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IL CONVEGNO SU ERNESTO DE MARTINO NELLA CULTURA EUROPEA Alla luce di queste considerazioni si è potuta cogliere appieno la rilevanza degli interventi di Nowaczyk e Stachowsky che, da due angolature diverse, hanno mostrato come de Martino (e con lui la scuola italiana di storia delle religioni) costituisca un punto di riferimento forte per la faticosa impresa cui si è accinta da anni la Associazione polacca di Scienza delle religioni: sottrarre l'ambito degli studi sulle religioni dapprima all'ottuso meccanicismo dell'economicismo marxista e ora al duro egemonismo della Chiesa cattolica, che non ama la riflessione critica sul suo sforzo di "restaurazione del sacro e del mito nella cultura contemporanea". Di fronte a giudizi così impegnativi dei colleghi stranieri, è stato inevitabile per gli antropologi italiani sentirsi chiamati in causa, in quanto eredi della tradizione demartiniana. Ed è stato inevitabile constatare (Gallini, Pasquinelli, Lombardi Satriani, tra gli altri) quanto gli antropologi italiani sono stati timidi e tiepidi, negli ultimi trent'anni, nel raccogliere e far crescere l'eredità demartiniana. E sia pure con alcune eccezioni. Sulle ragioni dell'oblio o dei temporanei, e spesso frammentari, recuperi di de Martino, il dibattito ha registrato alcuni contributi (Tullio Altan, Clemente) costruiti sulla falsariga dell'autobiografia intellettuale. Pur proponendosi come interessanti tasselli di una storia delle idee antropologiche in Italia, ancora in buona parte da fare, essi hanno affrontato solo tangenzialmente il nodo centrale della questione. Il problema è stato posto in tutta la sua rilevanza nell'intervento di Pasquinelli: si tratta di ricostruire le condizioni storiche (e dunque di storia culturale, ma anche accademica e politica) che hanno reso così difficile e discontinua la circolazione delle idee demartiniane nel contesto dell'etnoantropologia italiana. Questa ricerca non dovrà essere rinviata o elusa: pena la trasformazione di de Martino in "autore del rimorso" (Lombardi Satriani), simbolo negativo per l'antropologia italiana di un cattivo passato che non passa, che torna a rimordere. La maggior parte dei contributi al Convegno pare a me che possano raggrupparsi sotto due titoli: la riflessione sulle grandi tematiche demartiniane e la ricostruzione del profilo intellettuale di de Martino, dagli anni della sua formazione a quelli della maturità. La storicizzazione del mondo magico e, più in generale, il recupero del mondo etnologico alla storia, operato da de Martino fin dagli anni '40, comportava la messa in crisi dell'assetto tradizionale della disciplina e la ridefinizione del campo delle scienze umane (Lanternari). Su questo terreno, dove le tesi di de Martino si collegavano alle posizioni di Pettazzoni, ha trovato il suo fondamento l'analisi delle dinamiche culturali: e il metodo si dimostra ancora fecondo (Gallini, Sabatucci). Ma c'è di più. Ovviamente, nessuno oggi oserebbe più parlare di popoli senza storia. |
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Ma di fronte a paradigmi "deboli" secondo i quali i
nessi tra locale e globale, "alto" e "basso", passato e presente, sarebbero
casuali e irrilevanti, sembra importante confrontarsi di nuovo con il
principio che è alla base dello storicismo demartiniano: il lavoro di
comprensione del reale, e dunque anche dei rapporti tra oggi e ieri,
è lavoro del senso critico (Gallini). Esserci nel mondo, la presenza
umana e la sua crisi: è, come è noto, il grande costrutto teorico, mutuato
da Heiddeger (ma non solo) intorno al quale, fin da Il mondo magico,
de Martino ha costruito gran parte della sua riflessione. L'antropologo
sperimenta in prima persona la propria crisi, di fronte all'"altro"
che l'incontro etnografico gli oppone: ed è crisi non solo etica, ma
cognitiva, è, in senso proprio, crisi esistenziale, la cui risoluzione
rinvia, in de Martino, all'orizzonte dell'umanesimo etnografico. Su
questo punto può essere segnalata una decisiva differenza tra l'etnocentrismo
critico demartiniano e l'attuale neorelativismo (Signorelli), anche
se il confronto sistematico fra le due posizioni non è infruttuoso (Dei
e Simonicca). L'esperienza della propria crisi fonda per l'etnologo
la definizione del proprio lavoro come ricostruzione razionale di identità
inaccessibili (Solinas). Sempre a proposito del lavoro dell'etnologo,
Ian Lewis ha discusso della possibilità di comprendere il mistero di
"quello che credono gli altri", sviluppando un interessante confronto
tra de Martino, Evans-Pritchard e Leiris. Sini ha problematizzato un
altro aspetto: de Martino insiste sul momento regressivo della crisi,
ma ignora il momento genetico-costitutivo della presenza (o coscienza?).
