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Marketing nei new media e nelle tecnologie elettroniche


di Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it

 

Numero 19 - 27 Maggio 1998

  1. Editoriale: Il caso Microsoft:
    molto rumore per (quasi) nulla
  2. La rete in Italia cresce
    (ma non abbastanza)
  3. Un’analisi "di parte avversa"
  4. Un’altra statistica
  5. Un’opinione interessante
  6. Il satellite e la barca
    (l’importanza del backup)
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1. Editoriale: Il caso Microsoft:
molto rumore per (quasi) nulla
Sette mesi fa accennavo a qualche nuvoletta sull’orizzonte del mondo Microsoft. Problemi noti da anni cominciavano ad affiorare anche agli occhi dei grandi mezzi di informazione – e dei sistemi di controllo antitrust. Ora è improvvisamente diventata "il fatto del giorno" quella che sembra (o si vuol far sembrare) una grande tempesta; ma è poca cosa rispetto alla vera "posta in gioco". La stampa italiana (e l’intero sistema dei mezzi di informazione, compresa l’editoria libraria) è stata per anni, ancor più di quella internazionale, prostrata in adorazione di una divinità intoccabile: la Microsoft. A tal punto da descriverci Bill Gates come l’inventore dell’informatica (quando non ha inventato nulla, ma si è astutamente impadronito del mercato) e come il "padre" dell’internet (alla cui nascita e crescita non ha dato il minimo contributo).

I fatti sostanziali sono due. Il primo è che un’impresa controlla il 90 per cento dei sistemi installati su personal computer (è strabiliante sentir dire che questa non è una situazione di monopolio) e fino a pochi mesi fa nessuno, cominciando dalle autorità americane e internazionali, era intervenuto sul problema con un minimo di incisività. Il secondo è che quella stessa impresa, che aveva clamorosamente perso l’autobus dell’internet perché non ne aveva capito il valore, sta cercando di impadronirsi della rete con tutti i mezzi possibili; di cui il principale, ovviamente, è utilizzare il controllo monopolistico che ha nel software per "forzare" l’utilizzo del suo browser. Con conseguenze che vanno molto oltre il fatto specifico.

Se il prezzo del software (e del hardware necessario per gestire programmi inutilmente pesanti) è assurdamente alto, questo influisce sulla vita di tutti: non solo di chi usa un computer ma anche di chi non ha mai toccato una tastiera o un mouse ma subisce, anche senza saperlo, gli effetti dell’information tecnhology. Se l’una o l’altra impresa del settore è colpevole di "concorrenza sleale" è materia di cui giustamente devono occuparsi i tribunali e le autorità. Ma il problema non si esaurisce in questi temi; i fattori in gioco sono altri, ed enormemente più importanti.

La qualità del software che usiamo è pessima e sta peggiorando. Se ne è parlato varie volte in questa rubrica e ormai sta diventando una constatazione diffusa, anche se ha ancora una "quota di voce" molto bassa rispetto al coro glorificante che accoglie ogni innovazione, vera o presunta, con un perenne e acritico applauso. Fra le voci "un po’ meno isolate" mi sembra giusto citare ancora una volta Umberto Eco (uno dei pochi maître à penser italiani che dimostra di avere una conoscenza reale dell’informatica e della telematica) che nella sua "bustina di Minerva" sull’Espresso del 23 aprile diceva: "Non mi nascondo che il progresso [tecnologico] ha dei limiti, e che essi non nascono da penuria bensì da eccesso". E spiegava:

"Un caso tipico di eccesso di progresso è nei personal computer. Ogni giorno esce un programma nuovo, costa un occhio della testa, non vuoi essere da meno e l’installi, e subito devi comperare un programma apposito per cancellare l’ottanta per cento delle funzioni che il programma ti permetterebbe, perché non ti servono affatto, prendono spazio in memoria, rallentano il lavoro e interferiscono con altre funzioni mandando tutto in tilt. Chi non fa questa saggia operazione di abolizione dell’eccesso di progresso si trova un computer meno efficiente di quello che poteva avere quindici anni fa".

Spero di non violare i diritti d’autore di Umberto Eco se riporto in allegato l’intero testo del suo articolo, per chi non l’avesse letto sulla rivista. Credo che meriti di essere letto e meditato da chiunque abbia a che fare con un computer, con qualsiasi tecnologia – e con la rete.

Non sembra che di questo argomento si parli quanto sarebbe opportuno, anche se ogni tanto compare qua e là nei posti più svariati (anche in riviste il cui tema non è l’informatica).

Il problema è efficacemente riassunto, con precisione tecnica, nell’articolo di Tom Halfhill su Byte (aprile 1998) dove si spiega perché il funzionamento dei personal computer è scadente; con livelli di inefficienza che sarebbero intollerabili nei grandi sistemi, come quelli che gestiscono un aeroplano in volo o altre situazioni in cui è in gioco la vita delle persone o un servizio di pubblica utilità. Anche i "grandi sistemi" non sono infallibili, come vedremo poco più avanti; ma non sono così fragili come i personal computer. Da anni è un "luogo comune" nel mondo dell’elettronica che se le automobili funzionassero come i PC le strade sarebbero lastricate di cadaveri.

