle scene riprese.
Il principio dell’azione
Rispetto all’inquadratura, per quanto riguarda le
immagini in movimento, domina il principio dell’azione, cioè
del movimento nello spazio, del soggetto o di più soggetti, girato
dalla macchina da presa. L’azione è ciò che motiva, da un punto di
vista drammaturgico, l’inquadratura. Vale a dire, posta un’inquadratura
fissa, sarà rilevante innanzi tutto cosa accade al suo interno.
Solo successivamente ci si può preoccupare di come
muovere l’ottica e la telecamera per generare un’azione o seguirla
in modo dinamico.
Le inquadrature di base
Le inquadrature di base sono tre: il Campo lungo
o CL (in inglese long shot o LS), il Campo medio o CM (medium
shot o MS) e il Primo piano o PP (close up CU).
Tra queste, si individuano diverse altre
inquadrature intermedie, ognuna delle quali dotata di un significato e
di una funzione particolare nel contesto in cui è adoperata.
Campo lungo. E’ l’inquadratura
in cui la persona è ripresa per intero ed inserita nell’ambiente in
cui si muove. Il soggetto occupa in genere i 2/3 in altezza del
fotogramma ed ha dunque aria sia in testa, sia ai piedi. Offre una
visione a distanza della persona, ma sufficientemente ravvicinata da
renderla riconoscibile. Se riguarda solo un ambiente, serve a
rappresentarlo nella sua interezza, nella sua visione globale.
Se adoperata all’inizio del servizio è definita
“inquadratura di fondamento” o “di riferimento” o “establishing
shot”, perché definisce il rapporto tra le persone e tra queste
e l’ambiente. Il CL è usato spesso anche quando il soggetto compie
un movimento completo all’interno dell’inquadratura, senza che vi
sia bisogno di muovere la macchina.
Campo medio. Taglia il
corpo appena sotto la cintura. Serve a dare una visione ravvicinata di
un soggetto o di una scena, ad escludere tutto ciò che non è
strettamente significativo per l’azione. Può includere anche due
persone e, in questo senso, è un’inquadratura tipica da
televisione. Se riguarda solo un ambiente, serve a portare lo
spettatore nella zona precisa dove si svolge l’azione. Per la sua
flessibilità è una delle inquadrature più adoperate. Più piccolo
è il soggetto, più aria bisogna dargli nella direzione dello
sguardo.
Primo piano. Taglia il
soggetto appena sopra la testa e poco sotto le spalle. Lo isola in
questo modo dall’ambiente e ne enfatizza sia l’aspetto fisico, sia
le reazioni. Difficile da realizzare se il soggetto è in movimento.
Sempre più usato nella tv emozionale, tende a deformare la realtà e
a ingigantirla. Il primo piano degli oggetti funziona in modo analogo
(es. un telefono sul tavolo e la mano che sta per afferrarlo).
Stringendo ancora l’inquadratura si ha il primissimo
piano, che inquadra meno dell’intero viso di una persona e i due
terzi circa di un oggetto (es. la pulsantiera del telefono), e il dettaglio
che mostra solo una parte del viso (es. gli occhi) o di un oggetto
(es. i tre numeri della pulsantiera fra i quali il protagonista non
riesce a ricordare quello giusto). Tra il primo e il primissimo piano
qualcuno individua anche un gran primo piano, dal mento alla cima dei
capelli.
Allargando l’inquadratura dal primo piano, di
trova un mezzo primo piano, da poco sotto il petto a poco sopra
la testa. Allargando dal campo medio, l’inquadratura alle ginocchia
detta anche piano americano perché tipica dei film western, e
poi il mezzo campo lungo, un po’ meno larga del campo lungo.
E, più largo di quest’ultimo, il campo lunghissimo ed estremamente
lungo, secondo varie e diverse classificazioni.
A.2) La composizione
In ciascuna inquadratura, i soggetti andranno
disposti secondo una serie di regole e di valutazioni, non solo per
creare un effetto armonico e rispettare i canoni estetici, ma
soprattutto per ottenere i significati voluti e per avere la
possibilità di sviluppare la narrazione attraverso il passaggio da un’inquadratura
all’altra, da una scena all’altra.
L’occhio segue un percorso preciso nel leggere l’immagine
(Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo). Bisogna aiutarlo, escludendo o
mettendo in evidenza dettagli, alterando le proporzioni, sottolineando
la profondità di campo giocando sui piani, la prospettiva, la
disposizione degli oggetti.
Nel predisporre la composizione, sono molto valide
strumenti come “La regola dei terzi”, che suggerisce di dividere l’inquadratura
sia verticalmente che orizzontalmente in tre parti uguali e disporre i
soggetti principali all’intersezione fra queste linee. Ma, dopo un
periodo di noviziato, in cui è meglio seguire le regole che fare
confusione, vale molto di più l’esperienza e il ragionare sull’effetto
che si ottiene praticamente.
