STAND-UP
Come, quando, perché
(teoria e istruzioni per l’uso)
PARTE GENERALE
1) COS’E’
A scuola, all’università, durante il servizio
militare, partecipando ad una conferenza, ad un’assemblea o a una
riunione di condominio, quando viene il momento di dire la propria,
ci si alza in piedi e si parla rivolgendosi all’interlocutore. In
piedi, stand up appunto, nell’atteggiamento di chi
ha preso la parola.
In tv, ad un certo punto del suo servizio, il
giornalista recita una piccola parte, in piedi davanti alla
telecamera, guardando dritto nell’obiettivo. Entra in campo
per dire alcune cose. Si introduce in prima persona nell’azione
della storia che sta raccontando. Da voce fuori campo,
filo conduttore alle immagini e ai suoni dell’avvenimento, il
cronista si trasforma in presenza fisica, prende il sopravvento su
tutti gli altri elementi. Per una durata, in genere compresa tra i
sette e i venti secondi, è in primo piano sulla scena
del fatto.
Per questa natura di comparsata, i francesi
preferiscono un termine meno da accademia militare americana (l’effetto
“Sissignore-signor-capitano” di film come Full metal jacket)
e più da accademia d’arte drammatica, definendo lo stand up
plateau, cioè scena o palcoscenico. Siparietto,
potremmo dire in Italia, con riferimento al breve numero d’intermezzo
fatto durante il cambio delle scene nella rivista. Se non fosse che
proprio questa definizione mette l’accento su una delle più
deleterie patologie dello stand up, purtroppo assai diffusa
in Italia: un’esibizione gratuita, uno spettacolino fuori
programma del cronista. Per non incoraggiare neppure
involontariamente questa tendenza, è allora preferibile l’altra
definizione che usano i francesi, face camera, faccia
rivolta alla telecamera, analoga a quella inglese, piece to
camera, pezzo verso la telecamera.
Pezzo in macchina,
potremmo tradurre in italiano, senza dover ricorrere ad altri
termini stranieri come l’orrido “spiccettino”, cioè “discorsetto”,
dall’inglese speech, molto in uso fra i cameraman. Oltre ad essere
fuorviante rispetto al contenuto e al tono che lo stand up è
bene abbia, “spiccettino” contiene anche un richiamo
controproducente all’idea di “spicciarsi”. In molti casi
bisognerà fare in fretta se non addirittura al volo. Ma, è bene
chiarire subito che se vogliamo fare un pezzo in macchina,
dobbiamo essere disposti a dedicargli tutto il tempo e la cura
possibili. Perché in gioco non c’è solo la buona riuscita del
pezzo, ma anche l’immagine personale del cronista e quella dell’intera
emittente.
Il punto decisivo da cui partire, e che
attraverserà l’intero il percorso che faremo assieme, è che il
giornalista non può mai, se non in casi eccezionali, trasformarsi
in protagonista o, peggio, in show man. Anche quando conquista il
campo, deve restare testimone e narratore. Solo così non tradisce
quell’imparzialità, quella “terzietà” che, esattamente come
per i magistrati, sono tra le fonti principali della credibilità.
Uno dei compiti dello stand up è proprio quello di conferire
maggiore autorevolezza e attendibilità al reporter e alla sua
testata. Chi è stato sul posto ha informazioni di prima mano, ha
visto di persona.
Ma, se per imperizia, mancanza di tecnica,
sbadataggine o fretta, il cronista da con lo stand up un’impressione
di sciatteria e di imprecisione, allora raggiunge il risultato
opposto. Anziché acquistare credibilità, la perde e la fa perdere
alla propria emittente. In questo caso, il danno di immagine e
professionale è tanto grande che senz’altro è preferibile
eliminare lo stand up.
