Questo testo è tratto in parte dal capitolo 17
del Nuovo libro della pubblicità
con varie modifiche e aggiornamenti – giugno 1998



L’infanzia di un mondo nuovo

Sogni, incubi, miti e realtà



   

I cibersogni


Le tecnofobie


La realtà




Quando mi occupavo tutti i giorni di pubblicità, mi chiedevo perché su quell’argomento si dicesse e si pubblicasse costantemente un così straordinario ammasso di superficialità e di sciocchezze (il fenomeno continua; anzi, tende a peggiorare). Mi rispondevo che era una specie di “contrappasso”: la pubblicità è così diffusa, onnipresente, visibile, ingombrante, che anche chi non ne ha la minima conoscenza si sente in dovere di dissertare in materia.

Quando mi trovo a occuparmi di “comunicazione elettronica interattiva”, è ancora peggio. Quasi nessuno la conosce davvero (un italiano su mille, forse due, ne ha un’esperienza non superficiale) ma da due anni in qua è l’argomento di moda: tutti ne parlano. O meglio, parlano di qualcosa che, per quanto ne so, non esiste, e che ha assai poco a che fare con la realtà della rete. Il motivo è quella strana perplessità, quel misto schizofrenico di attrazione e repulsione, che suscitano le cose nuove.

Pare che quando, cent’anni fa, cominciavano a circolare le prime automobili, il mondo fosse percorso da un fremito di paura e da infinite leggende. Illustri professori spiegavano che un organismo umano non era in grado di sopravvivere alla velocità di 25 chilometri all’ora. Ho sentito non meno illustri professori, al giorno d’oggi, dire cose non meno assurde sulla rete. Un esempio più vicino al nostro argomento (il telefono) fu quello che proposi nel giugno 1996 nel primo articolo della rubrica mensile I garbugli della rete.

La “disinformazione” sulla rete si può dividere, grosso modo, in due categorie. L’esagerazione teatrale o fantascientifica; e un’irrazionale, “tecnofobica” paura. Le due cose, naturalmente, si mescolano; e sono ugualmente nocive.



I cibersogni

Mi domando che idea possa farsi della rete una persona che non ne abbia esperienza personale e che guardi, un po’ assonnata, una delle tante trasmissioni televisive che ci vogliono abbacinare con le presunte meraviglie del “ciberspazio”; o veda l’uso “miracolistico” della rete che ci viene mostrato in tanti film o raccontato sui giornali.

Paesaggi “virtuali”, spazi dadaisti, immagini surrealiste, un mondo onirico-ossessivo popolato non di esseri umani ma di androidi e robot che si muovono in uno spazio irreale. Certo: in rete si trovano anche quelle cose, come si trovano in qualsiasi libreria e in un’infinità di storie a fumetti, di letteratura di tutti i tempi e di pitture anche più antiche di quelle di Hieronymus Bosch. Certo, c’è una cultura “ciberpunk” che ha avuto e ha ancora un suo spazio nella rete, con infinite variazioni dal più ingenuo fumettismo alle geniali fantasie di William Gibson. Queste cose, insieme a migliaia di altre, sono nella rete. Ma non sono larete, né sanno come descriverne il futuro. Con tutto il rispetto per quel genio che fu Jules Verne, nella storia della navigazione moderna c’è tutto fuorché il Nautilus del Capitano Nemo; e i viaggi sulla Luna sono molto diversi dalla sua descrizione, come da quelle di cento scrittori che l’hanno preceduto o seguito.

In generale, credo che i ragionamenti sulla rete migliorerebbero se fossero definitivamente eliminate dal lessico tutte le parole che cominciano con “ciber” (o peggio con “cyber”, che in italiano è un errore di ortografia). Non per un banale o pedante formalismo – ma perché quella terminologia tende a dare la falsa impressione che la rete sia un mondo separato e irreale. Perfino Nicholas Negroponte, spesso citato (non sempre a proposito) come il profeta di tutte le esagerazioni tecno-fantastiche, nel 1994 alla fine di di Being Digital scriveva: «vi prego di notare che in tutto il libro ho usato una sola volta la parola ciberspazio».