A.3) La posizione della
telecamera
Molto importante è la posizione in cui si dispone
la telecamera. Il principio generale è che le persone vanno riprese ad
altezza degli occhi.
La ripresa dall’alto, schiaccia,
rimpicciolisce, toglie importanza alle persone. Quella dal basso
conferisce potere ed autorità. Non a caso i dittatori e gli
assolutisti si fanno riprendere sempre dal basso, mentre presidenti
accorti all’immagine, come il francese Francoise Mitterrand,
vietavano le riprese dall’alto. Così è scorretto e paternalistico
filmare i bambini dall’altezza degli adulti, significa non scendere
nel loro mondo a vedere le cose con i loro occhi.
Il punto di vista
La posizione della telecamera determina anche il
punto di vista, cioè la prospettiva dalla quale è effettuata la
ripresa, da quale posizione la scena è osservata.
- La prospettiva oggettiva è quella che dà
l’effetto di guardare dal buco della serratura. Nessuno si
rivolge direttamente in macchina e l’obiettivo osserva l’azione
non visto.
- La prospettiva soggettiva mette lo
spettatore nella posizione di chi agisce, guarda la realtà come
parte in causa e interagisce con gli altri protagonisti.
- La prospettiva di cronaca è quella della
realtà raccontata da un cronista o da un presentatore guardando
in camera.
A.4) Movimenti del
soggetto, di ottica, di macchina e carrelli
Ogni inquadratura risente di quatto possibili
elementi che possono variare o restare fissi: il soggetto, l’ottica
della telecamera, la telecamera, e il supporto di
camera, cioè il tipo di sostegno sul quale è montata e si muove la
macchina da presa: spalla dell’operatore; cavalletto fisso (tripot);
supporto camera da studio (definito Debrie dal vecchio cavalletto a
rotelle del cinema, anche se questo era sprovvisto di colonnina
idraulica e di manopola per muoverlo); il carrello su rotaie; il
carrello su ruote dotato di braccio elevatore (crane mount), ecc.
a) Movimenti del soggetto
Possono essere azioni semplici di un unico
soggetto (essere vivente, oggetto animato o oggetto inanimato), come
un cambiamento di postura o di posizione che non trasformi
radicalmente la composizione dell’inquadratura; i piccoli
spostamenti di due soggetti in rapporto fra loro (es., due persone che
dialogano); un semplice ingresso o uscita di scena. Oppure azioni
complesse di due o più soggetti.
b) Movimenti dell’ottica
L’inquadratura può essere modificata montando
sulla telecamera ottiche fisse intercambiabili, cioè obiettivi
di differenti caratteristiche, in grado di dare ciascuno un unico, diverso
angolo di visuale (dal grand’angolo, che riesce a comprendere
una notevole porzione di realtà, al teleobiettivo, che stringe la
ripresa su un soggetto anche molto lontano).
Da anni, le macchine da presa hanno adottato un tipo
di ottica che, oltre ad essere intercambiabile, è mobile,
cioè in grado di passare da un’inquadratura più ampia a una più
stretta, e viceversa, senza bisogno di cambiare obiettivo. Il
movimento di spostamento da una posizione all’altra può essere
utilizzato come elemento descrittivo.
Questo tipo di ottica si chiama zoom.
- Zoom in avanti: stringe in progressione l’inquadratura
sul soggetto voluto, fino a isolarlo dal contesto.
- Zoom indietro: allarga progressivamente
dal soggetto all’ambiente in cui esso si trova.
c) Movimenti della telecamera
,
restando perfettamente parallela al suolo, la telecamera ruota sul
proprio asse verso destra o verso sinistra di un certo numero di
gradi e con una velocità proporzionata alla durata e al significato
che si vuole dare al movimento.
Panoramica a destra, va da sinistra verso
destra (preferenziale per i paesi in cui si scrive, e quindi si
legge, in analoga direzione);
Panoramica a sinistra, che va da sinistra
verso destra (preferenziale per arabi, israeliani e altri popoli che
scrivono da destra a sinistra).
Panoramica verticale (o
Tilt), la telecamera ruota sul proprio asse verso l’alto o verso il
basso.
Panoramica in alto, o Tilt-up, va dal basso
verso l’alto;
Panoramica in basso, o Tilt-down, va dall’alto
verso il basso.
d) Movimenti del supporto
: la macchina
da presa, posta sulla spalla dell’operatore o su un’intelaiatura
di varia complessità tecnica (come la steady-cam, la telecamera che
assorbe i movimenti), avanza o indietreggia sulla scena seguendo l’azione
come se fosse lo stesso spettatore a poterla osservare spostandosi
dietro ad essa.