Per non parlare dello spinoso problema dei diritti e dei brevetti, che ha bisogno di una sostanziale revisione in tutti i settori – e comunque diventa perverso quando un monopolista è in condizione di forzare le nostre scelte e imporre i suoi prezzi minacciando duramente persecuzioni poliziesche a chi non si assoggetta ai suoi incontrollabili e incontrastabili "diktat".

È tutta e solo "colpa" della Microsoft? Credo proprio di no. Per quanto dominante sia la sua posizione, non si può addossare a una sola impresa la responsabilità del cattivo funzionamento di un intero settore. Ma la sua presenza è così ingombrante che è difficile non arrabbiarsi quando uno dei suoi prodotti ci pianta nel momento peggiore possibile (ancora più spesso di quanto prevede l’implacabile Legge di Murphy). Se il mercato fosse aperto e concorrenziale, se ci fossero piattaforme libere e condivise, se ci fosse vera compatibilità e libertà di scelta, avremmo automaticamente software migliore? Non lo so. Ma varrebbe la pena di provare. Come minimo, spenderemmo molto meno – e avremmo la possibilità di cambiare e sperimentare. Più quel diritto di "punire" (passando alla concorrenza) chi ci vende un prodotto scadente che abbiamo quando compriamo qualsiasi cosa in un supermercato – ma non quando usiamo un computer.

Sono ipotesi astratte? Non mi sembra. Unix era "proprietà privata", oggi ne esistono numerose versioni di cui qualcuna gratuita (Linux). La tecnologia del personal computer era dell’IBM, oggi è di fatto aperta a tutti e l’IBM non è neppure leader di quel mercato (questa libera concorrenza purtroppo non ci sta dando la qualità e la compatibilità di cui abbiamo bisogno... ma probabilmente ce la darebbe se i sistemi uscissero dalla prigione di quel "monopolio abbinato" Microsoft e Intel che ormai è noto come Wintel). Il vecchio DOS non è "freeware", ma ce n’erano, e ci sono ancora, diverse versioni e tutto il software funziona su tutte. Insomma i sistemi tendevano, in un modo o nell’altro, a diventare più aperti. Ma poi con Windows si è instaurata quella situazione di monopolio e di schiavitù in cui, da troppi anni, stiamo vivendo.

Nel gran fracasso sulla vicenda Microsoft-Netscape mi sembra che si perda di vista il punto fondamentale. Che non è la competizione fra due imprese (se ci fossero solo due browser avremmo un "duopolio", non un mercato aperto). Perché oggi siamo prigionieri della Micrsosoft? Chi ci impedisce, per esempio, di usare un word processor diverso da Word, o di continuare a usare una vecchia versione di quel software, più che sufficiente per le nostre necessità? La situazione distorta del mercato. L’ultima versione del prodotto, qualunque sia, viene proposta in modo da diventare uno standard; e si fa in modo che non sia compatibile con altri prodotti, o addirittura con versioni precedenti dello stesso. Così si è costretti ad "aggiornarsi" anche quando non se ne ha il minimo bisogno. Di nuovo... questo problema è dovuto solo alla Microsoft? No, è un male diffuso. Rompere il monopolio (qualsiasi monopolio, di chiunque sia) è un passo necessario; ma non è sufficiente. La tecnologia non sarà mai al servizio dell’umanità e delle sue esigenze finché non ci sarà compatibilità totale. Chi di noi sarebbe disposto a usare un’automobile che funziona solo con una certa marca di olio e di benzina? Che qualità di motori, carburanti e lubrificanti potremmo sperare di avere? Quali assurdi prezzi ci potrebbero essere imposti? E che cosa diremmo se fossimo obbligati a comprare una nuova automobile perché la vecchia (che funziona benissimo ed è adatta alle nostre esigenze) non può più passare dalla strada che facciamo tutti i giorni?

Tale è la confusione nel mondo delle nuove tecnologie che ci si offrono come "bassi" prezzi dieci o cento volte superiori al costo reale dei prodotti. Per di più siamo costretti a pagare "aggiornamenti" che spesso sono solo correzioni di difetti – e che in un mercato "sano" ci dovrebbero essere dati gratuitamente e con le più umili scuse del produttore.

Per anni tutto questo è stato non solo tollerato ma addirittura acclamato come "progresso". Spero che non sia casuale la coincidenza... quando si cerca di monopolizzare la rete finalmente qualcuno si sveglia?

Come sappiamo, l’internet è un sistema gratuito, basato su freeware, non è proprietà di nessuno. Che siano in molti a volersene impadronire è ovvio. Che fra questi ci sia la Microsoft è pubblico, dichiarato e confermato dai fatti. Se si trattasse solo dell’installazione "forzata" di un browser il problema potrebbe restare nei limiti di ciò di cui oggi si discute. Ma la storia non finisce lì.