In Italia è accaduto proprio questo. Vista la
diffusa difficoltà dei giornalisti e dei cameraman a familiarizzare
con il pezzo in macchina, a comprenderne le potenzialità e
ad utilizzarlo correttamente, numerosi responsabili dei telegiornali
periodicamente ne sconsigliano, quando non ne impediscono
completamente l’uso. E in ciò non incontrano difficoltà o
resistenze eccessive. Nell’imbarazzo del come fare e del trovarsi
buffi o inadeguati, e vivendo spesso la cosa come una semplice
necessità narcisistica, esposta per di più alle critiche al
vetriolo dei colleghi della carta stampata e di quelli che in tv
lavorano dietro le quinte (“non ha perso l’occasione di mostrare
la faccetta a mammà e alla fidanzata”), molti giornalisti
preferiscono non cimentarsi negli stand up, se non quando
siano costretti da un collegamento in diretta (e qui cominciano
altri dolori). I cameraman li aiutano in questo, ben felici di
liberarsi di ciò che per loro costituisce un fastidioso aggravio di
lavoro, con gratificazioni professionali nulle, e vere e proprie
crisi di rigetto quando il rapporto con il giornalista non è dei
migliori.
In questo modo, però, per ragioni assolutamente
banali, si riducono, e non di poco, le possibilità espressive e
informative dei pezzi. E si impoveriscono l’immagine e la
credibilità del giornalista e della rete. “Nessun reporter è
verosimile che compia seri progressi nella sua carriera senza
imparare a fondo questo elemento”, sostiene senza mezzi termini
Ivor Yorke nel suo “Basic Tv Reporting”, una sorta di “help
manual”, prontuario di salvataggio, per i giornalisti britannici
che passano da altri media alla televisione.
Lo stand up, il piccolo monologo del
giornalista rivolto al pubblico, caratterizzandosi come elemento di
forte rottura nel ritmo e nel naturale sviluppo dei servizi del
telegiornale, costituisce una risorsa preziosa e di impatto. Se
realizzata e usata con abilità, consente di dare efficacemente una
serie di informazioni e di risolvere un certo numero di situazioni
narrative.
Per comprenderne la forza, in un parallelo
cinematografico, si può pensare all’uso dirompente che Hitchcock
faceva della propria presenza nel film. Con la differenza che il
grande regista impersonava il proprio gusto per l’intreccio
diabolico degli eventi.
Il giornalista, invece, deve incarnare il gusto di
raccontare in modo attendibile gli eventi, come risultato del lavoro
di tutto il gruppo che è dietro al suo servizio e al telegiornale
intero.
Lo stand up, il pezzo in macchina del
cronista, può essere paragonato a un’arma potente, alla quale non
conviene perciò rinunciare, ma che bisogna imparare a padroneggiare
con sicurezza se non si vogliono provocare danni gravi.
Il primo passo nell’addestramento all’uso di
un’arma è definirne la funzione, a cosa serve.
2) A COSA SERVE
L’origine dello stand up, sia di quello in
diretta, sia di quello registrato e poi
mandato in onda come finta diretta oppure, più comunemente, montato
all'interno di un servizio, ha a che fare con la natura stessa e i
limiti dell’informazione televisiva.
Quando arriva una notizia di grande importanza,
una breaking news, come dicono gli americani, la prima cosa
che si fa è andare davanti ad una telecamera e raccontare cosa è
accaduto. Finché non sono disponibili le immagini o non c’è il
tempo per montarle, cioè per costruire con esse un efficace
messaggio audiovisivo, il giornalista non ha altre strade che dire
di persona il fatto qual è. Può affidare il compito a un
conduttore seduto in studio. Oppure, può ricorrere ad uno stand
up realizzato sul luogo più vicino o più pertinente alla
notizia che si riesca a raggiungere.