In tal modo tutte le istituzioni umane rischiano di essere ridotte a
tecniche per il mantenimento della presenza, senza che vi sia un criterio
che permetta di distinguere fra loro. Un interrogativo complementare
(che cos'è che genera la crisi?) è al centro dell'intervento di Mastromattei,
che nota come in de Martino non sia sottolineato il rapporto dialettico
tra passato buono e passato cattivo, tra presenza e crisi. L'attenzione
è spostata, invece, sul rapporto genetico tra crisi come arresto della
psiche nella ripetizione e dispositivo mitico-rituale come tecnica di
risoluzione della crisi. La natura della relazione mito-rito, l'efficacia
simbolica, la realtà dei poteri magici sono forse i più noti tra i temi
demartiniani. Massenzio è tornato sul nesso ripetizione-destorificazione,
alla luce di un inedito demartiniano di recente pubblicato, che può
considerarsi l'abbozzo di una teoria del sacro. Una sollecitazione di
grande interesse è venuta dal confronto tra l'interpretazione (elaborata
a partire da de Martino) del simbolo come immagine di valore, di "idea
regolativa" in senso kantiano (Tullio Altan) e l'altra, pure di ispirazione
demartiniana, che segnala il rischio psicotico del simbolo, quando il
soggetto resta intrappolato nella rete di simboli che non sono più segni
di significati, quando il simbolo, insomma, "brise l'histoire" (Callieri).
La pregnanza e la complessità dei concetti demartiniani è emersa una
volta di più, quando si è voluta scandagliare la nozione demartiniana
di cultura che sottende l'analisi della "realtà" dei poteri magici (Cherchi).
Un contributo di G. Charuty sullo stato attuale degli studi di antropologia
simbolica in Francia ha permesso di constatare, una volta di più, l'attualità
dell'opera di Ernesto de Martino. Se le relazioni fin qui riassunte
hanno evidenziato la complessità degli esiti della ricerca di de Martino,
altre hanno posto in luce la non minore complessità delle influenze,
delle fonti, dei percorsi. È stato ribadito il ben noto legame con Croce
e con la versione crociana dello storicismo idealista (Galasso); ma
risulta sempre più evidente che il giovane de Martino fu esposto contemporaneamente
ad altre, e singolarmente divergenti, influenze: non solo attraverso
Macchioro, ma anche attraverso incontri interni ed esterni alla Facoltà
di Lettere di Napoli, dove studiava (Di Donato). Ad esempio attraverso
A. Aliotta (che assegnò a de Martino la sua tesi di laurea), potrebbero
essere giunti al giovane studente di filosofia qualcosa di più degli
echi di quell'historismus tedesco che nella sua postulazione dello storicismo
come principio di vita era ben lontano dalla serenità senza conflitti
del crociano storicismo come principio di scienza (Tessitore). In anni
più recenti fu certamente cruciale nel percorso demartiniano l'eternamente
ambivalente rapporto con Mircea Eliade, segno e componente di quella
costante tensione tra razionale e irrazionale, tensione intellettuale
ma anche psicologica, che fu uno dei tratti caratteristici dell'intellettuale
Ernesto de Martino (Angelini). Giulio Einaudi ricostruendo la storia
della "Collana viola" ha dato testimonianza di come, grazie all'incontro
con Cesare Pavese, da quella tensione sia potuta nascere un"'impresa
culturale" tra le più significative di metà secolo. Non fu questa la
sua sola impresa culturale. Al de Martino degli anni '50, pubblicista
e polemista oltre che studioso, si deve la prima diffusione negli ambienti
demoantropologici dei testi di Gramsci e la teorizzazione del folklore
progressivo (Lombardi Satriani) con la conseguente rimessa in discussione
dei metodi tradizionali della scienza del folklore (Bronzi- ni). E ancora:
è il de Martino degli anni '50 a stabilire i fondamenti di una etnopsichiatria
italiana (Seppilli), di una storia popolare costruita sulle fonti orali
(Bermani), di un'antropologia visuale italiana (De Simone, Di Gianni,
Padiglione). Daniel Fabre ha mostrato come fossero scientificamente
densi, ma anche eticamente e politicamente ricchi i fili che legarono
le traduzioni in francese di de Martino alla stagione più significativa
dell'esistenzialismo francese del dopoguerra. Un breve intervento di
Gerardo Marotta, un sobrio profilo intellettuale e psicologico tracciato
da Giovanni Jervis, un toccante ricordo di Lia de Martino hanno, per
un attimo di commozione profonda, riportato fra noi l'uomo Ernesto.
L'intero Convegno ha dimostrato come l'antropologo Ernesto de Martino
è e resta l'autore "provocante" che fu in vita. Il senso della storia,
la responsabilità dell'intellettuale, il rapporto tra diversi, la tensione
fra razionale e irrazionale: il confronto con de Martino restituisce
a queste questioni tutto il peso che esse hanno e smaschera l'inconsistenza
degli escamotages postmoderni che pigrizia o sconforto talvolta ci fanno
apparire suggestivi. Esserci nella storia umana è possibile solo "scegliendo
valori e oltrepassando situazioni": fuori moda com'è, questa affermazione
demartiniana riesce a richiamarci al dovere (e al piacere!) del pensiero
critico. * Ordinario di Antropologia culturale Tratto da: http://www.unina.it/notiziario/anno1/6/10.html
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