Supplemento a
Sogni, incubi, miti e realtà


 

   




Il ruolo insostituibile dei BBS

La tecnologia su cui sono basati i BBS sta esaurendo il suo compito, perché con la diffusione dell’internet diventano più largamente disponibili altre risorse. Ma ciò non significa che il loro ruolo sia da dimenticare. Potranno operare con altre basi tecniche, assumere un nome diverso e una diversa organizzazione, ma rimangono una realtà che non ha solo un ruolo “storico” nello sviluppo della rete.

I “BBS“ (Bulletin Board System) sono singoli “nodi” telematici, spesso collegati fra loro in piccole o grandi reti, di dimensioni che variano dal piccolissimo (talvolta una singola persona, che magari “apre” il suo BBS solo per qualche ora alla sera e solo per pochi amici) alle “grandi” strutture con migliaia di iscritti. Variano moltissimo per personalità e natura, da quelli strettamente tecnici, che sono “biblioteche” di software e luoghi di dialogo sulle tecnologie, a quelli di scambio e di opinione, a quelli prevalentemente di gioco e divertimento, o a quelli dedicati a specifici argomenti scientifici e professionali. Molti sono un misto di queste cose – e alcuni oggi hanno una doppia natura: cioè sono al tempo stesso BBS, con un più o meno ricco scambio interno, e fornitori di accesso all’internet. Si stima che nel mondo ci siano 100 mila BBS – duemila in Italia.

Nella grande moda e nel gran vociare confuso sull’internet, sembra che i BBS siano “caduti nel dimenticatoio”. Questo è uno dei tanti errori che si stanno commettendo. Sono convinto che i BBS (anche se con sistemi tecnici diversi) rimarranno un elemento importante e insostituibile nella nuova realtà della comunicazione. Consiglio a chi vuol far pratica della rete di frequentarne qualcuno. Spesso sono molto interessanti, e sono la migliore scuola per fare un po’ di cabotaggio prima di “prendere il largo”.

Ci sono anche le Community Network, che hanno finalità di servizio pubblico e sociale. In Italia molte di queste si chiamano “reti civiche”: alcune organizzate dai Comuni, altre indipendenti. Purtroppo il panorama delle “reti civiche” è confuso, con molte iniziative “cosmetiche” di scarso contenuto, e altre che sono in realtà attività commerciali “travestite” da servizi pubblici. Ma esistono strutture valide e serie, come per esempio la Rete Civica di Milano (che è appoggiata alle risorse dell’Università degli Studi). Oltre a strutture come queste, la cui radice è nel territorio, ci sono anche reti nazionali dedicate a un particolare impegno politico e civile, come per esempio Peacelink.

Mi dispiace di non avere qui lo spazio per approfondire l’argomento, ma l’importante è capire che non esiste “una internet” ma una grande molteplicità di strutture diverse, fra cui molte con una forte identità propria. Per fare un solo esempio, la già citata Rete Civica di Milano, oltre ai servizi informativi messi a disposizione da associazioni ed enti pubblici, benché esista solo da due anni conta già più di 900 “conferenze”, o “forum”, cioè aree di discussione e dibattito.

Insomma non dobbiamo pensare alla rete come un generico, indistinto e smisurato “villaggio globale”, ma un sistema complesso e ricco di diversità, con tante “piazze”, tante “agorà”, tanti spazi di dialogo e di incontro.


La tela world wide web

Una profonda rivoluzione nella rete è stata portata nel 1994 (in Italia, un anno dopo) da una nuova tecnologia, basata sul protocollo HTTP (Hyper-Text Transfer Protocol) e sul linguaggio “ipertestualeHTML (Hyper-Text Markup Language), chiamata world wide web, o www, o the web, la tela.

Che un sistema si chiami net (rete) o web (tela, intreccio) non è importante. Le metafore hanno sostanzialmente lo stesso significato.  Ma è rilevante capire che la web e l’internet non sono la stessa cosa.