Immaginate che un’ora e mezza prima della messa
in onda del telegiornale, le agenzie battano la notizia di un gruppo
di italiani ucciso per rappresaglia in un paese straniero. Magari,
come spesso accade, si tratta di uno stato poco democratico, dove
quindi le telecamere hanno difficoltà a muoversi con la rapidità
cui oggi siamo abituati. Insomma, è certo che prima di alcune ore
non arriveranno immagini del fatto. Non è, poi, da escludere che in
quel paese sia notte, mentre in Italia è giorno. Così, non vi è
neppure la possibilità di chiamare al telefono l’ambasciatore o
il console italiano sul posto.
La notizia dovrà, perciò, essere data dal
conduttore, con l’ausilio di una cartina grafica e, se possibile,
di una telefonata all’Unità di crisi della Farnesina in cui la
voce del funzionario fornisca tutte le informazioni disponibili.
Insomma, si tratterà di un linguaggio radiofonico più che
televisivo, tanto che i montatori definiscono questo modo di andare
in onda “Radio a colori”.
Molto meglio, se le distanze lo consentono -ed è
il caso della Rai-, andare al volo al Ministero degli Esteri,
raccogliere le informazioni e un’intervista all’Unità di crisi
e raccontare tutto in uno stand up, registrato dal vostro
operatore davanti alla Farnesina o all’interno dell’Unità di
crisi. Basterà, poi, che un fattorino, o un membro della troupe,
riporti la cassetta in sede. Se c’è tempo, in pochi minuti un
montatore inserirà la parte migliore dell’intervista nel punto
dello stand up dove voi avrete previsto, mai in testa e,
possibilmente, neppure in coda. In questo modo, il semplice pezzo
in macchina comincia ad acquistare forma e dignità di un
servizio un po’ più elaborato.
(Nota : Per non rendere inservibile lo stand up
nel caso non vi fosse tempo per inserire l’intervista a metà,
basta usare una frase che non lo bruci. Es. : “Secondo il
responsabile dell’Unità di crisi, i nostri connazionali
potrebbero esser stati scambiati per cittadini di un altro paese”.
Qui fate una breve pausa in modo che l’intervista al responsabile
dell’Unità di crisi possa essere inserita in questo punto. Poi
proseguite con altre informazioni in modo da non dare l’impressione
di un’interruzione o di un salto in caso non vi fosse tempo per
montare l’intervista. Se, al contrario, direte frasi del tipo “Ascoltiamo
cosa ci ha detto in proposito...”, oltre a perdere tempo e all’effetto
retorico, lo stand up senza intervista non può essere
mandato in onda).
Chi lavora per un’emittente fornita di buoni
mezzi e di organizzazione efficiente, con una buona dose di fortuna,
entro un’ora potrà contare su un’unità di diretta sul posto e
andare in onda dal vivo.
Questa è la natura originaria sia dello stand
up per il collegamento in diretta, sia di quello registrato,
fatto cioè per essere inserito in un servizio chiuso. Nonostante
queste due categorie fondamentali di stand up abbiano
caratteristiche, sviluppi e utilizzazioni molto diverse una dall’altra,
e perciò saranno trattate separatamente, sono accomunate dalla
stessa funzione di base, primordiale e grezza si può dire, che
resta anche la principale, quella a cui far riferimento per essere
certi di aver impostato bene il lavoro. Entrambe nascono dall’esigenza
di dare informazioni senza poter mostrare la realtà di cui si
parla. Insomma, servono in primo luogo a superare il più grave
handicap che possa capitare in televisione. Dover dire senza
immagini.
I due tipi di stand up condividono anche
una funzione negativa, assolutamente da evitare: non devono essere
usati per dare la notizia, intesa come lead, lancio della storia. Il
perché è molto semplice. Sia in una diretta, sia in un pezzo
chiuso, quando il reporter arriva in campo è stato preceduto da
alcuni passaggi nei quali, inevitabilmente, la notizia è già stata
data. Il collegamento o il servizio sono sempre lanciati dal
conduttore, che ha appunto la funzione di annunciare qual è la
storia di cui si sta per parlare diffusamente.