Il polverone sollevato intorno al conflitto Microsoft-Netscape serve a nascondere fatti più importanti. Con incredibile sfacciataggine Bill Gates dice "è come se la Coca-Cola fosse costretta a vendere la Pepsi". Un magistrato americano gli ha risposto "no, è come se tutti i frigoriferi fossero fatti in modo da costringere le famiglie a metterci solo Coca-Cola". In realtà è ancora peggio... è come se tutti i bar e ristoranti del mondo fossero costretti a offrire una bevanda il cui sapore non è determinato dai gusti del pubblico, ma dalle scelte arbitrarie del suo produttore; e per avere una birra, un bicchiere di vino, un bicchier d’acqua o un caffè tutti fossero costretti a cercarlo in qualche nascosta cantina; e i cibi fossero cucinati e conditi in modo da produrre acidità gastrica a chiunque si arrischi a inghiottire qualcosa di diverso dall’intruglio prescritto. Questa non è una situazione in cui "rischiamo di andare" in seguito all’integrazione di Microsoft Explorer in Windows 98. Questa è la situazione in cui siamo già, da anni – e assurdamente è stata accettata dal mercato e da tutti i mezzi di opinione e di informazione.

Qual è il prossimo passo? Mi sembra evidente. La Microsoft ha già fatto investimenti in molte aree di servizio e di "contenuto"; ha anche proposto, con immeritato (ma per fortuna non incontrastato) successo, metodi di censura – con il solito falso pretesto della "difesa dei minori e degli incapaci" (come se non fossimo tutti "incapaci" agli occhi di chi vuole condizionare l’informazione). È già riuscita a convincere molti siti a configurarsi in modo da essere "meglio visibili con Microsoft Explorer" e se nessuno riuscirà fermarla farà in modo che il maggior numero possibile di siti e sistemi internet funzioni solo con le sue tecnologie. Da lì il passo è breve al controllo dei servizi e dei contenuti.

Oggi qualcuno piange sul destino dei programmatori che hanno scritto software per Windows 98 e sarebbero "rovinati" dall’intervento dell’antitrust. Mi sembra un falso problema. Sarebbe facile (se lo si volesse) mettere sul mercato un sistema aperto dove i loro prodotti possano funzionare. E se un’azione più incisiva rompesse il monopolio non sarebbero più costretti a programmare secondo le regole fissate da una sola impresa. Insomma è vero che un mondo di carcerati potrebbe avere qualche problema di riadattamento alla vita in liberà, ma non mi sembra un buon motivo per tenerli eternamente in galera – anche perché non hanno commesso alcun delitto. Sono vittime, non colpevoli, dell’assurdo sistema in cui è costretto a vivere il mondo del software.

Qualcuno, anche, piange sul destino dei rivenditori di computer, che (se il lancio di un nuovo sistema operativo fosse bloccato o ritardato) avrebbero un’occasione in meno per vendere nuove macchine. Questa mi sembra pura follia. Ci sono motivi più seri, per vendere un computer, che il lancio di questa o quella (spesso inutile) "novità". Più presto si uscirà da un mercato "drogato" dall’esasperato inseguimento di qualsiasi cosa che sembri nuova, più presto la rete distributiva imparerà a fare offerte più serie e meglio "tagliate su misura" rispetto alle esigenze reali. La perdita di qualche momentanea "punta" di moda sarebbe abbondantemente compensata da una crescita più solida, più seria e più ampia di tutto il mercato.

Basta leggere i giornali per vedere quali leve di pressione ha la Microsoft su tutto (o quasi) il sistema informativo, che riecheggia le sue tesi anche quando sono molto bizzarre. Vogliamo che il suo potere (quella che fino a pochi mesi fa Bill Gates chiamava apertamente "egemonia") si estenda ancora di più? Vogliamo che diventi il nostro unico fornitore di tutto, dai viaggi alle assicurazioni, dai servizi tecnici alle messaggerie, e alla fine abbia anche il controllo di gran parte dei contenuti? Che l’intenzione sia quella, mi sembra fin troppo ovvio. Per eliminare il rischio, dobbiamo andare molto oltre l’attuale posizione dell’antitrust americano, che giustamente NetAction definisce "mite". Finora si è appena sfiorata la superficie. Speriamo che, una volta portato alla luce il problema, l’indagine e gli interventi scavino più a fondo, colpiscano il male alle radici. Non "contro" la Microsoft (che sarebbe in grado di sopravvivere e guadagnare anche in un mercato libero e sano) ma contro chiunque voglia ostacolare la libertà d’impresa e la libertà di opinione. Bill Gates è il più vistoso e il più arrogante, ma non è l’unico.

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2. La rete in Italia cresce
(ma non abbastanza)

Alla fine dell’anno scorso si era notata una diminuzione del numero di host italiani; la tendenza è continuata nei mesi successivi. Si era detto che questo segnale andava letto con cautela, perché poteva trattarsi di un "aggiustamento tecnico" temporaneo. Infatti i dati di RIPE di aprile segnano una ripresa, che riporta l’andamento di crescita in linea con la tendenza precedente. Per la prima volta l’Italia supera il numero di 300.000 host internet (ma questo rimane un numero piccolo se confrontato, per esempio, con oltre un milione di host in Germania e Gran Bretagna).

