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Teoria e tecnica della comunicazione di massa

Anno accademico 2000-2001

Sandro Petrone

IL PROGRAMMA

  • Scenari e parte generale: tra errori del passato e rivoluzione in arrivo
  • Linguaggio e tecniche del giornalismo televisivo: il Basic reporting tv parte 1 e 2 (immagini, suoni, parole, l'intreccio)
  • Organizzazione del lavoro: macchina produttiva del tg e inserimento nel palinsesto
  • Contenuto dell’informazione: scelta e trattamento nell’era della globalizzazione
  • La tv alla svolta: i motori del cambiamento e l’esperienza dei canali 24 ore
  • Dai media audiovisivi alla multimedialità: storia, principi, tecniche del giornalismo totale.

Partendo dal “caso italiano” di un’informazione televisiva rimasta imbrigliata nella cultura della carta stampata, il corso ricostruisce i principi e le tecniche di un corretto ed efficace giornalismo audiovisivo così come è stato elaborato all’estero, passaggio insostituibile per affrontare poi la rivoluzione informatica in arrivo.

Si parte dal “Basic reporting”, cioè le tecniche di base per il cronista in tv, in grado di raccontare in uno spazio assai contenuto tutti gli elementi essenziali di una storia.

Si accenna, poi, all’organizzazione del lavoro che rende possibile questi risultati.

Si analizzano, quindi, i criteri di scelta delle notizie nei tg e negli altri programmi di informazione, cioè i meccanismi decisionali adoperati dai responsabili delle testate e di come essi siano influenzati dalla cosiddetta globalizzazione.

Infine, le nuove forme di giornalismo portate dalla rivoluzione tecnologica e da altri fattori economici e socio-culturali : dai nuovi canali 24 ore alle news-room mutlimediale, dall’integrazione fra informatica e telecomunicazioni fino al cyber-journalism.

OBIETTIVI DEL CORSO

  • Acquisire l'analisi: ovvero capire e imparare a leggere cosa accade dentro il telegiornale, come è confezionato il prodotto, perché e che cosa significa;
  • Acquisire gli strumenti per produrre un servizio o un programma di informazione : anche se non si arriva a farlo in pratica, se ne studiano principi, procedure e tecniche ;
  • Acquisire gli strumenti per capire e gestire l’organizzazione necessaria a realizzare un particolare prodotto informativo ;
  • Avere gli strumenti per valutare e scegliere l'informazione;
  • Avere gli strumenti per vivere il cambiamento, per partecipare alla trasformazione tecnologica senza esserne travolto.

In conclusione, il corso vuole aiutare a capire cosa accadrà domani, partendo dal tipo di giornalismo che oggi in Italia non è ancora compiutamente realizzato e che, invece, presto dovrebbe svilupparsi nelle nuove forme del far informazione. Se, da un lato, si va verso la globalizzazione, verso fenomeni giornalistici che riguardano tutto il mondo (dalla rete americana Cnn, alle centinaia di altre televisioni via satellite o, ancora, a Internet), dall'altro la stessa globalizzazione porta allo sviluppo di un giornalismo fortemente personalizzato, “localizzato”, cioè diretto a pubblici molto mirati o, addirittura, in grado di consentire ad ognuno di costruire il proprio messaggio individuale.

Come accade in genere dovunque cadano le frontiere fra stati, anche nell’informazione più ci s’immerge in una situazione soprannazionale, più rispuntano prepotentemente le istanze e le culture locali ed acquistano valore le piccole vicende umane in grado di rappresentarle. Così, mentre da un lato si diffondono informazioni e storie in grado di essere condivise dal pubblico globale, dall’altro trovano spazio quelle tipiche di realtà molto circoscritte.

Nello scenario appena descritto, sotto la spinta decisiva delle nuove tecnologie, un numero sempre crescente di persone diventa parte del circuito informativo. E non più in rigida posizione o di emittenti o di destinatari, ma alternativamente o contemporaneamente nei due ruoli. Se si pensa che ogni stazione televisiva ha oggi la possibilità di collegarsi a decine o a centinaia di telecamere personali, di singoli cittadini, sparse ovunque nel mondo, è evidente che la tradizionale comunicazione “da uno verso molti”, secondo lo schema classico di un’emittente che invia il messaggio ad una moltitudine indistinta di destinatari, tende a trasformarsi in comunicazione “da molti a molti”, nel complicato gioco dell’interattività. Un cambiamento che ha subito negli ultimi anni una forte accelerazione. Basti pensare che il primo cyber-journalist, giornalista cibernetico, fu accreditato alla Casa Bianca nel 1995. Oggi il cyberjournalism è diventato diffusissimo, una realtà alla portata di ognuno di noi.

Per questa parte e per quella sulle Teorie delle comunicazioni di massa, il corso è condotto da Sandro Petrone, giornalista del Tg2. L'altra metà del programma è svolta dal professor Gian Piero Jacobelli.


Le dispense sono aggiornate alla data del 30 giugno 2000. La parte nuova va dal capitolo "Le immagini", che modifica e sostituisce il precedente. Tutti i diritti sono riservati ed è vietata la riproduzione anche parziale del testo, tranne che agli studenti dell'Università di Roma per uso personale.

- 1 - LO SCENARIO ATTUALE E IL CASO ITALIANO

  • Il Teorema dell’acqua calda

Raccontare in cosa consiste e come si realizza il giornalismo televisivo può sembrare una cosa banale, un po’ come predicare il “Teorema dell’acqua calda”. Se è vero che la televisione è un sistema che consente di vedere le immagini e di sentire i suoni, è ovvio che il linguaggio che le si addice non può che essere a base di immagini e di suoni, e la parola stessa deve rientrare nel genere parlato più che scritto. In soldoni: la televisione si fa con le immagini e con i suoni, un po' come l'aviazione si fa con aerei e con piloti. Tutto il resto, è una conseguenza logica di questo principio evidente. E' la scoperta dell'acqua calda, non c'è certo bisogno di scrivere un libro per divulgarla. Perciò, con una buona dose di auto-ironia, ho spesso dato forma di teoremi ai semplici principi enunciati, con tanto di assiomi e di corollari, nei quali la dimostrazione, lapalissiana, si trasforma in un gioco mnemonico per ricordare una cosa che, in fondo, già sappiamo. L'archetipo è, appunto, il Teorema dell'acqua calda: dato un mezzo di comunicazione in grado riprodurre immagini e suoni, che si definisce televisione, qualsiasi messaggio si voglia trasmettere attraverso di esso dovrà essere organizzato in una opportuna miscela di immagini e di suoni atta a trasferire il maggior numero di informazioni.

Ma, purtroppo, non è detto che da premesse così semplici e scontate si traggano conseguenze altrettanto ovvie. Gli esseri umani, e gli italiani in particolare, hanno una tendenza innata a complicare le cose e, soprattutto, a adattarle ai propri casi contingenti, anziché farle marciare per il loro verso naturale.

  • La tv stampata

In Italia è così potuto accadere che, negli ultimi 25 anni, l’informazione in tv seguisse un percorso molto diverso da quello che sarebbe stato normale e ovvio, cioè quello che, intanto, si è sviluppato all’estero. Qui, sotto la spinta di fattori economici, politico-sociali, tecnologici e tecnico professionali, si è andato progressivamente elaborando e perfezionando, fino ad un livello ottimale, un modello di linguaggio audiovisivo e di produzione molto efficiente, di derivazione anglo-americana.

Per anni, invece, in Italia generazioni di giornalisti sono passate dai giornali alla televisione portando con sé gli strumenti di lavoro e le tecniche della carta stampata. Hanno chiamato "tele-giornali" i programmi di notizie che realizzavano, così come i loro predecessori, anni prima, avevano chiamato "giornali-radio" i programmi di informazione radiofonici.

Proprio come se si trattasse solamente di trasferire sul piccolo schermo gli articoli di un quotidiano, con le relative foto, hanno cominciato a parlare di "illustrare il pezzo con le immagini", di "impaginazione" delle notizie, di "copertina", di "prima pagina", dividendo poi il programma in successive "pagine" con la stessa scansione e con gli stessi nomi adoperati dalla carta stampata. Al centro c’è sempre un testo che va “impaginato”, coperto con qualcosa per poter essere “pubblicato” in video.

“Dagli una sporcatina di immagini” è la celebre frase che la dice lunga sul modo distorto di concepite il messaggio audiovisivo. E’ l’invito che ancora oggi molti redattori rivolgono ai montatori, tendendogli due cassette, una sulla quale hanno registrato il testo del servizio e l’altra con le immagini girate da un operatore alla quale, magari, non hanno neppure dato uno sguardo. Insomma, arrangiati come puoi a mettere qualcosa di visibile sulla mia voce che legge il servizio.

E non è per un capriccio o una sopravvalutazione personale che batto questo chiodo dal 1988, diciotto anni dopo che il filosofo tedesco Hans Magnus Enzensberger, nel saggio "Constituents of a Theory of the media", pubblicato sulla rivista New Left Review, criticando la sinistra per l'incapacità di comprendere la sfida lanciata dai media elettronici alle forme tradizionali di organizzazione politica, l'accusa di essere rimasta "alla cultura della carta stampata". E, per quanto riguarda la nuova sinistra, nata negli anni Sessanta: "Essa ha ridotto lo sviluppo dei media ad un semplice concetto, quello di manipolazione".