Ecco un piccolo, e parziale, elenco dei sogni e delle “false promesse“:


“Virtuale”

Non ho mai capito bene che cosa voglia dire “virtuale”. La parola è molto di moda, ma sembra che nessuno ne abbia una definizione chiara. Fin dalle origini della nostra specie viviamo in mondi “virtuali”. Tutte le notti, in sogno; anche da svegli, nelle nostre fantasie. Tutta la letteratura, la musica, la pittura della storia umana ci hanno sempre trasportato in luoghi e situazioni diverse dalla nostra vita “fisica” di tutti i giorni. Il confine fra sogno e realtà è sempre stato molto meno nitido di quello che sembra.

Che cos’è una rappresentazione teatrale, con scene, costumi e effetti, se non un mondo “virtuale”? E, nello stesso modo ma con tecniche diverse, il cinema e la fotografia? O una carta geografica? Oggi ci sono nuove tecniche, consentite dall’informatica, per fare queste cose. Ma la sostanza non cambia; non più di quanto sia cambiata con l’invenzione, appunto, della fotografia o del cinema. Va detto anche che queste cose hanno assai poco a che fare con la rete, perché spesso le troviamo non nell’internet, ma su un cd-rom (e quando, fra non molto, avremo dischi ottici con capacità dieci o venti volte superiori a quelli attuali...). Soprattutto, occorre capire che la parte più significativa della rete non sta in queste, sia pure interessanti, esplorazioni artistiche, ma nella possibilità che ci dà di raggiungere esperienze molto reali: fatti, opinioni, informazioni e persone. Che al primo incontro non possiamo vedere, né toccare; ma non per questo sono “virtuali”. Sono persone come noi, in carne e ossa. Di questo parlavo alcuni mesi fa in un breve articolo, che ha avuto più successo e diffusione in rete di qualsiasi altra cosa che io abbia mai scritto: L’anima e il corpo.

È vero: esistono macchine che consentono una “simulazione”. Possono essere usate per gioco, o per motivi molto seri, come l’addestramento di un pilota d’aeroplano. Ma sono un piccolissimo dettaglio rispetto alle infinite applicazioni dell’informatica, e poco o nulla hanno a che fare con la rete.

È vero: esistono simulazioni tridimensionali che hanno applicazioni utili e serie, per esempio in architettura. Ma sono, appunto, funzionali, e non inutili barocchismi decorativi.

È vero: con le nuove tecniche possono nascere nuove espressioni artistiche – e la grafica del computer non è solo un modo più veloce per fare le stesse cose che si facevano prima. Già ne abbiamo visto, abbondantemente, le applicazioni nel cinema. Ma siamo, credo, ancora nella fase “infantile”, in cui ci si lascia trasportare dalla tecnica e si va alla ricerca del surrealista e del bizzarro; come accadde, per esempio, nel cinema ai tempi di Georges Méliès. C’è molto da ragionare, del resto, su quali miracoli di fantasia si fecero allora nel cinema (pensiamo per esempio a Metropolis di Fritz Lang) con risorse tecniche che oggi sembrano paleolitiche. Un argomento, senza dubbio, affascinante; ma che poco o nulla ha a che fare con la rete, che di queste opere d’arte (se e quando lo siano davvero, non sempre è facile giudicare) può essere al massimo il mezzo di trasporto.

È vero: esistono le chat, i luoghi di conversazione in cui si “chiacchiera” e si scambiano opinioni in tempo reale. Ci sono anche chat internazionali (come IRC, Internet Relay Chat, con migliaia di channel o room, “stanze”, in tante lingue diverse (compèreso l’italiano) in cui è diffusa l’usanza di usare pseudonimi (alias o nickname) e quindi incarnare personalità che possiamo inventare come meglio ci piace. In questi “salotti” si possono anche fare conversazioni serie, ma più spesso si scherza.

Esistono anche centinaia di MUD (Multi-User Domain; o Multi-User Dungeon, dai tempi in cui era di moda un vecchio gioco, Dungeons and Dragons), e cose analoghe chiamate MUSE (Multi-User Simulated Environment), MOO (Mud, Object Oriented) o addirittura MUSH (Multi-User Shared Hallucination). Sono ambienti di gioco e immaginazione in cui persone diverse si incontrano in spazi immaginari, spesso fantastici o fantascientifici, e con identità che costruiscono come meglio credono. Per alcuni questo non è solo un gioco, ma una seconda realtà, un “mondo“ in cui possono muoversi con identità diverse. Ci sono anche i primi esperimenti di “siti“ come Worlds Chat, in cui il gioco non è più solo verbale, ma i luoghi sono rappresentati anche in modo visivo e il travestimento si realizza anche in un’immagine (avatar).