Perché mai, dopo che questo signore ha appena
detto “E’ accaduto questo, vediamo di cosa si tratta”,
dovrebbe comparire un altro signore per ripetere “E’ accaduto
questo, i fatti sono andati così e cosà” ? Ne riparleremo
diffusamente quando tratteremo il modo in cui va fatto l’attacco
del servizio e perché il pezzo in macchina registrato non
vada mai messo all’inizio. Ma già ora si può anticipare che, a
parte la ripetizione della notizia che è già nel lancio del
conduttore e, magari, anche nei titoli, non si comprende perché,
disponendo delle immagini dell’avvenimento, si dovrebbe cominciare
con la faccia del giornalista. Cioè, con lo strumento che serve
come estremo rimedio quando non possiamo far vedere ciò di cui
dobbiamo parlare.
Premesse le funzioni positiva e negativa comuni,
da questo momento le strade dei due tipi di stand up, quello in diretta
e quello registrato, si dividono. Analizzeremo
innanzitutto il secondo, il meno conosciuto e praticato, quello che
il giornalista dovrebbe essere in grado di inserire efficacemente in
ogni servizio girato sul campo, che cioè non sia fatto in
redazione. Gran parte delle indicazioni generali varranno anche per
il primo, attualmente il più in voga nel nostro giornalismo, del
quale parleremo nella seconda parte del manuale.
LO STAND UP REGISTRATO
1) LE FUNZIONI
Le funzioni del pezzo in macchina registrato
sono fondamentalmente tre:
Parlare di qualcosa senza avere le immagini ;
Legare due parti diverse di un servizio ;
Testimoniare la presenza dell’emittente e del
giornalista sul posto.
Ovviamente, i casi in cui lo stand up
riesca a ricoprire tutt’e tre queste funzioni, il risultato sarà
particolarmente buono.
a) Dire senza immagini.
Cercherò qui di esprimere in modo semplice, anche
se, conseguentemente, un tantino impreciso, alcuni presupposti
teorici necessari a comprendere il gioco di equilibrismo che è
dietro ad un buon stand up.
Il modo più efficace di dare notizie in tv è l’uso
sofisticato del linguaggio audiovisivo, un’interazione
strettissima di immagini, suoni e parole che consente, seguendo una
serie di regole, di comunicare in un tempo molto breve una elevata
quantità di informazioni. Di raccontare in poco più di un minuto
una storia con numerosi passaggi di tempo e di ambiente, dando un’impressione
di vissuto molto intenso, ma senza che lo spettatore si stanchi,
cioè senza che soffra per la durata o per l’intensità del
messaggio.
L’equazione è : se la parola comunica 24 bit al
secondo (l’unità di misura dell’informazione), i suoni
centinaia di bit e le immagini migliaia di bit, un messaggio
audiovisivo corretto comunicherà un numero di bit al secondo
sensibilmente superiore alla semplice somma di bit-parola, più
bit-suoni, più bit-immagini. Se ciò è vero, vuol dire che tutte
le volte in cui rinunciamo ad adoperare uno stretto legame tra
immagine, suoni e parole, abbassiamo drasticamente la possibilità
di comunicare.
Ma, cosa ancor peggiore è se i tre elementi
entrano in conflitto fra loro. Cioè, se la parola esprime una cosa,
mentre immagini e suoni ne raccontano un’altra. Allora, si ha un
fenomeno di interferenza, per cui lo spettatore sarà portato a
seguire o il testo o immagini e suoni, e mentre tenta di fare
questo, sarà costantemente distratto dall’una o dall’altra
cosa.
E veniamo alle conseguenze. E’ giusto concludere
che tutte le volte in cui abbiamo immagini e suoni di una
situazione, non conviene affidarci alla sola parola per raccontarla.
Cioè : perché mai fare il pezzo in macchina su un aspetto
della storia che può essere reso meglio con sintesi audiovisiva ?