L'invito a "liberare il potenziale emancipatore" del linguaggio audiovisivo applicato all'informazione, ricalcando indegnamente le orme di Enensberger che invitò la sinistra a "liberare il potenziale emancipatore dei nuovi media", contrapposto alla loro utilizzazione repressiva, è alimentato in me dalla rabbia e dalla vergogna che provo ogni volta che vedo in quale considerazione il nostro modello di giornalismo televisivo è tenuto negli altri paesi, a cominciare da quelli anglosassoni.

  • Wall-paper e Talking-heads

Si tratta di un’informazione scritta nella quale le immagini servono come illustrazione. Wall-paper, carta da parato, ironizzano gli inglesi. E, molto spesso, per immagine si intende la faccia di un giornalista che parla davanti alla telecamera. Talking-heads, cioè teste parlanti, è ancora la definizione anglosassone. In sostanza, non conoscendo il linguaggio audiovisivo, un intera classe di giornalisti ha tentato di riportare il messaggio nella dimensione primordiale della comunicazione, quella del rapporto interpersonale, del racconto diretto fatto usando le risorse del proprio corpo, a cominciare, dunque, dalla voce e dalla faccia. Effetto dell’equivoco da sprovveduti, o da semplificatori terribili, convinti che in televisione basti dire, parlare, per far arrivare al pubblico le informazioni.

"Voltiamo pagina", afferma tuttora tranquillamente lo speaker del tg, mentre il programma, come se fosse una pagina di giornale, passa via via dalle notizie più importanti, "in testa", alle meno importanti, "in coda". E più avanti si afferma: "veniamo alla pagina degli esteri". Oppure: "in chiusura, la pagina dello sport". Perfino le sigle dei tg non hanno avuto fino a poco fa come motivo dominante l'obiettivo di una telecamera ma, assieme all’onnipresente mappamondo (ma poi di estero si parla pochino), il ticchettio, la tastiera, i martelletti o, nel migliore dei casi, la testina di una macchina per scrivere elettrica Ibm.

Quanto alla struttura dei servizi, la musica non cambia. Visto che convenzionalmente i pezzi si misurano in cartelle dattiloscritte formate, in genere, da trenta righe di sessanta battute ciascuna, e poiché per leggere dodici o quattordici righe ci si impiega all'incirca un minuto, il modulo adottato in tv è stato quello delle notizie "brevi" pubblicate dai giornali, vale a dire tra le dieci e le venti righe.

  • Telegrammi

"A voi basta scrivere dei telegrammi", hanno sempre ironizzato i giornalisti della carta stampata con i colleghi della tv. Nella loro visione, è assolutamente secondaria l'ulteriore fase di lavorazione dopo la scrittura , cioè la costruzione della storia per immagini, con le interviste-testimonianze e il testo dove occorre, ovvero il montaggio. Un procedimento visto, invece, un po' come il passaggio in tipografia del pezzo per la composizione e l'impaginazione. E, invece, dovrebbe essere la fase principale, addirittura precedente alla stesura del testo, come si usa nelle migliori emittenti straniere.

Un equivoco vissuto sempre con forte disagio dall’esercito di giornalisti televisivi rimasti orfani della carta stampata. Tra loro è diffuso il vezzo di schermirsi con i colleghi della stampa, dichiarando di scrivere se non “telegrammi”, “marchettine”. Cioè, cose insignificanti in termini giornalistici, non certo articoli di quelli veri! “Marchettine” per milioni di italiani che, invece, attendevano le informazioni della giornata!

Giornalisti che, per liberarsi dalla prigione dei “telegrammi” non trovano altro sistema che lasciarsi andare, ogni volta che gli viene permesso, a interminabili sbrodolate in diretta, parlando per minuti e minuti con buffi pezzetti di carta o block notes in mano, su argomenti spesso astratti, come la politica, che si sarebbero potuti rendere meglio in pochi secondi usando la sintesi audiovisiva. Interi telegiornali bruciati per spiegare cose che, se formulati in un modo appropriato al mezzo, avrebbero occupato un terzo dello spazio, o si sarebbero potuti non raccontare affatto perché inidonei alla tv, oltre che non essenziali, evitando così di sottrarre tempo ad argomenti più immediati e più utili per la vita della gente.

  • Cappio politico e cappio professionale

La responsabilità di tutto ciò, può essere in gran parte attribuita all’indebita ingerenza esercitata dalla politica sul mezzo televisivo, principale strumento per la propaganda elettorale di massa. E poi, ad un’inadeguata risposta tecnico-professionale dei giornalisti, da un lato rimasti pervicacemente abbarbicati ai precetti della carta stampata, inapplicabili in tv, e dall’altro in forte difficoltà, per problemi interni alla categoria, a reagire al giogo dei partiti e dei grandi gruppi industriali in modo da rendere effettiva la libertà e l’indipendenza dell’informazione . A voler azzardare cifre, un 70% di responsabilità al primo fattore e un 30% al secondo. Ma, come vedremo, c’è un legame strettissimo di causa ed effetto fra i due elementi.

C’è una data che può essere assunta come punto di non ritorno per la direzione deviata presa dal giornalismo televisivo italiano, ed è il 14 aprile 1975 con l’emanazione della legge n°103 di riforma “Del servizio pubblico di diffusione radiofonica e televisiva”. Con essa si sottraeva al Governo e si affidava al Parlamento il controllo del servizio pubblico radiotelevisivo, considerato “a carattere di preminente interesse generale” e quindi “riservato allo Stato”.

L’intento dichiarato era di “ampliare la partecipazione dei cittadini a concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese”, dunque di garantire il pluralismo e la copertura di tutti gli interessi del popolo italiano, canalizzati attraverso il principale organo della rappresentanza e della sovranità popolare che è il Parlamento. E proprio questo, si stabilì, determina l’indirizzo generale ed esercita la vigilanza attraverso la Commissione per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

In realtà, si consegnò così l’informazione radiotelevisiva, il più potente strumento elettorale, nelle mani dei politici. L’accordo concluso dai partiti di governo (DC, PSI, PSDI e PRI) prima dell’approvazione della legge traduceva la parola “pluralismo” in spartizione di reti e testate fra le diverse aree politiche (al voto, il PCI si astenne, PLI e MSI votarono contro). In sostanza, si sanciva il principio dell’occupazione partitica della Rai, con quote proporzionali in base ai voti ricevuti alle elezioni o secondo l’effettivo potere esercitato nella coalizione di governo.

Non solo per il Consiglio di amministrazione, che per accontentare tutti fu portato a 16 membri, non solo per i direttori e i loro vice, di cui si indicava apertamente l’area, ma per ogni singolo giornalista assunto (e molti sostengono anche per ogni singolo impiegato, tecnico o manovale) cominciò ad essere necessario stabilire in quale “quota” rientrasse, cioè a quale partito appartenesse il posto da lui occupato, in base ad un sistema molto preciso di divisione fondato sul padrinato politico, “l’editore di riferimento”, secondo la celebre espressione usata dal giornalista Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, in uno scontro in diretta con il segretario del Pri, Giorgio La Malfa.

In sostanza, da allora tutte le assunzioni furono gestite direttamente dalle segreterie dei partiti. E, poiché tutti i partiti pretesero ovviamente di essere rappresentati, la televisione di Stato cominciò a dover dire tutto quello che volevano i partiti. Indipendentemente dal rilievo obiettivo che le esternazioni avevano per la vita della gente. Un sistema di reclutamento dal quale solo ora si sta uscendo.

A ciò si aggiungeva l’inconveniente di non poco conto che le qualità professionali e la meritocrazia diventavano assolutamente inutili, e si affermava invece come unico criterio premiante l’appartenenza partitica e la capacità di servire gli interessi del proprio politico di riferimento, con tanti saluti per l’imparzialità e la credibilità giornalistica. Ma, in più, il passaggio determinò altre conseguenze deleterie a livello organizzativo e professionale.

Se nel fare 10 assunzioni, per esempio, 4 dovevano essere di uomini indicati dalla DC, 3 dal PCI, 2 dal PSI, 1 fra repubblicani, liberali e altre minoranze, significa che se la DC aveva da sistemare 4 dei suoi, tendeva a dimostrare che servivano 10 assunzioni. Nel frattempo, i posti si erano comunque allargati, con l’istituzione di una seconda e di una terza rete, che fu articolata su un livello nazionale e su uno regionale per l’informazione.

Ma, allora, il problema diventa anche: chi porto in televisione per farmi rappresentare? Dove mai si trovano, infatti, tutti questi giornalisti televisivi, bravi ma disponibili a rinunciare alla propria autonomia professionale. A farsi portatori di interessi politici di parte, quasi portaborse? Quando possibile, fu reclutata gente dalla carta stampata, altrimenti dai giornaletti di partito, dagli uffici stampa o veri e propri portaborse, o addirittura figli e figlie di amici, o di personaggi influenti, nipoti dei grandi elettori o dei dirigenti delle banche finanziatrici, e così via nella catena clientelare, che non ha nulla a che fare con le regole del buon giornalismo, se non in casi fortuiti.

Così è accaduto che la tv sia stata invasa da centinaia di persone che conoscevano bene gli interessi di cui erano portatori ma non sapevano fare televisione. E, quindi, nel migliore dei casi hanno cominciato ad applicare le regole della carta stampata o quelle del mestiere che facevano prima, per esempio i comizi politici. E, poiché sono stati rapidamente fatti promuovere ai posti di comando dai loro referenti, ansiosi di avere i propri uomini in posti chiave, questi neofiti del mestiere hanno condizionato tutta la catena produttiva, determinando un disastro senza via d’uscita perché le risorse per cambiare rotta sarebbero dovute venire da essi stessi.