Carrello in avanti o indietro:
la macchina da presa si muove su binari per seguire l’azione nel suo
svolgimento.
Camera-car: la telecamera si muove su un’automobile
o su altro mezzo analogo.
Dolly: la macchina da
presa e’ montata su un braccio idraulico in grado di alzarsi, di
abbassarsi e di ruotare sul proprio asse con fluidità, e a sua volta
posto su un carrello con ruote capace di spostarsi in tutte le
direzioni. Oltre ai movimenti in avanti e indietro e laterali, riesce
a sviluppare un movimento in alto, in basso e diagonali.
Gru a motore: la macchina da presa è in
cima ad un lungo braccio di gru, mosso da un motore in varie
direzioni e montato spesso su un carrello.
A.5) Significato dei
movimenti
Da un punto di vista del linguaggio, ciascun
movimento conferisce un significato specifico alla
ripresa. Quando adoperiamo un movimento, dunque, questo condiziona in
modo diretto e preciso ciò che vogliamo esprimere nel messaggio
audiovisivo. Non è, perciò, corretto usarli con puro valore
descrittivo, per rappresentare un fatto in modo generico o per
occupare un certo tempo necessario a leggere un pezzo di testo, ovvero
per allungare un’immagine in modo da poter parlarci su.
- Panoramica a destra o sinistra/in alto o in
basso: serve a portare l’inquadratura da un soggetto all’altro,
a scoprire una parte di scena o di ambiente esclusa dall’inquadratura
precedente, a descrivere un soggetto, uno scenario o un ambiente.
Vincola a seguire lo stesso ordine nella narrazione.
- Zoom in avanti o zoom a chiudere o a stringere:
serve a portare l’attenzione su un singolo elemento dell’inquadratura,
escludendo tutto quello che c’è intorno (es. identificare fra
più oggetti l’arma del delitto). Si effettua stringendo
progressivamente l’inquadratura in un tempo proporzionato al
ritmo della narrazione (da 3 a 7 secondi in un servizio di 70
secondi; anche 30 in un film o in un documentario di un’ora)
- Zoom indietro o zoom ad aprire o ad allargare:
serve a scoprire, rivelare il contesto in cui si trova il soggetto
di un’inquadratura stretta (es. dalle scarpe dell’assassino
alla scena del delitto). Si effettua allargando progressivamente l’inquadratura
in un tempo proporzionato al ritmo della narrazione.
- Carrello in avanti o indietro: ha più o
meno lo stesso valore dello zoom, ma ha un significato più
intenso e maggiori sfumature espressive. Per comprendere le
differenze, si dice che mentre lo zoom porta l’oggetto, la
situazione allo spettatore, il carrello porta lo spettatore nella
situazione.
- Dolly e gru: consentono di far muovere lo
spettatore in una scena da varie prospettive e angoli di
osservazione.
A.6) Il codice delle
riprese
Il significato espresso da una ripresa diventa,
dunque, progressivamente di complessità maggiore secondo il modo via
via più articolato in cui gli elementi e i movimenti sono combinati
fra loro.
1) La ripresa semplice
Il livello di base è quello dell’inquadratura
fissa in cui la telecamera, a spalla o su supporto, resta ferma
sul campo visivo prescelto. A muoversi è il soggetto, con un’azione
di tipo semplice. Dunque:
- Nessun movimento di ottica;
- Nessun movimento della telecamera;
- Nessun movimento di supporto;
- Un movimento semplice del soggetto.
2) La ripresa complessa
Quando al movimento semplice di uno o più soggetti
si aggiunge un movimento di ottica e/o della telecamera, la
ripresa diventa complessa. Una panoramica orizzontale o verticale, un
misto delle due, uno zoom unito magari ad una panoramica, il movimento
del soggetto unito ad una panoramica, danno luogo ad una ripresa
complessa. E’ necessario che la partenza e la fine della ripresa
siano statiche, un’inquadratura fissa, in modo da aprire e
concludere con un senso di stabilità che consente di darle un senso
definito. Dunque:
- Un movimento di ottica;
- Un movimento della telecamera;
- Nessun movimento di supporto;
- Un movimento semplice del soggetto.
3) La ripresa in evoluzione
(piano-sequenza)
E’ forse il tipo più difficile di ripresa.
Rispetto alla ripresa complessa, si aggiunge un movimento complicato
di più soggetti e un movimento del supporto della telecamera. Si
tratta, quindi, di una successione di vari movimenti che seguono l’azione
dei soggetti per un periodo di tempo rilevante. Deve iniziare e
concludersi con un’inquadratura fissa e la tecnica per legare i vari
movimenti deve consentire un risultato che non comprometta l’impatto
visivo. In sostanza, lo spettatore non deve rendersi conto, non deve
notare cosa sta facendo la telecamera. Un buon piano-sequenza funziona
da solo, così come è stato realizzato e non ha bisogno di essere
montato. Dunque:
- Movimenti di ottica;
- Movimenti della telecamera;
- Movimenti del supporto;
- Movimento complicato dei soggetti.