E, d’altro canto, tutte le volte che non abbiamo
immagini per un aspetto della storia, perché mai tentare di
raccontarlo leggendo un testo su immagini generiche e non
strettamente pertinenti, rischiando fatalmente che lo spettatore si
distragga o pensi ad altro.
Tanto vale venire fuori in primo piano e,
guardando il pubblico negli occhi, riferirgli il fatto in estrema
sintesi. Cioè : conviene fare il pezzo in macchina su gli
aspetti della storia che è impossibile o difficile esprimere con
immagini.
Non solo. Dipendendo dalle immagini a colori e dai
suoni, la televisione è fondamentalmente il mezzo del concreto.
Tutto ciò che è astratto ha bisogno di un trattamento particolare
per poter essere rappresentato. Soprattutto nel linguaggio da
telegiornale, per il ritmo e le abitudini di ascolto, lo spazio per
l’evocazione o la rappresentazione delle idee è estremamente
limitato. E’ necessario ricorrere a espedienti che rendano
visualmente i concetti, le astrazioni o le cose non immediatamente
visibili.
Il passaggio più semplice è la traduzione delle
parole in uno stile esemplificativo e immaginifico, attraverso la
sostituzione dell’astratto con il concreto. Cioè : può essere
opportuno fare il pezzo in macchina sugli aspetti astratti
che vanno detti e non si possono, o non si ha il tempo, di trattare
televisivamente.
Legare due parti del servizio.
Proprio il linguaggio di sintesi audiovisiva, con
il suo andamento per scene, quindi diviso in blocchetti autonomi,
impone spesso bruschi passaggi di tempo, di luogo, di argomento o di
persone che possono essere ammorbiditi o risolti da uno stand up,
detto appunto di passaggio o ponte.
Tempo. In un servizio
che racconti di una dura trattativa sindacale, per esempio, dopo
aver sviluppato le fasi critiche del confronto seguendo la giornata
di incontri, si può passare alla soluzione raggiunta in serata
superando il salto di tempo con uno stand up : “La
trattativa si è bloccata per ore sul nodo degli straordinari. 40
ore forfetarie per tutti, dicevano gli industriali. Libera
contrattazione nelle unità produttive, rispondevano i sindacati. Un’ora
fa il compromesso, qui nella sede della Confindustria”. Nell’immagine
successiva, notturna, sindacalisti e industriali che escono dal
portone e spiegano l’accordo. Dalle immagini con la luce del sole,
attraverso un pezzo in macchina girato all’interno degli
uffici della Confindustria, nei corridoi o magari davanti alla porta
aperta della sala riunioni, si passa alle immagini notturne dell’uscita.
Luoghi. In un servizio
sulle lezioni amministrative, dopo aver dato conto della situazione
a Roma, si può passare a Milano con uno stand up, ambientato
al Campidoglio o nella sala stampa del Viminale : “Bisognerà
attendere domattina per sapere se Rutelli conserverà l’attuale
vantaggio che gli consentirebbe di diventare sindaco senza bisogno
di ballottaggio. Un dato che è invece già certo a Milano, dove le
operazioni di spoglio sono in fase più avanzata”. L’immagine
successiva è Palazzo Marino o, comunque, un’altra di Milano
pertinente a quello che dirà il testo.
Durante l’alluvione in Valtellina del 1987,
nello stesso pezzo si doveva parlare della situazione in alto, dove
s’era formato il lago, e a valle, dove i paesi rischiavano di
essere travolti da un’inondazione. Lo stand up funzionava
da cerniera.
E così pure durante la Guerra del Golfo, quando a
Daharan dovevamo descrivere la situazione in Iraq. A metà pezzo, si
passava a Bagdad con uno stand up dopo il quale si registrava
solo un testo che era coperto in redazione a Roma con le immagini
che arrivavano dalla capitale irachena.