  • Furto di informazioni

Dunque, ecco i tg invasi da sproloqui di mezzibusti impegnati con quanto di più astratto un mezzo del concreto, come la televisione, possa dover comunicare: le elucubrazioni politiche.

Un furto di informazioni. Per tener dietro alla comiziocrazia (corollario dell'equazione: servizio pubblico uguale bollettino di partito), ogni giorno i telegiornali hanno soppresso deliberatamente decine di notizie che sarebbero state più utili per aiutare a vivere i cittadini-utenti, e contribuenti del canone, ed avrebbero quindi costituito vero servizio pubblico.

La gente, negli Anni Ottanta, ha cominciato a fuggire da questa politica teleimposta. Ma i politici non hanno capito il motivo di tanta disaffezione ed hanno pensato di curarla rincarato la dose di tormentone in tv. E, poiché i loro protetti televisivi, anziché trovare formule televisivamente più incisive -che, essendo figli della carta stampata, non avevano a disposizione- hanno incalzato il pubblico con ancora più mezzobustismo, lo sfascio è stato inevitabile.

Non è difficile individuare il ruolo di acceleratore del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica giocato da questo tele-scollamento tra politici e paese, alimentato dal cattivo servizio dell'informazione in tv (vedi in appendice: “Il teorema di Tierreallegre”)

  • Alla guerra come alla guerra

Nel 1979 la situazione italiana era già sufficientemente differente da quella maturata all’estero da giustificare il legittimo dubbio che fosse il momento di aprire un confronto e correggere la rotta. Bastava poco per accorgersene. Ma gli eventi italiani (vedi Paul Ginsborg “L’Italia del tempo presente - Famiglia, società civile, Stato 1980-1996”, Einaudi 1998) e, in particolare, il controllo politico sull’informazione televisiva, hanno fatto sì che il momento della verità tardasse parecchio. Il vero impatto con la televisione internazionale si ha solo nel 1991, durante la guerra del Golfo. E solo nel 1993, con Tangentopoli, si può affermare che si sia iniziato faticosamente un processo di cambiamento. E questo, ironia della sorte, proprio mentre per l’unica emittente che in Italia aveva anticipato i tempi al 1987, la Telemontecarlo gestita dai brasiliani di Rede Globo, cominciava il declino con l’uscita di scena dei brasiliani (strangolati progressivamente perché gli erano tolte le poche frequenze che

detenevano, anziché attribuirgli le nuove come era nei piani) e il successivo uniformarsi della nuova proprietà alle vicende italiane.

Quando la Guerra del Golfo esplose super-annunciata, il 16 gennaio 1991, la svolta nel mondo dell'informazione televisiva era ormai cosa fatta. Sulla scena, dominata dal crollo dell'Est, si era già affacciato un nuovo modello produttivo, spinto, come spesso accade da una miscela di difficoltà economiche e di innovazioni tecnologiche, e basato sull'uso esasperato di immagini attinte dovunque fossero disponibili, da altre tv o agenzie, non importa.

Ma fu la diabolica macchina da censura alla fonte, ideata dagli strateghi del Desert Storm, a costringere tutte le tv del Pianeta a far ricorso a questo nuovo modo di fare informazione, sfruttando elettronica e satelliti. Per seguire il conflitto gli americani imponevano un modulo di lavoro basato sulla condivisione delle informazioni e delle immagini fra tutte le emittenti. Nessuno poteva andare in giro a raccogliere la propria parte di storie e di testimonianze. Tutti i giornalisti e i cameraman erano bloccati e sorvegliati negli alberghi dell’Arabia Saudita.

Ognuno aveva a disposizione gli stessi filmati, ripresi da un pool o direttamente dai militari, e le stesse notizie. Era un modo per mettere finalmente sotto controllo totale i reporter, con un meccanismo di propaganda e di disinformazione che nelle altre guerre non aveva mai raggiunto un livello simile di perfezione organizzativa e di ineludibilità. Una censura geniale, c'è da aggiungere. Senza dover filmare un'immagine e spesso senza neppure un inviato in zona di operazioni, qualsiasi emittente fu messa in grado di offrire ai propri spettatori l'illusione della guerra in diretta (vedi in appendice: “La guerra non vista”).

Il modulo produttivo su cui gli americani fecero leva, era in grado di abbattere i costi delle coperture giornalistiche, fatto essenziale per le emittenti di tutto il mondo i cui budget erano già saltati due anni prima, quando con il crollo dell’Est per mesi e mesi avevano dovuto mandare in giro troupe e pagare i costi di viaggio e di trasmissione via satellite. La novella dottrina del villaggio globale non lasciò scampo, dalla Cbs alla turca Trt, toccò adeguarsi o annegare in un mare di problemi e di spese.

La tv italiana si trovò forzata a questa seconda via. I giornalisti italiani allora furono costretti ad accorgersi che il loro modo di fare informazione non aveva seguito lo stesso processo di impiego generale dei modelli anglo-americani. Non era in grado di funzionare in quel modo. E questo non perché la tv italiana avesse elaborato autonomamente un sistema diverso e altrettanto valido, magari in grado di sottrarla alle insidie dell’omologazione.

In realtà, pur facendo ricorso a risorse umane e tecnologiche vastissime, il giornalismo televisivo italiano aveva semplicemente espresso linguaggio, organizzazione del lavoro e contenuti che erano quanto di più inadeguato alla tv si possa immaginare. E questo in un paese che, oltre ad essere la settima potenza industriale del mondo, vanta una cultura cinematografica eccezionalmente ricca e nel quale i primi anni del piccolo schermo sembravano assai promettenti anche nel campo giornalistico, dove un motore interessante era costituito dalla tradizione del documentario d’autore.

  • Ritorno al futuro

Tentare di comprendere cosa sia accaduto e perché, non è importante solo per dare un contributo e, se possibile, per accelerare il processo di recupero che sembra finalmente essersi messo in moto e i cui risultati si sono cominciati a vedere dai primi mesi del 1999. E neppure perché i molti che queste cose vanno ripetendo praticamente da metà Anni Settanta, come chi scrive, possano rivendicare di aver visto giusto e di aver lottato contro corrente, pagando un prezzo professionale altissimo, molto spesso con la completa emarginazione o disoccupazione.

Il punto decisivo è che anche la multimedialità e i nuovi media saranno sviluppati a partire da quello che è il linguaggio di base della tv, cioè il linguaggio audio-visivo e l’organizzazione del lavoro necessaria a produrlo. Se proprio questa base è viziata, rischiamo di cominciare con il piede sbagliato. Anziché approfittare della trasformazione per sanare e superare i difetti del passato, finiremo per precipitare in una situazione ancor più di arretratezza. Oppure, visto che nella globalizzazione un sistema efficiente di nuove tecnologie in Italia dovrà per forza esserci, si creerà un’elite informatica che dominerà la scena. E così, le nuove tecnologie della comunicazione, invece di essere uno strumento di democratizzazione e un’occasione di lavoro per milioni di persone, in Italia darebbero vita ad un'altra oligarchia, una centrale di potere e di consenso facilmente controllabile dal potere politico.

Dunque, anche se la televisione scivola nel “teleputer”, il nuovo elettrodomestico che si dice sarà al centro del cottage elettronico, o comunque evolve in qualcos’altro grazie alle nuove tecnologie, è sempre da lì, dal linguaggio audio-visivo che bisogna partire per costruire correttamente il futuro. Dal modo più idoneo di combinare gli elementi per dar vita ad un qualsiasi servizio giornalistico televisivo, oppure ad un messaggio pubblicitario, o ad un sito Internet, o a qualsiasi altra cosa sia una combinazione di immagini-suoni-parole.

- 2 - LINGUAGGIO E TECNICHE - Il Basic Reporting - Parte prima

INTRODUZIONE

  • Righe contro secondi

C'è un punto di partenza molto efficace per comprendere perché pensare e realizzare l'informazione televisiva come se si trattasse di carta stampata trasferita sul video provochi, a livello di messaggio, una drammatica povertà espressiva e dia vita, a livello organizzativo, ad un meccanismo contorto, dove la distanza fra la notizia e la messa in onda aumenta, in un tortuoso e innaturale percorso di guerra.

Se vi viene affidato un pezzo in un giornale, la misura è in righe. Come abbiamo visto, lo standard più diffuso è quello delle trenta righe di sessanta battute per cartella dattiloscritta. In televisione, invece, gli spazi a disposizione si esprimono in secondi e in minuti.

Per orientarsi su quanto dovessero "scrivere", i giornalisti si sono da sempre posti il problema di quante righe entrassero nell'unità di tempo, vale a dire quale sia il tempo di lettura dei loro testi. Si tratta, ovviamente, di un rapporto variabile. Ma, uno standard medio, in italiano, è di circa 14 righe al minuto.

La conclusione che se ne è tratta è che fare un pezzo di un minuto equivale a scrivere 14 righe. E, dunque, in un minuto e mezzo, che più correttamente si esprime come 90 secondi, "entrano" una ventina di righe. Ciò vuol dire che in un telegiornale medio, la cui durata oscilla attorno ai 20-25 minuti, riusciremo a "ficcarci" a stento 280-350 righe. Davvero pochino per dare un panorama della giornata rispetto ad un quotidiano a stampa. E per fare ciò, si mantengono mobilitati un centinaio di giornalisti a testata, più decine di altri addetti, più l'apporto di sedi locali e corrispondenti. Insomma, per definizione una macchina colossale in grado di produrre solo un topolino.