Per inquadrare la situazione, mi sembra interessante riassumere l’andamento negli ultimi quattro anni.

Host internet italiani
Dalla fine del 1993 all’aprile 1998

Fonte: RIPE (Réseaux IP Européens)

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Vediamo un andamento discontinuo, ma questa non è un’anomalia; si sono viste oscillazioni anche in altri paesi e in parte queste variazioni sono dovute ad aggiustamenti tecnici del sistema di rilevazione. Le linee rosse tratteggiate nel grafico indicano l’andamento "di tendenza"; vedremo nei prossimi mesi come si evolverà la situazione. Intanto può essere interessante confrontare questo andamento con quello complessivo dell’Europa.

Host internet in Europa
Dalla fine del 1993 all’aprile 1998

Totale area RIPE – Europa e mediterraneo

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Nel quadro europeo l’andamento è più coerente (perché le oscillazioni temporanee in singoli paesi non sono percettibili nei dati complessivi). Dopo una fase di accelerazione fra il 1995 e il 1996 la crescita è quasi lineare. Un’ennesima smentita per le ipotesi "esponenziali"; ma manca anche una conferma delle proiezioni che prevedevano un appiattimento. Come sempre, vediamo che lo sviluppo dell’internet è un fenomeno complesso e poco prevedibile.

Queste sono le percentuali di incremento semestrale e annuale in Europa e in Italia nel periodo 1994-1997:

Europa

  1° semestre 2° semestre totale anno
1994 + 37,4 % + 35,4 % + 86,0
1995 + 50,6 % + 42,3 % + 114,4
1996 + 31,9 % + 26,3 % + 66,5
1997 + 28,9 % + 22,2 % + 57,6


Italia

  1° semestre 2° semestre totale anno
1994 + 44,3 % + 20,7 % + 74,1 %
1995 + 62,7 % + 63,3 % + 165,7 %
1996 + 48,1 % + 32,4 % + 96,2 %
1997 + 64,0 % + 4,8 % + 71,9 %

I dati del 1994-95 (che coincidono con una diffusa disponibilità di accessi internet seguita dalla rapida espansione della World Wide Web) possono aiutarci a capire perché in quel periodo si fosse immaginata una crescita "esponenziale", che non è stata confermata dai fatti ma è sopravvissuta come "leggenda" ancor oggi un po’ troppo spesso ripetuta.

Se potessimo ricavare "linee di tendenza" da questi numeri, dovremmo aspettarci una crescita di circa il 50 % su scala europea nel 1998, mentre l’Italia potrebbe avere quest’anno un aumento del 70 %. Questo è un grafico che confronta le due serie di dati:

Percentuali di crescita semestrali 1994 - 1997

Elaborazione su dati RIPE - Réseaux IP Européens

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Nota: la percentuale per il primo semestre 1998 è una proiezione basata sui dati dei primi 4 mesi.


L’Italia ha avuto una crescita nettamente superiore alle media europea fra il 1995 e il 1996; poi ha rallentato. Non è facile capire il motivo della discontinuità nel 1997; in parte, probabilmente, è dovuta a problemi tecnici. È ancora troppo presto per poter valutare l’andamento nel 1998.

Vediamo ora un confronto fra le due curve di crescita (Europa e Italia) negli ultimi cinque anni.

Host internet
andamento semestrale – fine 1992 = 100

Elaborazione su dati RIPE - Réseaux IP Européens

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Anche in questo grafico la percentuale per il primo semestre 1998 è una proiezione basata sui dati dei primi 4 mesi.


Questo andamento è confortante, perché vediamo che nel quinquennio l’Italia ha avuto (in proporzione) una crescita doppia rispetto alla media europea; ma occorrerebbe una differenza molto più forte per portarci a livelli adeguati; come abbiamo visto, la presenza dell’Italia in rete è meno di un terzo di quella che dovrebbe essere rispetto al ruolo della nostra economia in Europa.

Il grafico che segue mostra la "quota" dell’Italia rispetto all’Europa negli ultimi 18 mesi.

Host internet in Italia – % su totale Europa

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Dopo una "punta massima" oltre il 5 per cento fra il febbraio e l’agosto 1997, la quota italiana è diminuita; ora dà qualche segno di ripresa, ma non ci siamo riportati neppure a quel livello, che è un terzo di ciò che sarebbe necessario.

Insomma c’è qualche segnale incoraggiante, ma il problema rimane. Per raggiungere davvero un livello europeo, la presenza italiana in rete rispetto all’Europa (e al resto del mondo) dovrebbe triplicare. Anche se l’Europa crescesse "solo" del 50 % all’anno l’Italia, per avere una presenza corrispondente al suo ruolo economico (e al suo desiderabile ruolo culturale), dovrebbe avere un incremento annuo medio oltre il 100 % nei prossimi 5 anni. Non è impossibile, ma richiede un "salto di qualità" e un serio impegno da parte di tutti.