Tale è stato il successo di questa innovazione che oggi sembra essere “solo quello” il volto dell’internet. Molti nuovi utenti non conoscono la rete se non attraverso un browser (il più diffuso è Netscape) con cui si accede ai “siti” www, che ormai sono centinaia di migliaia. Nulla di male, perché la tecnologia è solida, l’interfaccia è di facile uso, i browser si arricchiscono di nuove funzioni, e con un po’ di attenzione si scopre che è possibile accedere, anche per quella via, a tutti i sistemi e servizi connessi all’internet. Ma... ci sono due problemi.

Il primo è che se non si guarda oltre la “facciata” si può credere che “essere in rete” voglia dire solo andare in giro a guardare “siti web”, per vedere immagini, raccogliere informazioni, prelevare testi o software. Con tanti saluti all’interattività.

Il secondo è che il sovraccarico di immagini, che affligge buona parte dei “siti web“, produce “intasamenti” e rallentamenti nella rete. Di qui la snervante attesa di aspettare minuti prima che una sospirata pagina si completi sul nostro monitor. Conosco non poche persone che, avuta questa come prima e unica esperienza della rete, hanno rinunciato completamente a collegarsi.

Sono, naturalmente, solo “fasi di crescita”. Se tre anni fa non sapevamo che stesse nascendo una cosa chiamata web, o se ne vedevano solo i primi accenni, tante cose ancora potranno cambiare. Quando la telefonia sarà tutta digitale, diventerà obsoleto il modulatore-demodulatore, o “modem”, che usiamo oggi. Forse anche le tecnologie su cui si basa l’internet un giorno saranno sostituite da qualcosa di diverso. Forse un giorno non ci saranno più tariffe interurbane, né intercontinentali, e con una “scheda dati” in un telefono tascabile in mezzo al Sahara potremo collegarci direttamente con Pechino.

Ma (lasciatemelo ripetere) le tecnologie passano, l’umanità resta. Ciò che conta è quel sistema di relazioni e scambi fra persone, che oggi ancora riguarda ancora una piccola minoranza ma un giorno sarà comune quanto il telefono; e che crea una nuova realtà nel sistema delle comunicazioni umane.

Oggi come oggi, è soprattutto su the web che si appoggiano le nascenti attività commerciali in rete. Ma, come spiegato in questo e in altri libri, anche dal punto di vista commerciale è importante capire che il marketing in rete non è solo fatto di “vetrine” più meno bene addobbate da collocare su qualche indirizzo “www”.


Il valore dell’ipertesto

Gran parte del gergo o linguaggio approssimativo che circonda la rete (e, in generale, le “nuove tecnologie”) serve solo a confonderci le idee. Ma ci sono alcuni “neologismi” che hanno un significato preciso e importante. Uno di questi è la parola ipertesto (che suona un po’ comica ma descrive una cosa seria). Questo concetto esiste indipendentemente dall’internet.

Intrinsecamente l’ipertesto non è una tecnologia, ma un modo di organizzare l’informazione. Il termine hypertext è stato definito nel 1965, quando stavano cominciando i primi studi che hanno portato alla nascita dell’internet. Ma ha trovato nuove applicazioni e una più ampia diffusione a partire dal 1990, con la nuova tecnologia su cui si basa la world wide web.

Sembra che molti pensino a una struttura “ipertestuale” come a un modo per associare testo, immagini, suoni e (volendo) anche animazioni. Infatti può fare anche queste cose. Ma è un’altra la sua qualità più importante: l’organizzazione delle informazioni. Prima della nascita di questi sistemi, l’informazione poteva essere organizzata solo in modo lineare. Indici e cataloghi analitici permettevano, in parte, di proporre percorsi trasversali all’organizzazione dei contenuti in un libro, nelle annate di un periodico o in un’intera biblioteca; ma con un’efficienza infinitamente inferiore a quella che ci permette oggi il sistema di connessioni fra tutte le informazioni che sono “archiviate” in forma elettronica.

Questo è uno dei migliori esempi di come una tecnologia, se usata bene, può essere molto utile e adatta alle esigenze umane. Osserva Gerry McGovern: «L’ipertesto riflette meglio il nostro modo di pensare e il modo in cui funziona il nostro cervello. Perciò è un modo più naturale e umano di raccogliere ed esplorare le informazioni».