  • Il teorema di Udinì e i maghi della Bbc

E, invece, la folle ipotesi dalla quale proponiamo di partire è che in 90 secondi, anziché 20 righe, si possa far entrare una quantità di informazione equivalente o senz'altro maggiore di quella contenuta in 90 righe dattiloscritte. Insomma: 90 secondi =/> 90 righe.

E' da sottolineare subito che naturalmente si tratta di "quantità" di informazione, perché il tipo di informazione sarà certamente diverso. Lo abbiamo già messo in chiaro. La tv è un mezzo che fa qualcosa di molto differente dalla carta stampata, ciò che produce non è raffrontabile o sovrapponibile al prodotto del giornalismo scritto. Anche per questo appare privo di significato ogni conflitto tra le due, fino alla quotidiana e nefasta rincorsa l'una dell'altra, come più avanti sarà messo meglio in evidenza dal cosiddetto Teorema di Mosè.

Altrettanto ovvio è che a questo punto non si possa più far conto unicamente sul testo scritto. Anzi, per raggiungere l'obiettivo a prima vista irreale di tanta informazione in così poco spazio, bisogna dare un taglio proprio alle righe...

"Il candidato realizzi un servizio televisivo da 90 secondi, utilizzando non più di 40 secondi di testo". Di fronte a un tema così formulato trasecolava ogni giornalista britannico quando qualche anno fa, appena lasciata la carta stampata, le redazioni del Times, del Guardian o di meno gloriose testate, per un posto alla Bbc, si ritrovava seduto tra i banchi del Journalist Training, un'aula con annessa sala docenti nel Television Centre di Wood Lane (la Saxa Rubra di Londra). Messo in questa situazione, il nuovo assunto dimenticava istantaneamente la credenza che fare informazione in tv fosse la rilassante e piacevole arte di scrivere telegrammi da dodici o quindici righe, e precipitava in uno stato di preoccupato disorientamento.

Non potendo eludere il problema, né prenderlo sottogamba, visto che il corso di formazione era ed è ancora un requisito obbligatorio per entrare in redazione, l'aspirante telegiornalista si scatenava in una raffica di domande.

Quante righe sono 30 secondi di testo? E cosa diavolo si mette negli altri 60 secondi, se non altro testo? Cosa si adopera prima, i 30 secondi di testo o quegli altri 60 di non si sa cosa? E cosa mai sarà possibile dire in 30 secondi?

Appreso dall'istruttore che non è il caso di fare traduzioni da numero di secondi in numero di righe, che 30 secondi sono 30 secondi, e che tutt'al più è utile sapere che ogni secondo corrisponde a circa tre parole, sempre che si adoperino parole brevi, più comprensibili e più pronunciabili, ricevuto il consiglio di distribuire i 30 secondi di testo fra gli altri 60 di "situazioni televisive", il candidato era costretto immediatamente a porsi interrogativi più propriamente televisivi. Quali immagini e interviste ho a disposizione? Quali informazioni raccontano le immagini e le interviste? Cosa posso evitare di dire, perché sarà già stato detto dal conduttore prima del mio servizio? Da dove mi conviene far cominciare la mia storia? Cioè, quale immagine introduce meglio lo spettatore nel racconto, in modo che sia più facile spiegargli cosa è accaduto? Come posso fare quando non ho le immagini per rappresentare una situazione? E così via.

  • Il teorema della Tavolozza

Dietro ognuna delle risposte corrette a questi interrogativi ci sono pezzi consistenti di teoria e tecnica della comunicazione, elaborazioni nate nel grande laboratorio del mestiere pratico o dallo studio e dalla ricerca che nel mondo sono state realizzate giorno dopo giorno per migliorare e per rendere più efficace, o solo più adatta alle differenti situazioni e ai diversi pubblici, l’informazione televisiva.

Entrare da questa porta, costringerebbe ad una costruzione della materia molto complessa. Un percorso non solo impossibile in un breve corso universitario, ma anche nella maggior parte delle situazioni in cui ad apprendere sono gli stessi giornalisti che hanno già una cognizione diretta della materia e dei problemi che si devono affrontare.

E’ più semplice ed efficace entrare direttamente nella logica del linguaggio audiovisivo applicato all’informazione e far riferimento alle giustificazioni teoriche solo quando le ragioni delle scelte e delle soluzioni non siano immediate e lapalissiane, così come per fortuna avviene nella maggior parte dei casi.

E’ un procedere per “verità” enunciate come principi assoluti, assistiti dall’evidenza dei fatti, che si è rivelato molto efficace sia con gli studenti sia con i professionisti e al quale, per autoironia e per facilitare la memorizzazione, ho attribuito la forma dei “teoremi”, come detto più su. Enunciazioni che servono a comprendere e che, al contrario dei teoremi veri, si possono abbandonare quando si vuole, tutte le volte che il messaggio raggiunge correttamente l’obiettivo anche violando il “teorema”. Perché nulla come la comunicazione è il regno di ciò che pragmaticamente funziona. E, nella maggior parte dei casi, si può lasciare agli studiosi la spiegazione del perché funzioni.

Perciò, per spiegare come va cambiata la prospettiva in cui ci si pone quando dal linguaggio scritto si passa a quello audiovisivo, racconto che tutte le volte che devo realizzare un pezzo per il telegiornale, immagino di avere in mano una tavolozza da pittore sulla quale dispongo tutti gli ingredienti necessari a fare un buon lavoro.

Non è per dare alla mia attività un taglio artistico o poetico. Ma per imporre a me stesso il cambio di linguaggio, poiché anche io sono stato formato a scuola alla comunicazione della parola e poi al giornalismo scritto. E’ un passaggio simbolico da uno strumento di comunicazione ad un altro, un modo per non dimenticarmi che sto strutturando un messaggio diverso. Proprio come dipingere è diverso da scrivere.

Afferrato il concetto, che è quello di tenere costantemente presenti tutti gli strumenti propri di un certo linguaggio, ognuno può poi sostituire la tavolozza con ciò che gli è più congeniale. Per esempio, uno schermo da computer con tutte le icone, oppure una scrivania con tanti cassetti, la plancia di una cabina di pilotaggio e così via.

La tavolozza va divisa in tre parti diverse. Nella prima metteremo le immagini, nella seconda i suoni, nella terza le parole. E’ come se stessimo dicendo: divido la tavolozza in una parte per i colori, una per i bianchi e i neri e una terza per gli strumenti da disegno. E, proprio come i tanti colori che possiamo mettere sulla tavolozza, avremo a disposizione immagini di tipo diverso, differenti tipi di suono, parole di natura diversa.

Proprio questa ricchezza di strumenti va elencata ed analizzata, prima di passare a vedere come si possono combinare tra loro gli elementi per delineare il messaggio, cioè dargli una struttura, proprio come si abbozza un quadro. E, infine, come il messaggio assuma forma compiuta attraverso il montaggio, ovvero l’operazione che serve a mettere concretamente assieme gli elementi secondo la struttura prevista.

Alcuni considerano il montaggio il quarto elemento della tavolozza. A nostro avviso, si tratta di un passaggio successivo che conviene trattare a parte.

L’ordine scelto, prima le immagini, poi i suoni e, infine, le parole, non serve solo ad enfatizzare il fatto che troppo spesso in Italia si parte dal testo per aggiustarvi sopra immagini e, se proprio serve, il suono. E’ anche l’ordine logico in cui considerare gli elementi se nel lavoro pratico si vogliono evitare false partenze, vicoli ciechi, giri tortuosi, perdite di tempo.

LE IMMAGINI

Il primo passo è stilare una lista dei vari tipi di immagine che possiamo utilizzare, una specie di campionario nel quale attingere secondo necessità.

Un elenco che si può compilare semplicemente guardando in tv un po’ di notiziari italiani e stranieri: immagini fisse e immagini in movimento; immagini di cronaca e immagini di archivio; grafici, cartine e animazioni; realtà virtuale e disegni.

L’unità di base dalla quale bisogna partire è il fotogramma, termine che indica una singola immagine, la singola foto, che resta impressa sulla pellicola, fotografica o cinematografica. Con il passaggio dalla pellicola al nastro magnetico, a metà-fine Anni Settanta, il fotogramma è sempre più frequentemente indicato con il termine inglese frame. Il principio tecnico tra la impressione di un fotogramma sulla pellicola e la riproduzione di un frame in tv è diverso, come vedremo tra un attimo. Ma, ciò che si indica da un punto di vista della percezione visiva è la stessa cosa: una singola immagine catturata in un determinato istante. E l’angolo di realtà che essa racchiude è l’inquadratura.

A) Immagini fisse e Immagini in movimento.

La prima distinzione è fra immagini fisse e immagini in movimento.

  • Le immagini fisse sono le foto o le diapositive oppure i fermo fotogramma, cioè un frame, una singola immagine estratta da una ripresa video o cinematografica. Fornite dalle agenzie o attinte da qualsiasi altra fonte come video, pellicole, copie su carta o da giornali, queste immagini sono trasferite in formato digitale e conservate nella DLS (Digital Library System) o biblioteca digitale per essere poi usate in vario modo, o all’interno dei servizi registrati, o direttamente in onda.
  • Le immagini in movimento. La rapida successione di immagini fisse, nel cinema moderno 24 fotogrammi al secondo, è percepita dall’occhio umano come immagine in movimento ed è, perciò, anche definita “illusione” del movimento.

In tv, lo stesso principio si applica al frame, che è però composto da due semi-quadri, corrispondenti a metà frame ciascuno, che si accavallano in successione.