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3. Un’analisi "di parte avversa"
Mi sembra interessante vedere come presenta il futuro della rete non chi vuole promuoverne l’uso "a fini commerciali" ma chi ha l’obiettivo opposto.

Come dicevo due mesi fa, alcuni "laudatores" della rete vanno affermando cose incredibili (per esempio che l’internet renderà inutile la pubblicità sulla stampa e in televisione). Che quasi nessuno ci creda, è abbastanza ovvio; ma l’eco di queste sciocchezze è così diffuso da mettere sulla difensiva le organizzazioni che vendono pubblicità sui mezzi tradizionali.

Si colloca in questo contesto un recente studio di Publitalia (Mediaset). Devo alla cortesia di Carlo Momigliano e Tiziana Morandi la disponibilità dei dati e delle analisi.

Per quanto riguarda l’Internet in Italia, l’analisi riferisce questi dati di Databank Consulting:

  1996 1997 2000
N° abbonati residenziali 115.000 270.000 2.000.000
N° abbonati business 39.000 75.000 300.000
Stima individui utenti domestici 276.000 648.000 4.400.000

La proiezione per l’anno 2000 è assai poco credibile, come tutte le profezie; ma poiché tutta l’analisi tende a dimostrare che la rete non inciderà in modo significativo sul "consumo" di altri mezzi una previsione esagerata milita a favore della tesi sostenuta dagli autori.

Gli utilizzi dell’internet sarebbero così suddivisi:

Da casa propria 32 %
Dal lavoro 36 %
Da scuola/università 19 %
Da casa di amici 13 %
Da locali pubblici 7 %

Secondo gli autori di questa presentazione, come tendenza generale si dovrebbe prevedere "un aumento del consumo di televisione generalista", dovuto all’invecchiamento della popolazione; ma proprio a causa di una progressiva diffusione della rete ("in casa propria" e "in casa di amici") il quadro potrà essere un po’ diverso: cioè il tempo dedicato alla televisione non aumenterà, ma rimarrà ai livelli attuali.

Mi sembra ragionevole la previsione, fatta in questa analisi, che lo sviluppo della televisione in Italia nei prossimi anni continui ad essere "via etere", con una scarsa penetrazione della televisione via cavo e via satellite. Questa è la proiezione all’anno 2000:

Famiglie solo tv via etere 20.006.000
Famiglie cavo/satellite 2.250.000

Il futuro rimane imprevedibile... ma secondo me in questa proiezione c’è del vero, con buona pace di chi, fino a poco tempo fa, credeva che l’evento di fine secolo sarebbe stato video on demand o comunque la televisione "via cavo". Il desiderio di mezzi meno "generalisti" (specialmente televisione) è abbastanza forte, specialmente nelle fasce più attive della popolazione; ma è improbabile che si traduca in fatti se non ci sarà un’offerta di contenuti sufficientemente articolata e interessante.

In questa analisi si fa l’ipotesi (alla luce dei fatti riscontrabili finora, poco credibile) è che "il consumo di internet in Italia nel 2000 sarà pari a quello europeo" e che si arriverà, nel breve spazio di due-tre anni, a 4 milioni di "utenti internet" in Italia, così suddivisi per classe di età:

Età Numero % su popolazione Indice di concentrazione
15-24 904.514 22,4 156
25-34 1.166.982 28,9 154
35-44 1.021.614 25,3 151
45-54 694.536 17,2 112
> 54 250.356 6,2 18
Totale 4.038.000    

L’ipotesi che oltre il 40 per cento della popolazione totale e più di metà della popolazione adulta (tante saranno nel 2000 le persone oltre i 45 anni) rimanga in gran parte tagliata fuori dalla rete (come da ogni altro nuovo mezzo di informazione e di dialogo) mi sembra socialmente e culturalmente molto triste; ma purtroppo è credibile – e rischia di avverarsi se non ci sarà un serio impegno (culturale prima che tecnico) per estendere ai "meno abbienti di d’informazione" l’accesso a nuove risorse.

L’aspetto più curioso di questo studio riguarda l’uso della rete da parte di quelle persone che sono o saranno collegate.

In base a stime della Andersen Consulting, quest’analisi afferma: "si prevede che la media della popolazione in Europa dedicherà 10 minuti al giorno per navigare in internet".

Questo sarebbe il time budget della popolazione italiana:

  1997
(senza internet)
2000
(con internet)
Televisione 2h 57’ 2h 53’
Quotidiani 25’ 24’
Riviste 19’ 19’
Libri 23’ 22’
Radio 1h 27’ 1h 26’
"Hobby" 58’ 57’
Dischi 27’ 27’
Sport 17’ 17’
Mestieri 2h 12’ 2h 12’
Cura figli 1h 07’ 1h 07’
Altro 2h 15’ 2h 13’
Internet   10’
Totale 12h 47’ 12h 47’

Credo che questa suddivisione del tempo si presti a varie osservazioni curiose... ma mi sembra meglio non divagare. Il punto che più ci interessa è l’ipotesi che l’uso dell’internet occupi 10 minuti al giorno; se approfondiamo un po’ vediamo che non si tratta di "poco tempo".