Ma tutto questo è solo un’evoluzione di usanze antiche, come le maschere di carnevale e i “giochi di ruolo”; anche questa è solo una piccolissima parte di ciò che accade in rete; e comunque, per quanto spinto possa essere l’uso dell’immaginazione, ciò che incontriamo non è quasi mai un robot; è quasi sempre una persona reale, che sta divertendosi a incarnare una sua fantasia, mentre noi facciamo la stessa cosa.


“Multimediale“

Questa è poco più che una parolina per venderci macchine più complesse di quelle che ci servono. Da che mondo è mondo ci si esprime usando parole, musica e immagini. Non c’è nulla di nuovo, se non che (se siamo bravi) possiamo divertirci a mettere insieme musica, immagini e parole usando il computer invece che il teatrino delle marionette.

La verità è semplice: parecchi programmi, specialmente giochi, contengono immagini e musica. Per poterli usare abbiamo bisogno di una buona scheda video e probabilmente un cd-rom (l’una e l’altro ormai sono accessori standard) più una scheda musicale, che si trova facilmente a meno di duecentomila lire. I giochi più recenti sono talmente stracarichi di orpelli, spesso solo decorativi, da richiedere processori veloci e con abbondante memoria (RAM). Il che costringe molti a sostituire un computer perfettamente efficiente con una macchina di prestazioni più elevate solo per far giocare un bambino; cosa abbastanza assurda, perché esistono molti ottimi giochi che non hanno bisogno di macchine particolarmente potenti. Insomma è solo una speculazione commerciale.

In tutt’altro significato, la parola “multimediale” viene intesa come la tendenza alla concentrazione di grandi imprese che con fusioni, acquisizioni e alleanze tendono a invadere tutti i territori, unendo “sotto un unico tetto” le cosiddette “quattro C”: Computing, Communication, Content e Consumer. Sarebbe lungo approfondire i pro e i contro di questa strategia; ma è molto probabile che queste mostruose concentrazioni tendano a riprodurre nella rete il vecchio modello della comunicazione a senso unico (uno parla, molti ascoltano) e quindi ad andare contro il valore più importante della rete: la reale interattività di cui parlo nella conclusione di questi ragionamenti.


“Tante immagini straordinarie sul tuo schermo”

Con la nascita (recente) della world wide web, l’attenzione si è concentrata sulle immagini. Ma una delle cose più deludenti, per chi si affaccia in rete pensando alle “immagini” (erotiche o non), è scoprire con quale esasperante lentezza, specialmente con le non eccellenti connessioni che abbiamo in Italia, quelle immagini si formano sul monitor del nostro computer. (Anche in America, del resto, la chiamano world wide wait).

Un giorno, forse, quando ci saranno davvero le “autostrade” e non i sentieri di cui oggi disponiamo, quando saranno normali collegamenti ISDN, schede digitali con una velocità più che doppia rispetto ai modem di oggi (o le tecnologie che li sostituiranno), eccetera, la rete sarà anche un terreno di scambio di immagini. Oggi, e per il prevedibile futuro, lo strumento rimane quello che è da sempre la base delle relazioni umane: la parola. Chi non trova nulla da leggere, o da scrivere, non rimane a lungo in rete.


“È facile”

Non è del tutto vero. O meglio, le difficoltà sono diverse da quelle che ci aspettiamo. Fatta la prima installazione (per i non esperti è meglio farsi aiutare da un tecnico) usare i programmi e collegarsi è facile davvero. Non più difficile che imparare a usare un videoregistratore o un forno a microonde; molto più facile (e meno rischioso) che guidare un’automobile. Certamente più facile di quanto pensi che non ha familiarità con il computer, o di come si possa pensare se si ascoltano o si leggono le astruse dissertazioni dei tecnici o le fantastiche divagazioni di certi intellettuali. Ma la vera difficoltà non sta nelle tecniche di collegamento.

Una volta affacciati in rete, si tratta di capire dove andare... solo una buona dose di pazienza e di curiosità può far superare questo primo scoglio e guadagnare quella confidenza che non si può acquistare se non con l’esperienza pratica.