L’immagine televisiva in movimento, in Europa, è data da 25 frame al secondo. La corrente elettrica, infatti, da noi ha una frequenza di 50 Hertz (cicli) al secondo, capace di generare 50 semi-quadri al secondo, corrispondenti a 25 frame (negli Stati Uniti si marcia a 60Hertz e, dunque, 30 frame al secondo).

A.1) L’inquadratura.

Dal punto di vista del linguaggio, l’unità di base alla quale corrisponde il singolo fotogramma (nella tecnica fotografica) o una sequenza omogenea di fotogrammi (nella tecnica cinematografica) è l’inquadratura, cioè: lo spazio o campo visivo che si decide di delimitare con l’obiettivo e che varia in estensione, angolo e profondità secondo la posizione della macchina, il tipo di lente adoperato, la luce presente.

L’inquadratura è, dunque, la scelta fondamentale attraverso la quale si stabilisce cosa far vedere di una determinata realtà o scena. E il primo esercizio, per chiunque voglia occuparsi di comunicazione audiovisiva, è cominciare ad inquadrare la realtà, prima con una macchina fotografica, poi con una videocamera, tenuta ferma su un cavalletto e senza muovere l’ottica durante ciascuna inquadratura (che deve avere una durata di circa dieci secondi, comunque non inferiore a sette), e verificare poi cosa comunichi e cosa significhi ognuna delle immagini fisse o, nel caso della videocamera, ciascuna delle scene riprese.

Il principio dell’azione

Rispetto all’inquadratura, per quanto riguarda le immagini in movimento, domina il principio dell’azione, cioè del movimento nello spazio, del soggetto o di più soggetti, girato dalla macchina da presa. L’azione è ciò che motiva, da un punto di vista drammaturgico, l’inquadratura. Vale a dire, posta un’inquadratura fissa, sarà rilevante innanzi tutto cosa accade al suo interno.

Solo successivamente ci si può preoccupare di come muovere l’ottica e la telecamera per generare un’azione o seguirla in modo dinamico.

Le inquadrature di base

Le inquadrature di base sono tre: il Campo lungo o CL (in inglese long shot o LS), il Campo medio o CM (medium shot o MS) e il Primo piano o PP (close up CU).

Tra queste, si individuano diverse altre inquadrature intermedie, ognuna delle quali dotata di un significato e di una funzione particolare nel contesto in cui è adoperata.

Campo lungo. E’ l’inquadratura in cui la persona è ripresa per intero ed inserita nell’ambiente in cui si muove. Il soggetto occupa in genere i 2/3 in altezza del fotogramma ed ha dunque aria sia in testa, sia ai piedi. Offre una visione a distanza della persona, ma sufficientemente ravvicinata da renderla riconoscibile. Se riguarda solo un ambiente, serve a rappresentarlo nella sua interezza, nella sua visione globale.

Se adoperata all’inizio del servizio è definita “inquadratura di fondamento” o “di riferimento” o “establishing shot”, perché definisce il rapporto tra le persone e tra queste e l’ambiente. Il CL è usato spesso anche quando il soggetto compie un movimento completo all’interno dell’inquadratura, senza che vi sia bisogno di muovere la macchina.

Campo medio. Taglia il corpo appena sotto la cintura. Serve a dare una visione ravvicinata di un soggetto o di una scena, ad escludere tutto ciò che non è strettamente significativo per l’azione. Può includere anche due persone e, in questo senso, è un’inquadratura tipica da televisione. Se riguarda solo un ambiente, serve a portare lo spettatore nella zona precisa dove si svolge l’azione. Per la sua flessibilità è una delle inquadrature più adoperate. Più piccolo è il soggetto, più aria bisogna dargli nella direzione dello sguardo.

Primo piano. Taglia il soggetto appena sopra la testa e poco sotto le spalle. Lo isola in questo modo dall’ambiente e ne enfatizza sia l’aspetto fisico, sia le reazioni. Difficile da realizzare se il soggetto è in movimento. Sempre più usato nella tv emozionale, tende a deformare la realtà e a ingigantirla. Il primo piano degli oggetti funziona in modo analogo (es. un telefono sul tavolo e la mano che sta per afferrarlo).

Stringendo ancora l’inquadratura si ha il primissimo piano, che inquadra meno dell’intero viso di una persona e i due terzi circa di un oggetto (es. la pulsantiera del telefono), e il dettaglio che mostra solo una parte del viso (es. gli occhi) o di un oggetto (es. i tre numeri della pulsantiera fra i quali il protagonista non riesce a ricordare quello giusto). Tra il primo e il primissimo piano qualcuno individua anche un gran primo piano, dal mento alla cima dei capelli.

Allargando l’inquadratura dal primo piano, di trova un mezzo primo piano, da poco sotto il petto a poco sopra la testa. Allargando dal campo medio, l’inquadratura alle ginocchia detta anche piano americano perché tipica dei film western, e poi il mezzo campo lungo, un po’ meno larga del campo lungo. E, più largo di quest’ultimo, il campo lunghissimo ed estremamente lungo, secondo varie e diverse classificazioni.

A.2) La composizione

In ciascuna inquadratura, i soggetti andranno disposti secondo una serie di regole e di valutazioni, non solo per creare un effetto armonico e rispettare i canoni estetici, ma soprattutto per ottenere i significati voluti e per avere la possibilità di sviluppare la narrazione attraverso il passaggio da un’inquadratura all’altra, da una scena all’altra.

L’occhio segue un percorso preciso nel leggere l’immagine (Rudolf Arnheim, Il pensiero visivo). Bisogna aiutarlo, escludendo o mettendo in evidenza dettagli, alterando le proporzioni, sottolineando la profondità di campo giocando sui piani, la prospettiva, la disposizione degli oggetti.

Nel predisporre la composizione, sono molto valide strumenti come “La regola dei terzi”, che suggerisce di dividere l’inquadratura sia verticalmente che orizzontalmente in tre parti uguali e disporre i soggetti principali all’intersezione fra queste linee. Ma, dopo un periodo di noviziato, in cui è meglio seguire le regole che fare confusione, vale molto di più l’esperienza e il ragionare sull’effetto che si ottiene praticamente.

A.3) La posizione della telecamera

Molto importante è la posizione in cui si dispone la telecamera. Il principio generale è che le persone vanno riprese ad altezza degli occhi.

La ripresa dall’alto, schiaccia, rimpicciolisce, toglie importanza alle persone. Quella dal basso conferisce potere ed autorità. Non a caso i dittatori e gli assolutisti si fanno riprendere sempre dal basso, mentre presidenti accorti all’immagine, come il francese Francoise Mitterrand, vietavano le riprese dall’alto. Così è scorretto e paternalistico filmare i bambini dall’altezza degli adulti, significa non scendere nel loro mondo a vedere le cose con i loro occhi.

Il punto di vista

La posizione della telecamera determina anche il punto di vista, cioè la prospettiva dalla quale è effettuata la ripresa, da quale posizione la scena è osservata.

  • La prospettiva oggettiva è quella che dà l’effetto di guardare dal buco della serratura. Nessuno si rivolge direttamente in macchina e l’obiettivo osserva l’azione non visto.
  • La prospettiva soggettiva mette lo spettatore nella posizione di chi agisce, guarda la realtà come parte in causa e interagisce con gli altri protagonisti.
  • La prospettiva di cronaca è quella della realtà raccontata da un cronista o da un presentatore guardando in camera.

A.4) Movimenti del soggetto, di ottica, di macchina e carrelli

Ogni inquadratura risente di quatto possibili elementi che possono variare o restare fissi: il soggetto, l’ottica della telecamera, la telecamera, e il supporto di camera, cioè il tipo di sostegno sul quale è montata e si muove la macchina da presa: spalla dell’operatore; cavalletto fisso (tripot); supporto camera da studio (definito Debrie dal vecchio cavalletto a rotelle del cinema, anche se questo era sprovvisto di colonnina idraulica e di manopola per muoverlo); il carrello su rotaie; il carrello su ruote dotato di braccio elevatore (crane mount), ecc.

a) Movimenti del soggetto

Possono essere azioni semplici di un unico soggetto (essere vivente, oggetto animato o oggetto inanimato), come un cambiamento di postura o di posizione che non trasformi radicalmente la composizione dell’inquadratura; i piccoli spostamenti di due soggetti in rapporto fra loro (es., due persone che dialogano); un semplice ingresso o uscita di scena. Oppure azioni complesse di due o più soggetti.

b) Movimenti dell’ottica

L’inquadratura può essere modificata montando sulla telecamera ottiche fisse intercambiabili, cioè obiettivi di differenti caratteristiche, in grado di dare ciascuno un unico, diverso angolo di visuale (dal grand’angolo, che riesce a comprendere una notevole porzione di realtà, al teleobiettivo, che stringe la ripresa su un soggetto anche molto lontano).

Da anni, le macchine da presa hanno adottato un tipo di ottica che, oltre ad essere intercambiabile, è mobile, cioè in grado di passare da un’inquadratura più ampia a una più stretta, e viceversa, senza bisogno di cambiare obiettivo. Il movimento di spostamento da una posizione all’altra può essere utilizzato come elemento descrittivo.

Questo tipo di ottica si chiama zoom.