L’ipotesi dei 10 minuti riguarda una "media" dell’intera popolazione. In questo scenario gli "utenti" internet (in proiezione all’anno 2000) sarebbero circa il 10 per cento degli adulti. Tralasciamo il fatto che una così alta penetrazione della rete in Italia sembra improbabile; comunque occorre rivalutare i dati in relazione a quell’ipotesi. Quindi il tempo "domestico" dedicato alla rete da parte di chi la usa dovrebbe essere di circa 100 minuti al giorno. Un’ora e 40 minuti, non è poco (e come media mi sembra un’ipotesi molto esagerata). In parte questo tempo è sottratto ai libri e ai giornali (non perché si "legge meno", ma perché una parte del tempo dedicato a leggere riguarda cose viste o prelevate in rete). Ma altre analisi indicano che diminuisce (comunque in modo abbastanza marginale) il "consumo" di riviste (non di quotidiani) e di televisione "generalista". È comprensibile un po’ di preoccupazione da parte di chi diffonde quel tipo di comunicazione, che probabilmente manterrà il suo predominio sulle fasce culturalmente più deboli, ma rischia di vederlo diminuire nei gruppi socialmente, professionalmente ed economicamente più attivi; a vantaggio forse della rete, ma anche di altri strumenti di comunicazione, compresa la stampa (in "carta" e online) e una nuova televisione (non importa se via satellite o diffusa con altri sistemi) più selettiva e meno "generalista" – se qualcuno avrà la capacità di offrire contenuti rilevanti e attraenti per il pubblico.

Secondo me questi dati, come tutte le previsioni, non possono essere presi "alla lettera"; non tanto perché sono "di parte" quanto per l’impossibilità di prevedere quale sarà l’evoluzione di tutti i mezzi di comunicazione, compresa la rete, se e quando ognuno di noi avrà una possibilità di scelta sostanzialmente diversa da quella di oggi. La proiezione è su un periodo breve e perciò è credibile che l’offerta di mezzi selettivi non si evolva molto rispetto alla situazione attuale. Come sanno bene gli operatori del settore, il problema (anche in questo caso) non è di tecnologie ma di contenuti.

Comunque, mi sembra poco credibile che la rete assuma, nel prevedibile futuro, un ruolo "sostitutivo" rispetto agli altri mezzi di informazione e di spettacolo. Per usi di svago, di entertainment e di informazione "generale"... altri mezzi (fra questi una sperabile evoluzione meno "generalista" dei mezzi tradizionali) sono molto più adatti.

La rete è soprattutto uno strumento per usi "mirati", cui non si dedica tempo "generico" ma il tempo per fare qualcosa di preciso; e di molto diverso secondo le tendenze e gli interessi di ciascuna persona. Ancora una volta, questo pone l’accento sul fatto che la rete non è un "mezzo di massa"; e sull’importanza dei valori sostanziali, contenuto e servizio, per la costruzione di un’efficace comunicazione in rete.

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4. Un’altra statistica

Un’ennesima stima del numero di "utenti" internet è quella del Computer Industry Almanac, che riporto "con beneficio di inventario" (come tutte le statistiche) e più che altro come curiosità. Secondo questa fonte, i primi 15 paesi nel mondo per numero di "utenti" della rete sono:

 

  Numero
(migliaia)
Per 1000
abitanti
Finlandia 1.250 245
Norvegia 1.007 231
Stati Uniti 54.675 203
Australia 3.347 178
Canada 4.325 149
Svezia 1.311 147
Svizzera 767 107
Gran Bretagna 5.828 100
Olanda 1.386 89
Giappone 7.965 63
Germania 4.064 50
Spagna 920 23
Francia 1.175 20
Italia 841 15
Brasile 861 5

Fra i 15 paesi a più alta densità, secondo questa fonte, ci sono Islanda (227 "utenti" per 1000 abitanti), Nuova Zelanda (156), Singapore (141), Danimarca (126) e Hong Kong (64). Per una più immediata sintesi visiva, ecco i dati di densità in forma grafica.

"Utenti" internet per 1000 abitanti
Fonte: Computer Industry Almanac

L’elenco comprende i paesi che, secondo questa fonte, sono
fra i primi 15 nel mondo in cifra assoluta o fra i primi 15 per densità

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Nel caso della Francia, la zona chiara della barra è una stima "arbitraria" (probabilmente approssimata
"per difetto") del fattore minitel di cui si è parlato anche nel numero precedente di questa rubrica.


C’è un dato, purtroppo, costante in tutte le analisi e i confronti: l’arretratezza dell’Italia, che anche qui vediamo molto al di sotto della media europea e inferiore alla media mondiale.