L’ipertesto è uno strumento importante anche quando funziona in un sistema chiuso: come le informazioni raccolte in un computer (o in una rete all’interno di un’organizzazione) o su un supporto fisico, come un cd-rom. Ma assume una potenza infinitamente superiore quando è applicato all’internet, perché non solo può organizzare i contenuti all’interno di un sito online, ma può anche collegare documenti che si trovano in qualsiasi altra parte della rete.

Qual è il punto fondamentale? È la struttura dell’informazione; quella che spesso viene chiamata – e mi sembra giusto – l’architettura di un sito. Una struttura “ipertestuale” permette un’ampiezza “potenzialmente infinita” di informazione e documentazione, che deve risultare raggiungibile dal lettore in modo semplice e diretto. Inoltre i link permettono di collegare trasversalmente i contenuti, passando da un settore all’altro dove ci sono nessi o analogie rilevanti. Un sito in rete, come qualsiasi altro sistema “ipertestuale”, è tanto più utile quanto più è complesso (cioè ricco di informazioni a vari livelli di approfondimento) e quanto meno appare complesso e difficile al lettore.

Inoltre... su un supporto statico i percorsi sono limitati a ciò che quell’oggetto contiene; la complessità dell’architettura è più o meno limitata e determinata da criteri specifici a quella particolare “base dati”. In rete, le connessioni possono andare direttamente a qualsiasi cosa che sia contenuta in una di tante risorse disponibili.

Il problema della “congestione informativa” esisteva anche prima dell’internet; ma la rete la rende più immediatamente tangibile. Lo spazio di esplorazione “tende all’infinito” e si allarga ogni giorno (uno dei problemi, infatti, è l’aggiornamento). La magia di un sistema ipertestuale ben organizzato è proprio quella di offrire un filo di Arianna nell’infinita complessità del labirinto; che non è un singolo filo unidimensionale, ma una rete di connessioni che offre una molteplicità di percorsi, con la segnaletica necessaria perché ognuno possa scegliere la strada che preferisce – e soprattutto arrivare, con la minima fatica possibile, alla destinazione che sceglie.

Con un po’ di esperienza nella rete impariamo presto a distinguere le risorse che hanno una struttura “ipertestuale” ben fatta da quelle (purtroppo la maggioranza) che sono organizzate in modo farraginoso e non ci aiutano a trovare ciò che cerchiamo. O (peggio ancora) cercano di “depistarci” dal nostro obiettivo e portarci altrove, secondo le logiche interne o le intenzioni commerciali di chi organizza il sito.

Conciliare le due esigenze (ricchezza di contenuto e facilità di accesso) è tutt’altro che facile. Ma se chi imposta il progetto “ipertestuale” fa bene il suo lavoro ciò che troviamo è un sistema semplice, chiaro, accessibile che ci semplifica la ricerca e l’esplorazione.

Il criterio fondamentale è quello che governa tutti i buoni sistemi di comunicazione: non solo la qualità dei contenuti, ma anche il modo in cui sono organizzati e proposti deve essere pensato, realizzato e organizzato dal punto di vista di chi legge.


Le incerte prospettive
del “matrimonio digitale”

Un dato tecnico è certo: la televisione, presto o tardi, sarà digitale; e così sarà la videoregistrazione, che passerà dagli attuali supporti magnetici (videocassette) a quelli ottici o comunque digitali. Non so fra quanto tempo saranno diffusi, ma i nuovi CD avranno capacità quindici o venti volte superiori a quelli attuali, cioè potranno contenere un film.

Questo “matrimonio tecnologico” offre infinite possibilità. Per esempio un collegamento televisivo può permettere di scegliere, in contemporanea, fra diverse riprese o interpretazioni dello stesso evento; o, abbinandosi a un collegamento internet, può permettere di esplorare fonti e approfondimenti sull’argomento di cui parla un telegiornale o un’altra trasmissione.

Qui non si tratta di “futurologia”, ma di tecnologie esistenti e di applicazioni che se non sono disponibili oggi lo potranno essere fra non molto.

Ma c’è un grosso ma. Come ho già detto, e non mi stancherò di ripetere, l’evoluzione non dipenderà dalle tecnologie, ma dalla nostra capacità di utilizzarle.