  • Zoom in avanti: stringe in progressione l’inquadratura sul soggetto voluto, fino a isolarlo dal contesto.
  • Zoom indietro: allarga progressivamente dal soggetto all’ambiente in cui esso si trova.

c) Movimenti della telecamera

  • Panoramica orizzontale, restando perfettamente parallela al suolo, la telecamera ruota sul proprio asse verso destra o verso sinistra di un certo numero di gradi e con una velocità proporzionata alla durata e al significato che si vuole dare al movimento.
  • Panoramica a destra, va da sinistra verso destra (preferenziale per i paesi in cui si scrive, e quindi si legge, in analoga direzione);
  • Panoramica a sinistra, che va da sinistra verso destra (preferenziale per arabi, israeliani e altri popoli che scrivono da destra a sinistra).
  • Panoramica verticale (o Tilt), la telecamera ruota sul proprio asse verso l’alto o verso il basso.
  • Panoramica in alto, o Tilt-up, va dal basso verso l’alto;
  • Panoramica in basso, o Tilt-down, va dall’alto verso il basso.

d) Movimenti del supporto

  • Soggettiva: la macchina da presa, posta sulla spalla dell’operatore o su un’intelaiatura di varia complessità tecnica (come la steady-cam, la telecamera che assorbe i movimenti), avanza o indietreggia sulla scena seguendo l’azione come se fosse lo stesso spettatore a poterla osservare spostandosi dietro ad essa.
  • Carrello in avanti o indietro: la macchina da presa si muove su binari per seguire l’azione nel suo svolgimento.
  • Camera-car: la telecamera si muove su un’automobile o su altro mezzo analogo.
  • Dolly: la macchina da presa e’ montata su un braccio idraulico in grado di alzarsi, di abbassarsi e di ruotare sul proprio asse con fluidità, e a sua volta posto su un carrello con ruote capace di spostarsi in tutte le direzioni. Oltre ai movimenti in avanti e indietro e laterali, riesce a sviluppare un movimento in alto, in basso e diagonali.
  • Gru a motore: la macchina da presa è in cima ad un lungo braccio di gru, mosso da un motore in varie direzioni e montato spesso su un carrello.

A.5) Significato dei movimenti

Da un punto di vista del linguaggio, ciascun movimento conferisce un significato specifico alla ripresa. Quando adoperiamo un movimento, dunque, questo condiziona in modo diretto e preciso ciò che vogliamo esprimere nel messaggio audiovisivo. Non è, perciò, corretto usarli con puro valore descrittivo, per rappresentare un fatto in modo generico o per occupare un certo tempo necessario a leggere un pezzo di testo, ovvero per allungare un’immagine in modo da poter parlarci su.

  • Panoramica a destra o sinistra/in alto o in basso: serve a portare l’inquadratura da un soggetto all’altro, a scoprire una parte di scena o di ambiente esclusa dall’inquadratura precedente, a descrivere un soggetto, uno scenario o un ambiente. Vincola a seguire lo stesso ordine nella narrazione.
  • Zoom in avanti o zoom a chiudere o a stringere: serve a portare l’attenzione su un singolo elemento dell’inquadratura, escludendo tutto quello che c’è intorno (es. identificare fra più oggetti l’arma del delitto). Si effettua stringendo progressivamente l’inquadratura in un tempo proporzionato al ritmo della narrazione (da 3 a 7 secondi in un servizio di 70 secondi; anche 30 in un film o in un documentario di un’ora)
  • Zoom indietro o zoom ad aprire o ad allargare: serve a scoprire, rivelare il contesto in cui si trova il soggetto di un’inquadratura stretta (es. dalle scarpe dell’assassino alla scena del delitto). Si effettua allargando progressivamente l’inquadratura in un tempo proporzionato al ritmo della narrazione.
  • Carrello in avanti o indietro: ha più o meno lo stesso valore dello zoom, ma ha un significato più intenso e maggiori sfumature espressive. Per comprendere le differenze, si dice che mentre lo zoom porta l’oggetto, la situazione allo spettatore, il carrello porta lo spettatore nella situazione.
  • Dolly e gru: consentono di far muovere lo spettatore in una scena da varie prospettive e angoli di osservazione.

A.6) Il codice delle riprese

Il significato espresso da una ripresa diventa, dunque, progressivamente di complessità maggiore secondo il modo via via più articolato in cui gli elementi e i movimenti sono combinati fra loro.

1) La ripresa semplice

Il livello di base è quello dell’inquadratura fissa in cui la telecamera, a spalla o su supporto, resta ferma sul campo visivo prescelto. A muoversi è il soggetto, con un’azione di tipo semplice. Dunque:

  • Nessun movimento di ottica;
  • Nessun movimento della telecamera;
  • Nessun movimento di supporto;
  • Un movimento semplice del soggetto.

2) La ripresa complessa

Quando al movimento semplice di uno o più soggetti si aggiunge un movimento di ottica e/o della telecamera, la ripresa diventa complessa. Una panoramica orizzontale o verticale, un misto delle due, uno zoom unito magari ad una panoramica, il movimento del soggetto unito ad una panoramica, danno luogo ad una ripresa complessa. E’ necessario che la partenza e la fine della ripresa siano statiche, un’inquadratura fissa, in modo da aprire e concludere con un senso di stabilità che consente di darle un senso definito. Dunque:

  • Un movimento di ottica;
  • Un movimento della telecamera;
  • Nessun movimento di supporto;
  • Un movimento semplice del soggetto.

3) La ripresa in evoluzione (piano-sequenza)

E’ forse il tipo più difficile di ripresa. Rispetto alla ripresa complessa, si aggiunge un movimento complicato di più soggetti e un movimento del supporto della telecamera. Si tratta, quindi, di una successione di vari movimenti che seguono l’azione dei soggetti per un periodo di tempo rilevante. Deve iniziare e concludersi con un’inquadratura fissa e la tecnica per legare i vari movimenti deve consentire un risultato che non comprometta l’impatto visivo. In sostanza, lo spettatore non deve rendersi conto, non deve notare cosa sta facendo la telecamera. Un buon piano-sequenza funziona da solo, così come è stato realizzato e non ha bisogno di essere montato. Dunque:

  • Movimenti di ottica;
  • Movimenti della telecamera;
  • Movimenti del supporto;
  • Movimento complicato dei soggetti.

B) Immagini di cronaca e immagini di archivio

La seconda distinzione generale è fra immagini di cronaca e immagini di archivio.

-Le immagini di cronaca sono quelle che si riferiscono ai fatti e ai personaggi protagonisti delle notizie che si devono raccontare. Sono le immagini dell’attualità, riprese dal nostro cameraman, oppure da quello di un’altra televisione o di un’agenzia o da chiunque si trovasse sul posto durante il fatto. Immagini, dunque, che abbiamo direttamente a disposizione, oppure che sono inviate sui canali internazionali in abbonamento, o che acquistiamo da chiunque ne disponga. Qualsiasi immagine è buona, perché sia più vicina possibile all'avvenimento.

-Le immagini di archivio sono quelle dei personaggi o dei luoghi di cui si deve parlare, ma riprese nel passato, in altre circostanze, e conservate in videoteca per essere riutilizzate. Le immagini di archivio possono essere adoperate, fondamentalmente, in due circostanze: quando mancano immagini di cronaca o quando si deve raccontare qualcosa avvenuto nel passato.

a) per sopperire alla mancanza di immagini di cronaca, cioè per sostituire con valore generico ed esemplificativo le immagini dirette dell’avvenimento attuale che non sono state girate o non sono reperibili. Se, per esempio, non si dispone della dichiarazione fatta oggi da un personaggio, si riferirà ciò che egli ha detto utilizzando una sua immagine quanto più recente è possibile, curando di non cadere in effetti ridicoli, come mostrare una persona con cappotto e sciarpa in pieno agosto, oppure mostrarlo sorridente se è protagonista di una disgrazia.

E così, adopereremo le immagini di un determinato aereo in volo, quando quel modello sarà stato protagonista di un disastro di cui manca ancora la documentazione, o le scene di vita nei Territori occupati quando dovremo descrivere i contenuti di un accordo appena raggiunto. In tutti questi casi, il rapporto generico delle immagini con l’avvenimento di cui si parla dovrà essere sottolineato da un’indicazione scritta come “archivio” o “repertorio” (anche se questa seconda espressione, adoperata dalla Rai, ha un senso più negativo, non di immagini preziose conservate, ma di immagini consunte, usate e riusate ad ogni occasione).

b) per il loro valore storico, come citazione di un fatto del passato che torna di attualità o ha rilevanza per una notizia che si deve raccontare. In questo caso il rapporto con il testo sarà molto più specifico e andrà chiarito anche con molta precisione l’evento specifico al quale le immagini si riferiscono. Per rimanere in tema di Medio Oriente, se rispetto ad un nuovo accordo di pace, si fa riferimento ad un precedente passaggio del processo di pace. O, se, per descrivere la reazione di Israele, si mostrano una serie di attentati degli ultimi tempi.

Mentre quando le immagini di archivio sostituiscono quelle di cronaca si ha comunque un’impressione di povertà e di debolezza del messaggio, quando sono utilizzate per il loro valore storico, al contrario, l’effetto è di ricchezza e di efficacia.

B.1 Le agenzie di immagini e Eurovisione (paragrafo incompleto al 7 marzo 2.000)

Nessuna televisione è in grado di seguire direttamente con i propri cameraman tutti gli avvenimenti del giorno nel proprio paese o all’estero. Per quanto si possa programmare (in una tv ben organizzata si prevede quasi il 70% dei fatti di cui si vuole dare conto), le notizie improvvise, gli sviluppi inattesi, le distanze e il numero degli avvenimenti è tale da mettere in crisi rapidamente anche un gigante dell’informazione (anche quando si programma il 70%, è fisiologico che un 20% salti travolto dall’attualità).