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5. Un’opinione interessante
Mi scuso per il ritardo con cui cito questi commenti ma spero che non sia un problema, perché il loro rilievo non è legato all’attualità di un giorno o di un mese. Su Repubblica del 16 aprile 1996 c’era un’interessante intervista con Emma Marcegaglia, presidente dei "giovani di Confindustria", che conteneva fra l’altro queste osservazioni:

Gli USA sono molto diversi, però credo che anche in Italia si possano creare nuove imprese grazie a Internet. ..... È vero che siamo indietro... ma ci sono opportunità che potrebbero essere colte, e per questo facciamo opera di sensibilizzazione a investire su queste cose anche per creare posti di lavoro.

Molte imprese fanno innovazione in un modo "artigianale" che non viene rilevato dalle statistiche, ma in realtà siamo più avanti di quanto sembri. L’innovazione tecnologica è fondamentale, senza contare che siamo entrati anche noi nella fase in cui le nuove tecnologie creano lavoro. Tuttavia le imprese italiane fanno più innovazione di quanto si creda.

Le aziende più aperte hanno colto il cambiamento, mentre sembra che la politica sia lontanissima. Al contrario vedo che i giovani sono molto favorevoli ai cambiamenti e dimostrano grande fiducia nei confronti di Internet, le nuove tecnologie. Questo fa bene sperare.

In Italia si discute di tante cose e si perdono di vista temi importanti come il telelavoro che invece è un’altra opportunità per creare nuovi posti di lavoro.

Mi sembra confortante che queste cose siano percepite nel mondo dell’industria, anche se i fatti per ora non le confermano su una scala sufficientemente ampia per dare un vero impulso alle imprese e all’occupazione. Dobbiamo solo augurarci che le possibilità di sviluppo non siano viste, banalmente, solo come investimento e lavoro nelle nuove tecnologie; ci sono straordinarie possibilità, soprattutto all’esportazione, per le imprese e per il lavoro, con le nuove tecnologie (e specialmente con un uso efficace della rete) anche in settori cosiddetti "artigianali" o che comunque non si occupano di information technology. Come ci sono, o ci dovrebbero essere, molti posti di lavoro generati dalle nuove tecnologie anche per chi non è un tecnico di informatica. Basti pensare all’importanza di produrre e gestire contenuti significativi, costruire strategie efficaci di comunicazione, sviluppare servizi, creare e mantenere relazioni umane e personali tramite la rete.

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6. Il satellite e la barca
(l’importanza del backup)
Il 21 maggio 1998 quasi tutto il sistema americano di "teledrin" si è bloccato per il mancato funzionamento di un satellite. Si parla di 45 milioni di persone rimaste senza collegamento. La notizia è sconcertante. Possibile che un’intera rete, che comprende sistemi essenziali come la sanità e altri servizi di utilità generale, si possa bloccare per un guasto a un unico nodo? Possibile che nessuno abbia previsto l’ovvia possibilità di un danno al satellite e predisposto una soluzione che trasferisse il sistema su un’altra risorsa?

Più di trent’anni fa l’Advanced Research Project Agency del governo americano aveva posto il problema di evitare che il sistema di comunicazioni si potesse bloccare per un guasto, anche momentaneo, a un singolo computer o sistema di trasmissione; dagli studi e progetti che seguirono è nata quella che oggi chiamiamo "internet". Eppure perfino l’internet, dicono gli esperti, ha avuto momenti di difficoltà quando per un guasto inaspettato una delle "dorsali" più importanti è andata in crisi, e tutto il resto del sistema si è trovato in sovraccarico.

Chiunque abbia navigato con una barca a vela conosce l’importanza delle "dotazioni di rispetto". Cioè di avere a bordo un duplicato, o una soluzione diversa, per ogni cosa che si possa guastare. Soprattutto soluzioni manuali, non soggette a guasti o a mancanza di corrente elettrica, che possano in caso di bisogno sostituire quelle meccaniche o "motorizzate". (Se non funziona una pompa di sentina elettrica, c’è quella a mano; se si guasta anche quella a mano c’è il bugliolo... scomodo e faticoso, ma meglio che affondare prima di aver trovato il modo di turare una falla).

Non solo i grandi sistemi hanno bisogno di backup. L’argomento riguarda ognuno di noi: imprese e organizzazioni, grandi o piccole – e anche singole persone. Affidarsi alle tecnologie senza "paracadute" è pericoloso. Un piccolo errore, un piccolo difetto di funzionamento più provocare grossi danni. In teoria tutti lo sanno, in pratica quasi nessuno lo fa con la necessaria attenzione. Mentre scrivo queste righe, penso con un po’ di preoccupazione che sono passati quasi quindici giorni da quando ho fatto l’ultimo serio backup e che una quantità rilevante di mio lavoro e di informazioni non facilmente ricostruibili potrebbe andare perduta per un banale guasto. Mi si dirà che il mondo non è fatto di persone sciatte e disordinate come me, che tutti i sistemi seri hanno backup automatici e infallibili... ma non è vero. Errori incredibili vengono commessi continuamente da ogni sorta di apparati (dalla burocrazia umana quanto dai sistemi elettronici) semplicemente perché non si sono predisposte le soluzioni necessarie per prevenire guasti e inefficienze.