B) Immagini di cronaca e
immagini di archivio
La seconda distinzione generale è fra immagini di
cronaca e immagini di archivio.
-Le immagini di cronaca sono quelle che si
riferiscono ai fatti e ai personaggi protagonisti delle notizie che si
devono raccontare. Sono le immagini dell’attualità, riprese dal
nostro cameraman, oppure da quello di un’altra televisione o di un’agenzia
o da chiunque si trovasse sul posto durante il fatto. Immagini,
dunque, che abbiamo direttamente a disposizione, oppure che sono
inviate sui canali internazionali in abbonamento, o che acquistiamo da
chiunque ne disponga. Qualsiasi immagine è buona, perché sia più
vicina possibile all'avvenimento.
-Le immagini di archivio sono quelle dei
personaggi o dei luoghi di cui si deve parlare, ma riprese nel
passato, in altre circostanze, e conservate in videoteca per essere
riutilizzate. Le immagini di archivio possono essere adoperate,
fondamentalmente, in due circostanze: quando mancano immagini di
cronaca o quando si deve raccontare qualcosa avvenuto nel passato.
a) per sopperire alla mancanza di immagini di
cronaca, cioè per sostituire con valore generico ed
esemplificativo le immagini dirette dell’avvenimento attuale che non
sono state girate o non sono reperibili. Se, per esempio, non si
dispone della dichiarazione fatta oggi da un personaggio, si riferirà
ciò che egli ha detto utilizzando una sua immagine quanto più
recente è possibile, curando di non cadere in effetti ridicoli, come
mostrare una persona con cappotto e sciarpa in pieno agosto, oppure
mostrarlo sorridente se è protagonista di una disgrazia.
E così, adopereremo le immagini di un determinato
aereo in volo, quando quel modello sarà stato protagonista di un
disastro di cui manca ancora la documentazione, o le scene di vita nei
Territori occupati quando dovremo descrivere i contenuti di un accordo
appena raggiunto. In tutti questi casi, il rapporto generico delle
immagini con l’avvenimento di cui si parla dovrà essere
sottolineato da un’indicazione scritta come “archivio” o “repertorio”
(anche se questa seconda espressione, adoperata dalla Rai, ha un senso
più negativo, non di immagini preziose conservate, ma di immagini
consunte, usate e riusate ad ogni occasione).
b) per il loro valore storico, come citazione
di un fatto del passato che torna di attualità o ha rilevanza per una
notizia che si deve raccontare. In questo caso il rapporto con il
testo sarà molto più specifico e andrà chiarito anche con molta
precisione l’evento specifico al quale le immagini si riferiscono.
Per rimanere in tema di Medio Oriente, se rispetto ad un nuovo accordo
di pace, si fa riferimento ad un precedente passaggio del processo di
pace. O, se, per descrivere la reazione di Israele, si mostrano una
serie di attentati degli ultimi tempi.
Mentre quando le immagini di archivio sostituiscono
quelle di cronaca si ha comunque un’impressione di povertà e di
debolezza del messaggio, quando sono utilizzate per il loro valore
storico, al contrario, l’effetto è di ricchezza e di efficacia.
B.1 Le agenzie di immagini e Eurovisione
(paragrafo incompleto al 7 marzo 2.000)
Nessuna televisione è in grado di seguire
direttamente con i propri cameraman tutti gli avvenimenti del giorno
nel proprio paese o all’estero. Per quanto si possa programmare (in
una tv ben organizzata si prevede quasi il 70% dei fatti di cui si
vuole dare conto), le notizie improvvise, gli sviluppi inattesi, le
distanze e il numero degli avvenimenti è tale da mettere in crisi
rapidamente anche un gigante dell’informazione (anche quando si
programma il 70%, è fisiologico che un 20% salti travolto dall’attualità).
Non resta, dunque, altra strada che scambiare le
immagini fra emittenti o acquistarle da chiunque sia in grado di
fornirle, videoamatori occasionali o professionisti, oppure da
organizzazioni nate proprio per raccogliere e vendere coperture
televisive dell’informazione: le agenzie.
Il principale scambio di immagini al mondo è
costituito dall’Eurovisione, l’organizzazione delle tv
europee nato proprio per ridurre i costi e consentire telegiornali
più ricchi di immagini.