“Milioni, miliardi”

“Potrai incontrare in rete milioni di persone”. Non è vero. Basta pensarci un attimo per capire che nessuno di noi riesce a dialogare in modo comprensibile con più di qualche decina di persone. Chi ha un minimo di esperienza impara presto che “navigare” vuol dire scegliere: trovare i “siti” e le persone che ci interessano. Il che, all’inizio, non è facile. Si impara solo con l’esperienza.

La novità c’è, ed è davvero importante: possiamo dialogare tranquillamente con qualcuno che sta in Australia; e possiamo conoscere una persona interessante che magari abita a trecento metri da casa nostra ma che altrimenti non avremmo mai conosciuto. E qui entriamo davvero nella parte viva della rete...

Quanto alle dimensioni... sono abbondantemente sovrastimate. Si parla di centinaia di milioni di persone, di un miliardo alla fine di questo decennio. Non è vero – o non ancora. I numeri, per ora, sono molto più piccoli, anche se stanno gradualmente crescendo. (Per analisi continuamente aggiornate sulla crescita delle connessioni vedi la sezione dati).


“Crescita esponenziale”

Si parla continuamente di “crescita esponenziale”, spesso senza badare al senso delle parole. Ma è diffusa anche l’abitudine di diffondere cifre irreali e proiezioni assurde senza mai controllare la loro attendibilità. (Vedi per esempio Verifica di alcune proiezioni).

Tutto questo si potrebbe accantonare nell’affollato museo delle sciocchezze diffuse, delle statistiche immaginarie e delle previsioni sbagliate se non avesse due conseguenze preoccupanti. Uno è la proliferazione di iniziative e imprese condannate al fallimento perchè basate su “proiezioni” insensate e su false promesse di “facili guadagni”. L’altro è una percezione di fretta, di falsa urgenza, che induce a un’infiità di errori.



Le tecnofobie

La lista sarebbe interminabile... ma ecco alcuni esempi delle “leggende negative” che circondano la rete, come hanno sempre circondato tutte le nuove tecnologie e, in generale, qualsiasi modo nuovo di pensare o di comportarsi. Per fortuna sono passati i tempi dei “diavoli di Laudun”, se no qualche volta, ascoltando i commenti dei miei amici che non hanno pratica della rete, avrei l’impressione di rischiare il rogo...


Il “cervello elettronico”

Chi non ha mai usato un computer (o anche chi lo usa, ma solo per una specifica applicazione, come scrivere o fare i conti) ne ha una specie di mistico terrore. Conosco persone colte, intelligenti, aperte all’innovazione, che mi guardano con diffidenza quando scoprono che uso la “posta elettronica”.

C’è una specie di “luddismo culturale”, rinforzato da quella vasta letteratura che va alla ricerca del pittoresco o del pauroso. C’è il timore che un “cervello meccanico” finisca con l’impadronirsi della nostra povera mente biologica; che la nostra identità si perda nel mondo “virtuale”, che un’identità estranea, un “avatar”, si impadronisca della nostra anima...

Se solo sapessero quanto sono stupidi, in realtà, i computer e i “software” con cui siamo costretti a convivere...

Si leggono articoli su una tale psicologa americana (o di qualche suo imitatore nostrano) che ha scoperto una “sindrome da computer” (non più grave, o più frequente, di un attaccamento esagerato al flipper, al gioco del pallone o allo scopone scientifico). Si pensa «oddio, se il mio bambino tocca quel coso gli divorerà la mente». Certo se avessi un bambino piccolo non mi piacerebbe che giocasse a Doom (o a un altro dei giochi sanguinari e tenebrosi di cui c’è stato fin troppo commercio); ma non lo lascerei neppure troppo tempo davanti a certi cartoni animati giapponesi o altri spettacoli violenti, o da incubo, che trasmettono in televisione. Né lo incoraggerei a leggere molti generi di cose che si trovano in libreria o nelle edicole. Ricordo che quand’ero bambino mi davano molto fastidio, talvolta mi spaventavano, certe scene di film, compresi i cartoni animati; e anche certe favole piene di orchi, di violenza e di bambini orribilmente torturati.