Non vorrei che questo ragionamento sembrasse banale. Non si tratta solo di avere un duplicato di macchine, programmi e informazioni; cosa ben nota a qualsiasi buon esperto di organizzazione e di tecnologia. Si tratta delle necessità, ben più impegnativa, di avere conoscenze e risorse umane in grado di rimediare alle inefficienze della tecnologie e dell’organizzazione.

Pochi giorni fa, per un mio banale errore andò distrutta una relazione di 25 pagine, che mi era costata parecchi giorni di lavoro. Naturalmente mancava meno di un giorno alla data di consegna del testo. L’impegno fu un po’ affannoso, ma la scadenza fu rispettata. Perché ricordavo la sostanza di ciò che avevo scritto, tutto il lavoro di ricerca e verifica era fatto, avevo copie a parte (in elettronica e in carta) della documentazione... insomma non era molto difficile ricostruire il testo perduto. Ma se invece di un lavoro personale si fosse trattato di un lavoro di gruppo, con persone probabilmente assenti o impegnate in tutt’altre cose, la ricostruzione sarebbe stata molto più complessa.

Il problema diventa ancora più complesso quando si tratta di sistemi di relazione. Abbiamo tutti esperienza quotidiana di quanto sia difficile e snervante avere una risposta da sistemi automatici (che siano meccanismi, elettronici o non, o persone ridotte al ruolo di ingranaggio); e di quale sollievo dia l’intervento di un essere umano che capisce il problema e risolve in pochi minuti ciò che un sistema rigido e ripetitivo tende a complicare all’infinito.

Insomma affidarsi alle tecnologie o ai meccanismi burocratici senza prevedere un sostegno umano è estremamente pericoloso; eppure l’errore continua a ripetersi. Secondo me occorre un approfondimento in tutti i settori, dalle più grandi e complesse organizzazioni fino alle più piccole attività personali, per assicurarci che tutto, ma proprio tutto, abbia sempre un backup. Mi sembra anche fondamentale che le conoscenze siano condivise: che nessun sistema possa bloccarsi non solo per un guasto tecnico, ma neppure per l’errore o l’assenza di una persona. E che l’impegno umano sia fortemente orientato a trovare scorciatoie là dove i sistemi tendono (come spesso fanno) a percorrere strade obbligate e inutilmente complesse. Tutto questo può richiedere un impegno e un investimento importante in formazione e trasformazione delle strutture organizzative; probabilmente anche qualche posto di lavoro in più. Ma credo che il miglioramento di efficienza e di qualità possa più che compensare i costi.

Per fare esempio, pochi giorni fa parlavo con un dirigente di un grosso internet provider. Ne faccio volentieri il nome, perché merita di essere segnalato: si chiama I-net. Il suo sistema di assistenza clienti è fra i migliori che abbia mai visto. Quasi sempre accessibile, molto disponibile e competente, disposto ad assistere il cliente in ogni sorta di problemi e a rispondere con cortesia a qualsiasi domanda, anche la più stupida. Questo servizio costa; come costa offrire prestazioni tecniche elevate. Il risultato è che I-net vende il suo servizio a un prezzo più alto e ha un livello eccellente di customer retention: cioè non sempre vince nell’acquisto di un nuovo cliente rispetto ai concorrenti che offrono prezzi più bassi, ma molto raramente perde un cliente che ha. Questo, sulla distanza, è ciò che conta.

L’esempio può essere esteso a qualsiasi attività umana, anche non riguardante l’information tecnhology o la rete. È giusto investire in tecnologie e sistemi avanzati, ma l’intervento umano è indispensabile. Inoltre, la familiarità con le tecnologie e con i loro obiettivi, utilità ed effetti non deve essere lasciata solo ai tecnici ma diffusa e condivisa in tutti i settori di attività. Non mi illudo che questa semplice (ma poco praticata) verità possa risolvere automaticamente tutti i problemi di disoccupazione. Ma può certamente creare spazi di lavoro per persone culturalmente preparate (non solo tecnici e ingegneri) e se migliora l’efficienza e il successo delle imprese può contribuire a tutto lo sviluppo dell’economia. Insomma, secondo me, l’importanza del fattore umano (e dell’iniziativa personale) in molte attività dove oggi è poco o male utilizzato dovrebbe interessare non solo alle imprese, ma anche a chi vuole far crescere il livello di "occupazione" – che troppo spesso viene ancora inteso solo come "posto di lavoro" (sappiamo che molti dei possibili spazi di attività non sono "lavoro dipendente"... ma l’intero sistema politico, economico, organizzativo e culturale è ancora lontano dall’aver trovato soluzioni concrete che escano dal vecchio modello dell’economia industriale e della "linea di montaggio").

 

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