La tecnologia del fax, alla luce di ciò che è disponibile oggi, è un residuato preistorico. La posta elettronica è enormemente più efficiente e meno costosa; si basa su una tecnologia che esiste da più di vent’anni. Eppure tutti continuiamo a usare il fax e continueremo a usarlo fino al giorno in cui ci sarà un numero sufficiente di nostri corrispondenti che non solo avranno un collegamento e-mail ma saranno anche abituati a usarlo. Un giorno, succederà... ma nessuno è in grado di sapere quando.

Nel 1901 Guglielmo Marconi riuscì a fare il primo collegamento transatlantico di “telegrafo senza fili”. Si preoccupava di come mantenere la riservatezza di messaggi trasmessi sulle onde hertziane. Non immaginava che potesse nascere la radio – né, più in generale, il concetto di broadcasting, di trasmissione diffusa.

La tecnologia della world wide web, concepita nel 1990 da Tim Berners-Lee del CERN di Ginevra (il laboratorio europeo per la fisica delle particelle), è “esplosa” quattro anni dopo e ha invaso il mondo con una velocità che nessuno aveva previsto; mentre altre tecnologie, esistenti da più tempo, giacciono inutilizzate. Perché? Per un motivo semplice: molti hanno trovato un modo di usarla, anche in modi non previsti dalle intenzioni dei suoi inventori.

Il caso dell’internet è diverso. Le sue potenzialità erano note ai committenti ancora prima che si mettessero a punto le tecnologie. Benché nato su richiesta dei militari, era chiaro fin dall’inizio del progetto che avrebbe avuto applicazioni civili. Era coinvolta fin dall’inizio la comunità scientifica; i primi collegamenti furono presso alcune grandi università. Eppure una tecnologia che era già funzionante nel 1969 non ha avuto applicazioni diffuse, al di fuori di una ristretta comunità scientifica, fino agli anni ’90. Il motivo non è solo la più diffusa disponibilità di computer a prezzi accessibili. Si tratta, come sempre, di fenomeni non tecnici, ma culturali, sociali ed economici. Quando una varietà di interessi ha cominciato a capirne le possibili utilità, si è diffuso l’utilizzo di una risorsa che era disponibile da più di vent’anni.

In Italia molte famiglie hanno un videoregistratore. Poche lo usano. L’utilizzo principale è far vedere videocassette di cartoni animati ai bambini, che si divertono a rivedere infinite volte la stessa cosa.

Quando, all’inizio degli anni ’80, si diffusero i primi personal computer, si trattava di macchine come il Commodore 64: capolavori, per l’epoca, ma con potenze infinitesimali rispetto ai PC di oggi. Tutti gli operatori del settore erano convinti che in poco tempo si sarebbe arrivati alla “casa elettronica”, con un computer che accende e spegne la luce, ci sveglia alla mattina e fa il caffè, e con una schiera di utili robot domestici che avrebbero ridotto al minimo l’impegno umano nelle faccende casalinghe. Ipotesi molto credibile: ma non si è verificata, e ancora non ne vediamo traccia.

Ci sarà, nelle case di domani, un sistema digitale che abbina televisione e computer? I problemi non sono pochi. L’uso del computer è fondamentalmente personale, mentre guardare la televisione è spesso un’attività collettiva. Guardare la televisione è un’attività passiva, spesso abbinata col fare tutt’altro (mangiare, sonnecchiare, chiacchierare, eccetera). Quante persone avranno davvero il desiderio di farla diventare individuale e di usare quello strumento per cercare approfondimenti? Chi sarà in grado di proporre un servizio che non sia solo un giocattolo di effimera moda o uno strumento specialistico per poche persone particolarmente curiose e attente?

Una cosa sola, secondo me, è probabile: che ci sia uno sviluppo, ma sia completamente diverso da qualsiasi cosa che possiamo immaginare oggi.

Infine... per una superficiale analogia (schermo e monitor) si tende a pensare al matrimonio televisione-computer; e si trascura il matrimonio fra computer e editoria.