Invece penso che faccia bene all’educazione di un ragazzo abituarsi all’uso di un sistema (non solo il computer, anche il modem, cioè la rete) che purtroppo non gli insegnano a scuola e che, quando sarà grande, sarà diventato di uso comune. E anche giocare a uno dei tanti giochi che stimolano l’intelligenza e la fantasia o con uno dei buoni (e spesso divertenti) “software” educativi che sono disponibili.


Pornografi, pedofili, criminali e terroristi

Se badiamo a quello che scrivono i giornali, o ci dicono in televisione, la rete sembra un posto pericolosissimo, in cui si annidano non solo i cosiddetti hacker (abitualmente dipinti molto peggio di quanto meritano) e i diffusori di “virus”, ma anche mafiosi, terroristi, nazisti, pornografi , pedofili e criminali d’ogni sorta. Nessuno ha ancora detto (che io sappia) che in rete si fa la “tratta delle bianche” o il contrabbando di testate atomiche, ma mi aspetto di vederlo pubblicato da un giorno all’altro.

Certo: ci sono, in rete, personaggi “poco raccomandabili”. Come ci sono dovunque intorno a noi. La probabilità di incontrarli è minima; evitarli è molto più facile che nella nostra vita di tutti i giorni, perché una banda di malintenzionati “veri” incontrati in una strada buia non si può cancellare dalla faccia della terra semplicemente cambiando “sito” con la pressione di un tasto – o spegnendo il computer.

La continua insistenza su questi temi “scandalistici“ non è solo cattiva informazione, ma è un danno culturale. Perché tiene lontane dalla rete molte persone civili e intelligenti, che farebbero meglio a esserci, per il bene loro e di tutti noi che in rete già siamo, e le incontreremmo volentieri. Perché tende a consolidare la grave arretratezza dell’Italia in rete, rispetto a molti altri paesi. E perché tiene lontani dalla rete molte persone giovani, che invece dovrebbero conoscerla, per arricchire la loro cultura e imparare a muoversi nel mondo in cui vivranno.

Come difendere bambini e ragazzi dai “pericoli”? Semplicemente con la normale prudenza che è comunque bene esercitare. Da che mondo è mondo le mamme dicono alle bambine (e anche ai maschietti) “non accettare caramelle da uno sconosciuto”. Basta aggiungere “non dare mai il tuo indirizzo di casa a qualcuno che non conosci•. Lasciare un bambino da solo per troppe ore davanti a un computer, senza guardare a che gioco sta giocando, è come abbandonarlo davanti alla televisione senza badare a che programma sta guardando – ; e meno rischioso che mandarlo all’asilo, all’oratorio o a scuola senza controllare che tipo è la persona che se ne occupa.


“Non è naturale”

Non sarebbe sano che un bambino, o un adulto, passasse tutta la sua vita davanti a un computer e non prendesse mai una boccata d’aria (anche se è sempre meglio che imbambolarsi davanti alla televisione).

Ma, nei limiti del ragionevole, usare un computer o “navigare” in rete non è più “artificiale” che usare un telefono, una radio, una macchina fotografica o una bicicletta. L’unica differenza è che non è ancora un’abitudine diffusa.


“Consuma tempo”

Questo, ahimè, è vero. Specialmente quando si è costretti a subire i capricci dei software o le snervanti lentezze della web. Ma si tratta di valutare con equilibrio come suddividiamo il nostro tempo. Se la rete è usata bene, il tempo è altrettanto ben speso che se lo usassimo per leggere un libro o partecipare a una conversazione interessante. Molto meglio, nove volte su dieci, che guardare la televisione o intontirsi con il fracasso di una discoteca.

Gli studi sul comportamento confermano che, dopo una fase iniziale di assestamento, le pesone imparano a gestire il tempo, cioè a collocare l’uso della telematica in un quadro equilibrato delle loro attività.

Ma il consumo di tempo rimane un problema, specialmente quando il tempo è “perso“ in attività improduttive e noiose, come i problemi provocati da tecnologie inutilmente complesse, da ricerche infruttuose di contenuti o da lentezze di collegamento. Il compito di chi fa comunicazione in rete è evitare in tutti i modi di far sprecare tempo ai suyoi interlocutori: perché dall’esperienza imparano presto a diventare impazienti. Questo è vero specialmente nel caso delle persone più attive e impegnate – proprio quelle con cui è più interessante stabilire un dialogo.