Con sede a Ginevra, Eurovisione organizza l’invio
continuo di immagini su un circuito ricevuto da tutte le emittenti
affiliate. Ciascuna emissione ha una durata che va da pochi minuti a
oltre un’ora ed è accompagnata da un servizio di agenzie,
originariamente di telex, con il quale sono diffuse tutte le
informazioni necessarie a comprendere a cosa si riferiscono le
immagini, chi sono i personaggi raffigurati e come si è svolta la
storia. Gli orari sono espressi esclusivamente in Gmt per consentire a
tutti di avere un punto di riferimento.
Le emissioni di Eurovisione più importanti per i tg
sono:
- Evn M (dove Evn sta per Eurovision news e M sta
per morning) alle 5.30 del mattino (4.30 Gmt) e per circa 25-30
minuti è il primo sguardo sugli avvenimenti del mondo,
soprattutto dei paesi dove, per il fuso orario, la notte è appena
calata o il giorno è già avanti.
- Evn Y dalle 10.30 (9.30 Gmt) e per circa 25-30
minuti, contiene i principali fatti europei.
- Evn 0 dalle 12,00 (11.00 Gmt) e per circa 25-30
minuti, è l’aggiornamento finale prima dei telegiornali
principali, quelli delle 13.00.
- Evn W dalle 15.15 (14.15 Gmt) e per 20-25 minuti,
originariamente dedicata agli avvenimenti dell’Est, dal mondo
sovietico, ora genericamente composta da storie di un certo
rilievo, europee o di qualsiasi altra origine.
- Evn 1 dalle 17.00 (16.00 Gmt) e per 25-30 minuti,
è l’emissione fondamentale per i tg della sera (le 18 in Gran
Bretagna, le 20 in Francia, Italia, Germania e altri paesi
europei). Ha i principali avvenimenti delle ultime ore.
- Evn 2 dalle 18.30 (17.30 Gmt) e per 10-15 minuti,
è ancora oggi l’ultimo aggiornamento per i tg della sera,
spesso brevissimo o, addirittura, soppresso.
C) Immagini grafiche, animazioni, realtà
virtuale
La grafica è una delle più grandi risorse in tv
per rappresentare cose astratte o di cui non esistono
immagini, per visualizzare situazioni complesse e che le
stesse immagini non sono in grado di rendere opportunamente. Anche qui
si può distinguere fra immagini fisse e in movimento che, in questo
caso, chiameremo cartelli grafici e animazioni.
Una cartina geografica è senz’altro il miglior
modo per localizzare un avvenimento, per esempio un aereo che è
precipitato. Se c’è un po’ di tempo a disposizione prima della
messa in onda, il grafico avrà modo di ricostruire con un
tratteggiato il tragitto del volo dalla città di origine fino a
quella di destinazione e di indicare il punto in cui volo si è
interrotto.
In una successiva edizione, la dinamica dell’incidente
diventerà un’animazione sulla cartina, sarà cioè aggiunto
il movimento. E’ solo questione di tempo a disposizione e di
apparecchiature tecniche, oltre che di abilità del grafico e di
organizzazione del lavoro.
Fondamentale è il briefing, il contatto
spesso concitato e sintetico con il quale il giornalista, o chi per
lui, presenta la richiesta al reparto grafico. Dal modo in cui le
informazioni e le istruzioni sono date, dalla conoscenza che il
giornalista ha dei mezzi a disposizione e dei tempi di esecuzione,
dipende la riuscita della comunicazione. Una regola è fondamentale:
bisogna presentare una richiesta, corredata di tutte le informazioni
che consentano al disegnatore di sviluppare l’idea grafica, non
bisogna fornire la soluzione. Anche se l’informativa andrà discussa
verbalmente, è sempre utile mettere per iscritto la richiesta. Il
disegnatore avrà così un punto di riferimento per seguire le
istruzioni del giornalista.
L’evoluzione del computer ha inciso notevolmente
sull’uso della grafica, sia a due, sia a tre dimensioni, rendendo
sempre più agevole inserire scritte e animazioni e ricostruire
situazioni progressivamente più articolate.
Altro passaggio decisivo è la possibilità dell’uso
della realtà virtuale. La ricostruzione nello spazio
artificiale del computer di vicende reali, di informazione, può
lasciare molti perplessi. Si sono aperte discussioni e polemiche sull’uso
della finzione (e anche della fiction) per rappresentare la vita reale
e, fatto più delicato, le vicende di cronaca. Ma, per quanto a noi
interessa, e fatto salvo il dovere di approfondire opportunamente
questo tema, qualsiasi rappresentazione della realtà si ottiene
tramite manipolazione e grazie all’uso di un linguaggio. Importante
è padroneggiare il processo di comunicazione in modo che tutto
avvenga in modo corretto. Non cambia molto se si distorce la realtà
spacciando immagini di archivio per immagini di cronaca oppure
falsando gli avvenimenti con la realtà virtuale. Al contrario, in
molti casi, l’uso della realtà virtuale permetterà di
rappresentare in modo sintetico ed efficace situazioni e avvenimenti
dei quali non esistono documentazioni filmate o che le immagini non
consentono di comprendere adeguatamente.