La stampa, già oggi, è tutta digitale. È banale trasferire testi, e anche immagini, dal computer alla carta stampata e viceversa (salvo nel caso di testi vecchi che non siano stati, nel frattempo “digitalizzati”). Questo offre infinite possibilità all’editoria libraria (pensiamo per esempio a enciclopedie o altri testi di consultazione che abbiano la struttura base su un cd-rom e gli aggiornamenti in rete) e anche a quella giornalistica. Ma il problema non sta nelle tecnologie. Si tratta soprattutto di risorse umane e della capacità organizzare efficacemente i contenuti – un compito difficile e molto impegnativo.

Anche in questo caso, gli strumenti tecnici ci sono. Lo sviluppo dipenderà da due cose, ugualmente poco prevedibili: la capacità degli editori di proporre i prodotti giusti, e il desiderio delle persone di acquistarli.


Diversità e nomadismo:
il nuovo ritorna all’antico?

Mi sembrano interessanti alcuni aspetti della nuova “cultura elettronica” che possono permetterci di superare i limiti dell’era industriale e dell’era dei mass media.

Uno dei peggiori difetti della società in cui viviamo è la tendenza all’omogeneità.

L’era industriale ha portato alla “produzione in serie”. Abbiamo molta più scelta, molte più cose sono accessibili; ma sono standardizzate.

Abbiamo più vestiti, ma nonostante le bizzarrie della moda sono tutti uguali. Anche i giapponesi portano la cravatta.

L’era della produzione di massa e dei mass media porta all’omogeneizzazione della cultura. Si dicono, si cantano, si scrivono, si pensano le stesse cose. L’umanità è sempre più pecora, sempre più pappagallo. C’è un ritornello che cantava, due anni fa, un noto filosofo chiamato Gabibbo:  «È morto il libero pensiero. Siamo nella valle dell’eco. Non fai in tempo a dire una cosa che qualcun altro la ripete».

Potremmo essere sulla soglia di un cambiamento.

Già nella scrittura qualcosa è cambiato. Scrivere a macchina voleva dire usare un unico carattere, sempre della stessa grandezza. Non c’era più calligrafia, né la possibilità di scrivere più grande o più piccolo, più chiaro o più scuro, collocare le parole diversamente sulla pagina, inserire qua e là una freccia o un disegno. Con un computer, tutto questo è di nuovo possibile; possiamo scegliere fra centinaia di caratteri, cambiarne la dimensione come ci pare, impaginare come vogliamo, usare neretti e corsivi, inserire simboli e disegni. Insomma esprimerci in modo molto più personale.

Con la comunicazione interattiva, la rivoluzione è ancora più grande. Gli spazi di dialogo sono infiniti, ognuno di noi ne può creare a volontà. C’è una possibilità tutta nuova di coltivare la diversità.

Anche l’industria sta imparando a essere più flessibile. Con le tecnologie di oggi diventa più facile fare prodotti “su misura” e anche offrire più spazio al “fai da te”. Se per tagliare un tessuto si usa il laser invece di una sega, una fabbrica remota può farci un vestito non solo su misura, ma anche secondo il nostro disegno. Anche in tanti altri settori la tecnologia permette di “personalizzare” il prodotto. Così può realizzarsi l’ipotesi di Alvin Toffler, la nascita del prosumer, che è insieme consumatore e produttore.

Come John Naisbitt spiega nel suo libro Global Paradox (1994), l’economia “globale” di oggi e di domani crea sempre maggiori possibilità per i piccoli operatori. Può rinascere e trovare nuovo vigore l’artigianato; moltiplicarsi la diversità non solo nelle idee, ma anche negli oggetti.

Molti pensano, credo con ragione, che la globalità del molteplice porti non solo al rinascere di infinite tribù, ognuna con la sua cultura, ma ci aiuti anche a ritrovare il nostro antico istinto di nomadi. Non solo perché possiamo vagare come ci piace nella rete, ma anche perché possiamo spostarci fisicamente senza perdere contatto con i nostri amici e con il nostro lavoro.

Forse è un sogno; forse solo una minoranza più vivace e curiosa saprà approfittare davvero di queste nuove possibilità. Ma (almeno per me) è affascinante pensare a un’umanità meno stanziale, meno omogenea e più nomade – e a spazi crescenti per la libertà e la fantasia.



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Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it
   
 


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