“È una fuga dalla realtà, porta alla solitudine”

Non è vero.

Se qualcuno per natura è misantropo, forse può trovare un rifugio nella rete. Ma se c’è in giro qualche persona così dev’essere abbastanza rara, perché in sei anni di frequente attività in rete non ne ho incontrata una – né altri, più esperti di me, mi hanno mai detto di aver conosciuto un caso di quel genere.

Anzi, la maggior parte delle persone che frequenta la rete è piuttosto socievole. Qualche volta ride e scherza, qualche volta litiga, ma ha sempre una forte spinta allo scambio, non solo di opinioni, ma anche di emozioni e sentimenti.

Fra i messaggi più frequenti che si incrociano ci sono cose come «allora quando ci vediamo in pizzeria?» o, se si è lontani, «quando passi dalle mie parti»? Un gruppo di “telematici storici”, che gira intorno a tre o quattro BBS a Milano, ha da anni un incontro fisso, tutti i giovedì, in un bar vicino alla Scala. E così, in un modo o nell’altro, succede dovunque.

Sono pochissime le persone con cui ho “fatto amicizia” in rete e che non ho poi incontrato di persona. Con quelle poche, ci stiamo dicendo: «speriamo di riuscire a vederci presto». Certo, è meno facile se una delle persone è in India e l’altra è in Italia: ma ci potete scommettere che se una delle due farà un viaggio una delle prime cose che farà sarà telefonare all’altra. Mentre scrivo queste righe, due persone che ho conosciuto in rete (una sta a Barcellona, l’altra a Parigi) stanno organizzando un incontro di tutti e tre in Provenza “per bere un bicchiere di vino insieme”.

Insomma il tessuto fondamentale della rete non è fatto di tecnologie, cavi, satelliti, macchine, programmi o protocolli. È fatto di persone.



La realtà

Le reti “telematiche” esistono da quasi vent’anni. Ma il fenomeno di cui si parla oggi, genericamente definito “internet”, nella forma in cui lo conosciamo si è diffuso, in Italia, alla fine del 1994 – e nel resto del mondo non molto prima.


Ma che cos’è, questa internet?

Qualcuno immagina che ci sia una struttura omogenea, una singola rete, chiamata “internet”. Ma non è così. Le reti sono decine di migliaia, ognuna completamente autonoma.

Un lettore attento potrebbe chiedermi: se l’internet non è un’unica rete, perché la chiami “la rete“? Mi rendo conto dell’apparente contraddizione, ma è abitudine diffusa chiamarla, famigliarmente, the net, o “la rete”. Perché in pratica si comporta come se fosse una rete unica; e di fatto è un unico sistema seamless, continuo e intercomunicante. Ma mi sembra importante capire che questo sistema è policentrico, non ha un “governo” centrale; non solo ogni rete, ma ogni operatore è libero e indipendente.
 

L’internet è un sistema che permette a diverse reti di collegarsi fra loro, in modo che chi è collegato a una delle reti può comunicare con chiunque sia collegato a una qualsiasi delle altre. In pratica dà a chi si collega la percezione di muoversi in un singolo sistema globale; e il servizio che dà è proprio come se lo fosse.

Non tutte le reti del mondo sono collegate all’internet (e tantomeno tutti i computer); ma chiunque voglia farlo si può collegare al sistema.

Soprattutto, questo sistema permette a ognuno di noi di trasmettere informazioni, idee e opinioni; non solo di riceverle. Siamo tutti, contemporaneamente, autori e letori, spettatori e protagonisti: il sistema ci permette di essere davvero interattivi.

Il sistema funziona su scala planetaria; non ha sede geografica, né confini. Si suddivide in comunità che non dipendono dal luogo fisico ma sono definite, per aree di interesse e di argomento e per la natura dello scambio, dalla libera scelta di tutti coloro che usano il sistema.

Per una descrizione dettagliata dell’internet e della sua struttura vedi
Che cos’è l’internet e come funziona.

Per chi vuole approfondire alcuni aspetti – una parte del testo si trova in un supplemento.



Che cosa vuol dire, “interattività”?