Non resta, dunque, altra strada che scambiare le immagini fra emittenti o acquistarle da chiunque sia in grado di fornirle, videoamatori occasionali o professionisti, oppure da organizzazioni nate proprio per raccogliere e vendere coperture televisive dell’informazione: le agenzie.

Il principale scambio di immagini al mondo è costituito dall’Eurovisione, l’organizzazione delle tv europee nato proprio per ridurre i costi e consentire telegiornali più ricchi di immagini.

Con sede a Ginevra, Eurovisione organizza l’invio continuo di immagini su un circuito ricevuto da tutte le emittenti affiliate. Ciascuna emissione ha una durata che va da pochi minuti a oltre un’ora ed è accompagnata da un servizio di agenzie, originariamente di telex, con il quale sono diffuse tutte le informazioni necessarie a comprendere a cosa si riferiscono le immagini, chi sono i personaggi raffigurati e come si è svolta la storia. Gli orari sono espressi esclusivamente in Gmt per consentire a tutti di avere un punto di riferimento.

Le emissioni di Eurovisione più importanti per i tg sono:

  • Evn M (dove Evn sta per Eurovision news e M sta per morning) alle 5.30 del mattino (4.30 Gmt) e per circa 25-30 minuti è il primo sguardo sugli avvenimenti del mondo, soprattutto dei paesi dove, per il fuso orario, la notte è appena calata o il giorno è già avanti.
  • Evn Y dalle 10.30 (9.30 Gmt) e per circa 25-30 minuti, contiene i principali fatti europei.
  • Evn 0 dalle 12,00 (11.00 Gmt) e per circa 25-30 minuti, è l’aggiornamento finale prima dei telegiornali principali, quelli delle 13.00.
  • Evn W dalle 15.15 (14.15 Gmt) e per 20-25 minuti, originariamente dedicata agli avvenimenti dell’Est, dal mondo sovietico, ora genericamente composta da storie di un certo rilievo, europee o di qualsiasi altra origine.
  • Evn 1 dalle 17.00 (16.00 Gmt) e per 25-30 minuti, è l’emissione fondamentale per i tg della sera (le 18 in Gran Bretagna, le 20 in Francia, Italia, Germania e altri paesi europei). Ha i principali avvenimenti delle ultime ore.
  • Evn 2 dalle 18.30 (17.30 Gmt) e per 10-15 minuti, è ancora oggi l’ultimo aggiornamento per i tg della sera, spesso brevissimo o, addirittura, soppresso.

C) Immagini grafiche, animazioni, realtà virtuale

La grafica è una delle più grandi risorse in tv per rappresentare cose astratte o di cui non esistono immagini, per visualizzare situazioni complesse e che le stesse immagini non sono in grado di rendere opportunamente. Anche qui si può distinguere fra immagini fisse e in movimento che, in questo caso, chiameremo cartelli grafici e animazioni.

Una cartina geografica è senz’altro il miglior modo per localizzare un avvenimento, per esempio un aereo che è precipitato. Se c’è un po’ di tempo a disposizione prima della messa in onda, il grafico avrà modo di ricostruire con un tratteggiato il tragitto del volo dalla città di origine fino a quella di destinazione e di indicare il punto in cui volo si è interrotto.

In una successiva edizione, la dinamica dell’incidente diventerà un’animazione sulla cartina, sarà cioè aggiunto il movimento. E’ solo questione di tempo a disposizione e di apparecchiature tecniche, oltre che di abilità del grafico e di organizzazione del lavoro.

Fondamentale è il briefing, il contatto spesso concitato e sintetico con il quale il giornalista, o chi per lui, presenta la richiesta al reparto grafico. Dal modo in cui le informazioni e le istruzioni sono date, dalla conoscenza che il giornalista ha dei mezzi a disposizione e dei tempi di esecuzione, dipende la riuscita della comunicazione. Una regola è fondamentale: bisogna presentare una richiesta, corredata di tutte le informazioni che consentano al disegnatore di sviluppare l’idea grafica, non bisogna fornire la soluzione. Anche se l’informativa andrà discussa verbalmente, è sempre utile mettere per iscritto la richiesta. Il disegnatore avrà così un punto di riferimento per seguire le istruzioni del giornalista.

L’evoluzione del computer ha inciso notevolmente sull’uso della grafica, sia a due, sia a tre dimensioni, rendendo sempre più agevole inserire scritte e animazioni e ricostruire situazioni progressivamente più articolate.

Altro passaggio decisivo è la possibilità dell’uso della realtà virtuale. La ricostruzione nello spazio artificiale del computer di vicende reali, di informazione, può lasciare molti perplessi. Si sono aperte discussioni e polemiche sull’uso della finzione (e anche della fiction) per rappresentare la vita reale e, fatto più delicato, le vicende di cronaca. Ma, per quanto a noi interessa, e fatto salvo il dovere di approfondire opportunamente questo tema, qualsiasi rappresentazione della realtà si ottiene tramite manipolazione e grazie all’uso di un linguaggio. Importante è padroneggiare il processo di comunicazione in modo che tutto avvenga in modo corretto. Non cambia molto se si distorce la realtà spacciando immagini di archivio per immagini di cronaca oppure falsando gli avvenimenti con la realtà virtuale. Al contrario, in molti casi, l’uso della realtà virtuale permetterà di rappresentare in modo sintetico ed efficace situazioni e avvenimenti dei quali non esistono documentazioni filmate o che le immagini non consentono di comprendere adeguatamente.

D) Disegni e tavole

All’estremo opposto della realtà virtuale, c’è il capitolo disegni e tavole, cioè illustrazione delle notizie con l’arte pittorica. Si pensi ai processi penali nei quali spesso, soprattutto nei paesi anglosassoni, è vietato fare riprese per non alterare gli equilibri giuridici ed emozionali del dibattimento. Un disegnatore presente in aula ha un impatto molto minore di una telecamera. Le fasi del processo sono rappresentate con tavole a colori realizzate con particolari accorgimenti e con dimensioni tali da poter poi essere agevolmente riprese dalla telecamera della truka (l’apparecchio che automatizza una serie di movimenti di macchina molto precisi anche a distanze ridotte, usato per filmare oggetti, grafici, giornali e libri).

In Italia questo strumento è stato usato molto raramente e mancano artisti in grado di realizzare illustrazioni adatte ai telegiornali. Un tentativo è stato condotto da Telemontecarlo a Milano nel 1989, ai tempi del processo Calabresi e dei casi Enimont e Mondatori. Si cimentarono un illustratore brasiliano e un’illustratrice italiana, entrambi di buon talento e dei quali, poi, si perse traccia.

In Francia, al contrario, l’uso dei disegni e delle tavole e pressoché quotidiano, soprattutto nell’edizione del telegiornale delle 13, in servizi che raccontano fenomeni scientifici o di disimpegno.

 

I SUONI

   Per sottolineare l’importanza dell’audio nell’informazione televisiva, forse può far sorridere e sembrare esagerato il richiamo alla citazione biblica “In principio era il suono”, così come l'originale "In principio era il verbo" fu modificata sul finire degli Anni Settanta dal francese Jacques Attalì per spiegare l’interesse del potere al controllo della musica nel suo “Rumori”, primo e insuperato saggio di economia politica della musica, in Italia edito da Mazzotta, al quale si rinvia non fosse altro che per la gustosa e straordinaria interpretazione in chiave “sonora” del quadro di Bruegel “Battaglia fra Quaresima e Carnevale”.

   Ma a cos’altro appellarsi per controbilanciare l’incredibile fatto che nell’informazione televisiva italiana il suono legato a ciascuna immagine e a ciascuna scena per anni sia stato completamente cancellato e solo ora si torni, timidamente, ad adoperarlo. Da metà Anni Settanta, con ostinazione, giornalisti e montatori hanno sostenuto che gli effetti sonori rovinano e confondono la voce narrante, abbassano la comprensibilità del servizio. Ciò, ovviamente, in base ad un’errata valutazione, anche in questo caso derivante della formazione alla carta stampata o, meglio, alla mancata formazione al linguaggio audiovisivo. Non sapendo usare il suono appropriatamente, si è deciso di cancellarlo, nel migliore dei casi di relegarlo ad inoffensivo e quasi impercettibile “rumore di fondo”, brusio lontano che non infastidisse le importanti cose che si dicevano.

   Ancora oggi, gran parte dei montatori non ascoltano gli effetti presenti sulla cassetta mentre giuntano le immagini, ma li registrano alla cieca, automaticamente. Cioè: non scelgono il punto di attacco di ciascuna inquadratura anche in base ai suoni o alle voci che essa contiene e a ciò che questi comunicano. “Ci sono, ci sono gli effetti”, rispondono innervositi i montatori se qualcuno chiede loro di renderli ascoltabili in fase di montaggio.

   Questa “neutralizzazione sonora”, che sa tanto dell’ambiente asettico e distante nel quale il potere ama collocare la propria voce ufficiale che racconta al popolo la storia ufficiale, è stata portata avanti non solo non utilizzando affatto l’audio ambiente nei servizi realizzati quotidianamente per i tg, nei documentari e negli speciali. Ma, perfino abbassando gli effetti a volume quasi impercettibile nel doppiaggio di materiali acquistati all’estero, come i documentari della Bbc, dove l’audio è ben presente ed è anche utilizzato appropriatamente tutte le volte che può rendere più efficace la comunicazione.