D) Disegni e tavole
All’estremo opposto della realtà virtuale, c’è
il capitolo disegni e tavole, cioè illustrazione delle notizie con l’arte
pittorica. Si pensi ai processi penali nei quali spesso, soprattutto
nei paesi anglosassoni, è vietato fare riprese per non alterare gli
equilibri giuridici ed emozionali del dibattimento. Un disegnatore
presente in aula ha un impatto molto minore di una telecamera. Le fasi
del processo sono rappresentate con tavole a colori realizzate con
particolari accorgimenti e con dimensioni tali da poter poi essere
agevolmente riprese dalla telecamera della truka (l’apparecchio che
automatizza una serie di movimenti di macchina molto precisi anche a
distanze ridotte, usato per filmare oggetti, grafici, giornali e
libri).
In Italia questo strumento è stato usato molto
raramente e mancano artisti in grado di realizzare illustrazioni
adatte ai telegiornali. Un tentativo è stato condotto da
Telemontecarlo a Milano nel 1989, ai tempi del processo Calabresi e
dei casi Enimont e Mondatori. Si cimentarono un illustratore
brasiliano e un’illustratrice italiana, entrambi di buon talento e
dei quali, poi, si perse traccia.
In Francia, al contrario, l’uso dei disegni e
delle tavole e pressoché quotidiano, soprattutto nell’edizione del
telegiornale delle 13, in servizi che raccontano fenomeni scientifici
o di disimpegno.
Per sottolineare l’importanza dell’audio nell’informazione
televisiva, forse può far sorridere e sembrare esagerato il richiamo alla
citazione biblica “In principio era il suono”, così come l'originale
"In principio era il verbo" fu modificata sul finire
degli Anni Settanta dal francese Jacques Attalì per spiegare l’interesse del
potere al controllo della musica nel suo “Rumori”, primo e insuperato saggio
di economia politica della musica, in Italia edito da Mazzotta, al quale si
rinvia non fosse altro che per la gustosa e straordinaria interpretazione in
chiave “sonora” del quadro di Bruegel “Battaglia fra Quaresima e
Carnevale”.
Ma a cos’altro appellarsi per controbilanciare
l’incredibile fatto che nell’informazione televisiva italiana il suono
legato a ciascuna immagine e a ciascuna scena per anni sia stato completamente
cancellato e solo ora si torni, timidamente, ad adoperarlo. Da metà Anni
Settanta, con ostinazione, giornalisti e montatori hanno sostenuto che gli
effetti sonori rovinano e confondono la voce narrante, abbassano la
comprensibilità del servizio. Ciò, ovviamente, in base ad un’errata
valutazione, anche in questo caso derivante della formazione alla carta stampata
o, meglio, alla mancata formazione al linguaggio audiovisivo. Non sapendo usare
il suono appropriatamente, si è deciso di cancellarlo, nel migliore dei casi di
relegarlo ad inoffensivo e quasi impercettibile “rumore di fondo”, brusio
lontano che non infastidisse le importanti cose che si dicevano.
Ancora oggi, gran parte dei montatori non ascoltano
gli effetti presenti sulla cassetta mentre giuntano le immagini, ma li
registrano alla cieca, automaticamente. Cioè: non scelgono il punto di attacco
di ciascuna inquadratura anche in base ai suoni o alle voci che essa contiene e
a ciò che questi comunicano. “Ci sono, ci sono gli effetti”, rispondono
innervositi i montatori se qualcuno chiede loro di renderli ascoltabili in fase
di montaggio.
Questa “neutralizzazione sonora”, che sa tanto
dell’ambiente asettico e distante nel quale il potere ama collocare la propria
voce ufficiale che racconta al popolo la storia ufficiale, è stata portata
avanti non solo non utilizzando affatto l’audio ambiente nei servizi
realizzati quotidianamente per i tg, nei documentari e negli speciali. Ma,
perfino abbassando gli effetti a volume quasi impercettibile nel doppiaggio di
materiali acquistati all’estero, come i documentari della Bbc, dove l’audio
è ben presente ed è anche utilizzato appropriatamente tutte le volte che può
rendere più efficace la comunicazione.
Non a caso, in inglese la colonna audio delle
immagini è definita natural sound, suono naturale, cioè che si trova in
natura ed è naturale che vi sia.