Argomenti. In questi due
ultimi esempi è già insito, oltre ad un cambio di località, anche
un cambio di argomento. Un passaggio più brusco si può trovare in
un servizio che spieghi una serie di provvedimenti del governo. Per
passare dagli aumenti del gasolio alla nuova disciplina sugli esami
di maturità può essere utilizzato un pezzo in macchina. E,
così, raccontando lo scandalo sexgate che ha travolto il presidente
degli Stati Uniti, si può ad un certo punto dover virare dagli
sviluppi legali alle conseguenze sui rapporti familiari tra Bill
Clinton, la moglie e la figlia.
Con alle spalle la Casa Bianca, se il presidente e
la famiglia sono a Washington, il reporter racconterà cosa sta
accadendo : “Per la prima volta i collaboratori di Clinton non
hanno negato il malumore fra il presidente e la moglie, riferendo
che i due non pranzano assieme e conducono in pratica vite separate.
Un atteggiamento col quale, secondo molti, Hillary intende prendere
le distanze dal marito per non pregiudicarsi la carriera futura”.
In questo modo, si risolve anche il problema di non avere le
immagini dei pranzi separati e delle attività private della coppia
presidenziale. Se, poi, il presidente e la First Lady fossero
altrove o in due posti diversi, lo stand up risolverebbe
anche il problema di superare il salto di luoghi.
Personaggi. Nei tremendi
pastoni politici italiani, si fa abuso dello pezzo in macchina
per passare dai rappresentanti della maggioranza a quelli dell’opposizione,
oppure da un partito all’altro. Magari, girando la scena senza
faretto nella penombra di un corridoio della Camera dei deputati, o,
peggio, alla luce del sole davanti a Montecitorio, mentre le
immagini dei politici saranno tutte riprese in interni. Mancando
totalmente l’ambientazione, lo stand up fa da meccanico
raccordo tra facce che, nella maggioranza dei casi, non parlano
neppure in prima persona, ma muovono la bocca a pesce mentre il
giornalista spiega cosa hanno detto.
Più opportunamente, la funzione dello stand up,
in questo caso, è sì quella di passare da un personaggio all’altro,
ma spostandosi anche tra gli ambienti nei quali l’uno e l’altro
si muovono. Per tornare alla politica americana, pensate a un
servizio sulla giornata di campagna elettorale dei due candidati
alla Casa Bianca. Oppure,
immaginate un pezzo sul confronto a distanza sull’embargo
fra il vice primo ministro irakeno Tarek Aziz e il Segretario di
stato americano, il primo in visita in Italia, il secondo impegnato
in un giro di capitali arabe.
Testimonianza.
In greco antico, il verbo orao, cioè vedere,
all’indicativo aoristo (un tempo in linea di massima
corrispondente al passato remoto italiano) era usato come presente
del verbo sapere, conoscere. E così, per dire “io
so” si poteva usare oida, cioè “io vidi”. Il
ragionamento dei greci è che chi ha visto, sa, conosce. Se un
giornalista è sul posto in cui accade un avvenimento, lo conosce
direttamente, per averlo visto. E, quindi, a rigor di logica, è
credibile.
Essere presente sui fatti principali è un punto
di forza di un telegiornale e, quindi, molte emittenti, soprattutto
straniere, impongono lo stand up ai loro reporter e inviati.
E non solo nei servizi in trasferta, ma anche in quelli cittadini.
In tempi in cui si lavora sempre più assemblando notizie e immagini
che arrivano dall’esterno dell’emittente, in gran parte sui
circuiti delle agenzie, perfino avere un giornalista al consiglio
comunale o su una rapina può costituire un punto a favore nei
confronti del pubblico.
Il giornalismo si gioca in gran parte sulla
ricerca delle fonti primarie, cioè quelle a diretto contatto con la
notizia, definite così in contrapposizione alle fonti secondarie,
quelle che ci riferiscono di un fatto per averlo saputo da altri.