   Non a caso, in inglese la colonna audio delle immagini è definita natural sound, suono naturale, cioè che si trova in natura ed è naturale che vi sia.

   D’altro canto, sacrificando l’audio si è dato un calcio ad uno dei principi basilari della scrittura, molto bene enunciato da Vincenzo Cerami: “Chi scrive dovrebbe da un lato avere una profonda conoscenza e coscienza dei diversi linguaggi e dall’altro non dimenticare mai di evocare le dimensioni che ogni linguaggio costituzionalmente esclude. Egli deve “far vedere” con la radio; “far udire” con il cinema; “far udire e far vedere” con la letteratura…”

   Stesso concetto ribadisce il corrispondente della Bbc David Willey quando dice che per rendere efficace il proprio messaggio “alla radio bisogna evocare immagini e alla televisione bisogna far sentire i suoni”.

   Cosa vuol dire questo rispetto al linguaggio audiovisivo applicato all’informazione e, in particolare, ai servizi da telegiornale, reportage e documentari? Diciamo che l’uso del suono si può dividere in almeno tre grandi sezioni: la prima riguarda il suono come sottofondo, la seconda e la terza il suono usato in primo piano. In realtà, è esattamente il contrario, il suono è un elemento decisivo per costruire il messaggio audiovisivo. Sempre che non sia utilizzato a casaccio e come elemento marginale.

1)Ogni immagine ha un suo suono naturale e deve conservarlo. Non si è mai vista una scena senza suono, perfino nei sogni ci sono i suoni della realtà. Per quanto una scena possa essere idilliaca, come una tranquilla prateria, un leggero fruscio c'è sempre e va mantenuto. Ogni immagine montata deve conservare il proprio natural sound e questo si deve sentire distintamente leggermente al di sotto della voce narrante. Anzi, tanto più la voce è immersa nei suoni, tanto più il giornalista sembrerà presente sul luogo del fatto che racconta. In sostanza, risulterà più credibile.

   Al contrario, la voce che parla in uno spazio silenzioso, asettico, dove le immagini non producono rumori, tende ad essere sinonimo di ufficialità, si trasforma in voce del potere, proprio come gli speaker di regime o della prima televisione italiana. Non raccontano la realtà, ma l’idea della realtà filtrata dal potere. Insomma, è un controsenso che dopo essersi ribellati negli Anni Sessanta e Settanta ai tg e ai giornali radio letti da speaker professionisti, i giornalisti riproducano –e in peggio- lo stesso clima di ufficialità del messaggio.

    Da un punta di visto tecnico, il livello ottimale degli effetti rispetto alla voce è indicato tra il 30 e il 40 per cento della scala che serve a misurare il volume e sulla quale i picchi della voce rappresenteranno il cento per cento. Se, però, il suono è costituito da una o più persone che parlano, ovviamente il livello degli effetti dovrà essere più basso, in modo che la voce narrante non si confonda con le voci di fondo, altrimenti si creerebbe un’interferenza inaccettabile: bisogna ricordare che l’orecchio umano ha la possibilità di ascolto selettivo, per cui riesce a seguire un secondo discorso, anche se a volume più basso, come si suol dire “a mezz’orecchio”.

Ma se si sente rumore di traffico, la sirena di un’autoambulanza o il brusìo di una sala piena di gente, il suono va usato in tutta la propria forza, va tenuto costantemente sulle immagini, anche mentre il giornalista parla. Se il risultato è inappropriato, se si ha la sensazione di distrazione e di fra testo e scena rappresentata, allora vuol dire che le immagini, e quindi i suoni, sono state scelte a sproposito e vanno cambiate. Oppure, più probabilmente, che il testo è scritto senza tener conto della parte audiovisiva e deve essere riscritto, tagliato o eliminato.

2)Il suono serve a segnalare i cambiamenti di situazione e di ambiente. Se dal brusìo di una sala si passa ad una situazione in esterno, per esempio ad una via trafficata, il giornalista farà bene a lasciare una pausa di almeno un secondo nella lettura del testo, per far ascoltare il suono dell'ambiente esterno in coincidenza con il cambio di immagine (si può adoperare anche un leggero anticipo del suono rispetto all’immagine, ma stando attenti a non cadere in effetti cinematografici), possibilmente con livello pieno, pari cioè a quello della voce. Questo aiuterà lo spettatore a passare rapidamente da una situazione all'altra.

   I pezzi televisivi sono realizzati per giustapposizione di scene diverse, la scrittura è a blocchi e si salta continuamente da un punto all’altro. E’ anche questa caratteristica a dare al linguaggio audiovisivo la possibilità di comprimere grandi quantità di informazioni in spazi e tempi ristrettissimi. Ma, per dare allo spettatore la possibilità di seguire, di percepire come un tutto unico e fluido il racconto, è necessario prevedere e determinare i tempi di reazione. Il suono aiuta ad avere tempi di reazione estremamente rapidi, a passare fisicamente, analogicamente, secondo modalità non verbali da una situazione all’altra e ad esserne immediatamente, emotivamente coinvolti, come se le si stesse vivendo.

   Questo impatto emotivo, come vedremo meglio affrontando la costruzione del servizio da tg, è uno dei più grandi pregi e punti di forza del suono. E’ ciò che trasforma il video di un avvenimento in un pezzo di vita vissuta, che avvicina lo spettatore all’esperienza diretta della realtà.

   Se la prima immagine è di un appartamento e poi all'improvviso si sente il rumore del traffico e si passa ad immagini d’auto in una strada affollata, mentalmente si è immediatamente portati fuori della situazione n.1 e si entra nella situazione n.2. E fisicamente si è coinvolti nell’esperienza dell’attraversamento metropolitano. 

   Se il suono serve a segnalare i cambi di situazione e di ambiente, occorre che sia sempre presente, che venga in primo piano in alcuni momenti, non solo all’interno ma anche all'inizio di un servizio.  L'immagine iniziale lasciata per qualche secondo con il suo suono naturale in primo piano dà modo di entrare in una situazione reale, così che immediatamente lo spettatore, che fino a quel momento stava seguendo ciò che diceva il conduttore, è attratto e proiettato nella nuova situazione. Grazie a questo tempo di impatto con la situazione, non c'è neanche bisogno di dire allo spettatore “quello che stai vedendo è questo o quello”. Si crea l’impatto diretto, come se lui stesso fosse dentro la scena. Non c'è bisogno di annunciare nulla, al contrario di quanto suggerisce di fare la cultura della carta stampata. Il giornalista della tv può trascinare direttamente lo spettatore nella notizia, utilizzando quello che i pubblicitari chiamano catch-time, il tempo necessario a coinvolgere, ad afferrare l’attenzione. Un lavoro di impatto svolto, appunto, dal suono in veste di ambientazione.

3)Il suono, usato in primo piano, comunica informazioni e rappresenta la realtà. Ma, il suono può fare molto di più, se adoperato come elemento autonomo che conquista spazio all’interno del servizio ed è fatto ascoltare in primo piano. In pochi secondi, può comunicare informazioni e descrivere situazioni che occorrerebbe molto tempo per raccontare a parole o anche con le immagini. E nel fare questo, ancora una volta, crea nello spettatore una sensazione di rapporto immediato con la realtà, di assistere ad un fatto in presa diretta.

C'è un esempio molto eloquente. Nel 1987, quando il Boeing della PanAm esplose nei cieli di Lockerbi, in Scozia, sui canali internazionali fu trasmesso un servizio sulle reazioni dei famigliari delle vittime, in particolare dei genitori di un gruppo di studenti americani che attendevano i figli all'aeroporto La Guardia di New York, scalo di destinazione dell’aereo. Un operatore riprese una madre che, alla notizia della sciagura, crollò in ginocchio emettendo un urlo agghiacciante di disperazione. Far ascoltare per due secondi quell'urlo, servì a raccontare la situazione molto più di tutti i fiumi d’inchiostro che si versarono in quell’occasione. E' talmente forte, quel suono, quella situazione, che c'è perfino da chiedersi se sia giusto usarla o meno. Ha una efficacia emotiva violenta che va giustificata. Quel grido di due secondi diventò negli Stati Uniti il simbolo dell’America ferita, del bisogno di una risposta all’attentato, se non di vendetta, che fino al 1999 ci ha accompagnato con la ricerca dei responsabili e il lungo braccio di ferro di Stati Uniti e Gran Bretagna con la Libia per ottenerne la consegna e la condanna da parte di un tribunale internazionale. Un giornale, per raccontare la stessa cosa, ha bisogno di un pezzo di almeno 60 righe. E non è detto che ci riesca. Ovviamente, è scontato che non bisogna esagerare perché ciò che vogliamo rappresentare è pur sempre la realtà, e non far colpo o "sceneggiare" la notizia oltre il lecito (i servizi americani ci appaiono eccessivamente spettacolarizzanti, cosa che in Italia irrita e fa perdere di credibilità. Gli italiani non digeriscono le trovate scenografiche, a differenza del pubblico americano).

   Le situazione sonore adatte a raccontare o sintetizzare intere parti della vicenda, devono essere accuratamente individuate già mentre l’operatore gira. Oppure, in fase di revisione e di scalettatura del materiale, prima di scrivere la storia. Il testo deve preparare e integrare l’azione audiovisiva che si fa ascoltare in primo piano. Nel leggere il testo si lasceranno delle pause più o meno lunghe, secondo i calcoli effettuati, che il montatore potrà poi allungare o restringere quando monterà le immagini con il sonoro previsto in primo piano.  

  (continua)

 

 


 
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