Per capire meglio tutto ciò che si è detto fin qui, e in generale i valori della rete, mi sembra indispensabile chiarire il senso di una parola:

interattività

La sentiamo e la leggiamo usata in tanti modi diversi. Perdonatemi questa pignoleria “socratica”, ma se non si stabilisce bene il senso delle parole si rischia di non capirsi – e su questo argomento la confusione abbonda. È uno solo il significato di “interattività“ nel mondo di cui parliamo qui, sulla “frontiera elettronica”, sulla cresta della “quarta ondata”.

Sentiamo dire che un’interfaccia è “interattiva” perché se diamo un certo comando, o premiamo un certo pulsante, esegue un ordine; o perché se scegliamo, una domanda, in una serie già predisposta, ci dà la risposta precostituita. E magari se sbagliamo, o diamo un comando non previsto, emette un segnale acustico e ci dice «No! questo non si può fare». Sarebbe come dire che è “interattiva” una macchinetta per la distribuzione del caffè che ci permette di sceglierlo dolce o amaro, con o senza latte – o la spia della pressione dell’olio sul cruscotto della nostra automobile.

Sentiamo dire che un cd-rom è “interattivo” perché ci permette di scegliere che cosa vogliamo leggere o vedere, e in risposta a certi nostri comportamenti può emettere suoni o parole standardizzate. A questa stregua, è interattivo anche un juke-box, o una bambola che dice “mamma” quando le schiacciamo il pancino.

Posso ammettere che un’enciclopedia su cd-rom posa essere definita “ipertestuale”: il neologismo è un po’ comico, ma almeno è preciso. Non so che senso abbia definirla “interattiva”.

Sentiamo dire che un gioco è “interattivo” perché segue una sua logica precostituita e non ci fa “vincere” se non siamo abbastanza abili, veloci o ragionanti per capire dove sono le trappole o gli indovinelli; o perché alle nostre “mosse” contrappone le sue risposte, secondo le regole stabilite da chi ha scritto il programma. Per quanto raffinato, complesso, ingegnoso e divertente possa essere il gioco, non è più interattivo di un giocattolo elettrico che accende una lucina, o emette un suono di approvazione, quando il bambino sceglie la risposta giusta; e invece grugnisce se la risposta è sbagliata.

Di questo passo, si potrebbe definire “interattivo” un biglietto della lotteria “gratta e vinci”.

Cerchiamo di semplificare: se ciò con cui “interagiamo” è una macchina, o un programma automatico, e non una persona, non si tratta di “interattività” nel senso di cui parliamo in questo contesto.

Ci sono anche situazioni umane, per esempio trasmissioni televisive, che si definiscono “interattive”, perché il pubblico può rispondere facendo un certo numero di telefono, e “votare”; o perché arrivano direttamente al conduttore, in diretta, le telefonate dei telespettatori. Come ho già detto, questa è interattività “finta”. Perché qualcuno, unilateralmente, stabilisce le regole, definisce i criteri, governa il dialogo come vuole; e tutti gli altri non possono far altro che muoversi all’interno di piccoli spazi ben definiti. E non cambierà affatto la situazione se un giorno, invece di usare il telefono, lo spettatore potrà premere un pulsante.

Se e quando ci saranno 500 canali, video on demand, collegamenti con giornali, riviste, biblioteche, cineteche e gallerie di negozi online attraverso un televisore digitale, eccetera... lo spettatore (se lo vorrà) avrà più potere, perché avrà più libertà di scelta. Ma non ci raccontino favole: non sarà una situazione “interattiva“. Se no dovremmo chiamare “interattivo” il telecomando, o il dito che volta la pagina di un giornale, o la mano che sceglie negli scaffali di una libreria o di un supermercato.

“Interattività”, almeno in queste pagine, significa una cosa completamente diversa. Un dialogo ad armi pari, in cui nessuno ha privilegi, in cui tutti hanno la stessa “quota di voce” e lo stesso diritto di parola. Questo è il terreno su cui deve imparare a muoversi chi vuol fare comunicazione nella rete, che non sia solo una “brutta copia“ di metodi è meglio riservare a quei mezzi per cui sono nati. Questa è la possibilità che si offre a ognuno di noi – se abbiamo la voglia, la pazienza e la curiosità di esplorare nuovi orizzonti, cercare nuovi stimoli, scambiare idee e opinioni con tante persone che in nessun altro modo avremmo l’occasione di conoscere.


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Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it
   
 


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