D’altro canto, sacrificando l’audio si è dato
un calcio ad uno dei principi basilari della scrittura, molto bene enunciato da
Vincenzo Cerami: “Chi scrive dovrebbe da un lato avere una profonda conoscenza
e coscienza dei diversi linguaggi e dall’altro non dimenticare mai di evocare
le dimensioni che ogni linguaggio costituzionalmente esclude. Egli deve
“far vedere” con la radio; “far udire” con il cinema; “far udire e far
vedere” con la letteratura…”
Stesso concetto ribadisce il corrispondente
della Bbc David Willey quando dice che per rendere efficace il proprio messaggio
“alla radio bisogna evocare immagini e alla televisione bisogna far sentire i
suoni”.
Cosa vuol dire questo rispetto al linguaggio
audiovisivo applicato all’informazione e, in particolare, ai servizi da
telegiornale, reportage e documentari? Diciamo che l’uso del suono si può
dividere in almeno tre grandi sezioni: la prima riguarda il suono come
sottofondo, la seconda e la terza il suono usato in primo piano. In realtà, è
esattamente il contrario, il suono è un elemento decisivo per costruire il
messaggio audiovisivo. Sempre che non sia utilizzato a casaccio e come elemento
marginale.
1)Ogni immagine ha un suo suono naturale
e deve conservarlo. Non si è mai vista una scena senza suono, perfino nei
sogni ci sono i suoni della realtà. Per quanto una scena possa essere
idilliaca, come una tranquilla prateria, un leggero fruscio c'è sempre e va
mantenuto. Ogni immagine montata deve conservare il proprio natural sound
e questo si deve sentire distintamente leggermente al di sotto della voce
narrante. Anzi, tanto più la voce è immersa nei suoni, tanto più il
giornalista sembrerà presente sul luogo del fatto che racconta. In sostanza,
risulterà più credibile.
Al contrario, la voce che parla in uno spazio
silenzioso, asettico, dove le immagini non producono rumori, tende ad essere
sinonimo di ufficialità, si trasforma in voce del potere, proprio come gli
speaker di regime o della prima televisione italiana. Non raccontano la realtà,
ma l’idea della realtà filtrata dal potere. Insomma, è un controsenso che
dopo essersi ribellati negli Anni Sessanta e Settanta ai tg e ai giornali radio
letti da speaker professionisti, i giornalisti riproducano –e in peggio- lo
stesso clima di ufficialità del messaggio.
Da un punta di visto tecnico, il livello ottimale
degli effetti rispetto alla voce è indicato tra il 30 e il 40 per cento della
scala che serve a misurare il volume e sulla quale i picchi della voce
rappresenteranno il cento per cento. Se, però, il suono è costituito da una o
più persone che parlano, ovviamente il livello degli effetti dovrà essere più
basso, in modo che la voce narrante non si confonda con le voci di fondo,
altrimenti si creerebbe un’interferenza inaccettabile: bisogna ricordare che
l’orecchio umano ha la possibilità di ascolto selettivo, per cui riesce a
seguire un secondo discorso, anche se a volume più basso, come si suol dire
“a mezz’orecchio”.
Ma se si sente rumore di traffico, la sirena
di un’autoambulanza o il brusìo di una sala piena di gente, il suono va usato
in tutta la propria forza, va tenuto costantemente sulle immagini, anche mentre
il giornalista parla. Se il risultato è inappropriato, se si ha la sensazione
di distrazione e di fra testo e scena rappresentata, allora vuol dire che le
immagini, e quindi i suoni, sono state scelte a sproposito e vanno cambiate.
Oppure, più probabilmente, che il testo è scritto senza tener conto della
parte audiovisiva e deve essere riscritto, tagliato o eliminato.
2)Il suono
serve a segnalare i cambiamenti di situazione e di ambiente. Se dal brusìo
di una sala si passa ad una situazione in esterno, per esempio ad una via
trafficata, il giornalista farà bene a lasciare una pausa di almeno un secondo
nella lettura del testo, per far ascoltare il suono dell'ambiente esterno in
coincidenza con il cambio di immagine (si può adoperare anche un leggero
anticipo del suono rispetto all’immagine, ma stando attenti a non cadere in
effetti cinematografici), possibilmente con livello pieno, pari cioè a quello
della voce. Questo aiuterà lo spettatore a passare rapidamente da una
situazione all'altra.
I pezzi televisivi
sono realizzati per giustapposizione di scene diverse, la scrittura è a blocchi
e si salta continuamente da un punto all’altro. E’ anche questa
caratteristica a dare al linguaggio audiovisivo la possibilità di comprimere
grandi quantità di informazioni in spazi e tempi ristrettissimi. Ma, per dare
allo spettatore la possibilità di seguire, di percepire come un tutto unico e
fluido il racconto, è necessario prevedere e determinare i tempi di reazione. Il
suono aiuta ad avere tempi di reazione estremamente rapidi, a passare
fisicamente, analogicamente, secondo modalità non verbali da una situazione
all’altra e ad esserne immediatamente, emotivamente coinvolti, come se le si
stesse vivendo.
Questo impatto
emotivo, come vedremo meglio affrontando la costruzione del servizio da tg, è
uno dei più grandi pregi e punti di forza del suono. E’ ciò che trasforma il
video di un avvenimento in un pezzo di vita vissuta, che avvicina lo spettatore
all’esperienza diretta della realtà.
Se la prima
immagine è di un appartamento e poi all'improvviso si sente il rumore del
traffico e si passa ad immagini d’auto in una strada affollata, mentalmente si
è immediatamente portati fuori della situazione n.1 e si entra nella situazione
n.2. E fisicamente si è coinvolti nell’esperienza dell’attraversamento
metropolitano.
Se il suono serve a segnalare i cambi di situazione e di ambiente,
occorre che sia sempre presente, che venga in primo piano in alcuni
momenti, non solo all’interno ma anche all'inizio di un servizio. L'immagine iniziale lasciata per qualche secondo con il suo
suono naturale in primo piano dà modo di entrare in una situazione reale, così
che immediatamente lo spettatore, che fino a quel momento stava seguendo ciò
che diceva il conduttore, è attratto e proiettato nella nuova situazione.
Grazie a questo tempo di impatto con la situazione, non c'è neanche bisogno di
dire allo spettatore “quello che stai vedendo è questo o quello”. Si crea
l’impatto diretto, come se lui stesso fosse dentro la scena. Non c'è bisogno
di annunciare nulla, al contrario di quanto suggerisce di fare la cultura della
carta stampata. Il giornalista della tv può trascinare direttamente lo
spettatore nella notizia, utilizzando quello che i pubblicitari chiamano
catch-time, il tempo necessario a coinvolgere, ad afferrare l’attenzione. Un
lavoro di impatto svolto, appunto, dal suono in veste di ambientazione.
3)Il suono, usato in primo piano,
comunica informazioni e rappresenta la realtà. Ma, il suono può fare molto
di più, se adoperato come elemento autonomo che conquista spazio all’interno
del servizio ed è fatto ascoltare in primo piano. In pochi secondi, può
comunicare informazioni e descrivere situazioni che occorrerebbe molto tempo per
raccontare a parole o anche con le immagini. E nel fare questo, ancora una
volta, crea nello spettatore una sensazione di rapporto immediato con la realtà,
di assistere ad un fatto in presa diretta.
C'è un esempio molto eloquente. Nel 1987,
quando il Boeing della PanAm esplose nei cieli di Lockerbi, in Scozia, sui
canali internazionali fu trasmesso un servizio sulle reazioni dei famigliari
delle vittime, in particolare dei genitori di un gruppo di studenti americani
che attendevano i figli all'aeroporto La Guardia di New York, scalo di
destinazione dell’aereo. Un operatore riprese una madre che, alla notizia
della sciagura, crollò in ginocchio emettendo un urlo agghiacciante di
disperazione. Far ascoltare per due secondi quell'urlo, servì a raccontare la
situazione molto più di tutti i fiumi d’inchiostro che si versarono in
quell’occasione. E' talmente forte, quel suono, quella situazione, che c'è
perfino da chiedersi se sia giusto usarla o meno. Ha una efficacia emotiva
violenta che va giustificata. Quel grido di due secondi diventò negli Stati
Uniti il simbolo dell’America ferita, del bisogno di una risposta
all’attentato, se non di vendetta, che fino al 1999 ci ha accompagnato con la
ricerca dei responsabili e il lungo braccio di ferro di Stati Uniti e Gran
Bretagna con la Libia per ottenerne la consegna e la condanna da parte di un
tribunale internazionale. Un giornale, per raccontare la stessa cosa, ha bisogno
di un pezzo di almeno 60 righe. E non è detto che ci riesca. Ovviamente, è
scontato che non bisogna esagerare perché ciò che vogliamo rappresentare è
pur sempre la realtà, e non far colpo o "sceneggiare" la notizia
oltre il lecito (i servizi americani ci appaiono eccessivamente
spettacolarizzanti, cosa che in Italia irrita e fa perdere di credibilità. Gli
italiani non digeriscono le trovate scenografiche, a differenza del pubblico
americano).
Le situazione sonore adatte a raccontare o sintetizzare intere parti
della vicenda, devono essere accuratamente individuate già mentre l’operatore
gira. Oppure, in fase di revisione e di scalettatura del materiale, prima di
scrivere la storia. Il testo deve preparare e integrare l’azione audiovisiva
che si fa ascoltare in primo piano. Nel leggere il testo si lasceranno delle
pause più o meno lunghe, secondo i calcoli effettuati, che il montatore potrà
poi allungare o restringere quando monterà le immagini con il sonoro previsto
in primo piano.
(continua)
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