Poter essere testimone diretto, trasforma il
reporter in una fonte particolarmente attendibile. E, visto che la
costruzione di una storia, si gioca in gran parte su quanti
protagonisti di quella vicenda si riesce a portare davanti alla
telecamera, perché diano la propria testimonianza diretta, il
giornalista presente sul campo, se da un lato è colui che ha
sentito direttamente queste persone, dall’altro diventa egli
stesso una voce da ascoltare.
Un fattore psicologico così forte, che nella
distorsione dell’informazione spettacolo, soprattutto negli Stati
Uniti, tra la metà e la fine degli Anni Ottanta ci si accorse che
ormai si inviavano i reporter sul luogo di un avvenimento solo
perché portassero a casa uno stand up, cioè la prova che c’erano
stati. Le notizie erano attinte in gran parte dalle agenzie, le
immagini e le interviste erano girate da cameraman guidati da
producer, e il giornalista era catapultato sul posto solo per far
presenza. E, appena girato un pezzo in macchina, rispedito in
redazione in modo che non rischiasse di bucare il servizio che altri
continuavano a mettere assieme per lui.
La situazione diventò tanto comica che se ne
accorse anche il pubblico. I militari americani su questa
degenerazione televisiva costruirono quel capolavoro di
disinformazione che fu la Guerra del Golfo. Immagini uguali per
tutti, girate da poche telecamere, magari militari. E ogni inviato
poteva confezionare i propri pezzi sul conflitto aggiungendo stand
up rimessi alla fantasia di ciascuno. Una duna dietro l’angolo,
un posto di controllo davanti all’albergo a cinque stelle di
Daharan (basta non inquadrarlo), la pista di decollo degli aerei.
Poi, la differenza si vide in Kuwait, quando ci si trovò davvero in
mezzo alle botte.
Celebre lo stand up con maschera antigas di
un giornalista della CNN, dietro al quale ciondolavano però persone
a viso scoperto. Il mondo rise. Il re era nudo.
E, d’altro canto, uno dei più bravi inviati
della Cbs, Bob Simon, svanì nel deserto, preso dagli iracheni,
mentre cercava di vedere qualcosa con i propri occhi. Tornò a
guerra finita, senza stand up.
Ogni volta che sono state portate a conoscenza del
pubblico i trucchi e le finzioni, gli autori hanno perso popolarità
e credibilità (da noi, invece...) E ancora oggi non essere capace
di eseguire un buon pezzo in macchina o essere poco
telegenico possono rappresentare un grave handicap in quei paesi.
Gli americani e gli inglesi dividono drasticamente le professioni
televisive in “on camera” e in “off camera”, cioè tra chi
può andare in onda e chi lavora dietro le quinte. E non c’è
raccomandazione che tenga. Non si diventa conduttore o inviato solo
per grazia di partito, come da noi (“My God, the monsters !”,
esclamava qualche anno fa un grande giornalista britannico davanti
ai tg italiani). Perché il prezzo che l’emittente paga in termini
di ascolti e di credibilità è troppo alto.
Nella funzione di “testimonianza” si può far
rientrare, dunque, anche il prestigio e la popolarità che il
giornalista acquista mostrandosi al pubblico giorno dopo giorno
dalla scena dei vari avvenimenti chiamato a seguire. Il suo volto
diventa sinonimo di una particolare personalità professionale.
La gente comune, ma anche i personaggi pubblici,
lo riconoscono e ne hanno stima. Dunque, si lasciano intervistare
con fiducia ed è più facile che si confidino con lui. E questo si
trasforma in un altro vantaggio per l’emittente.
Ma, essere sotto i riflettori, costringe il
reporter ad attenersi scrupolosamente a regole di correttezza e ad
impegnarsi sempre al meglio nel proprio lavoro, per non tradire la
fiducia della gente e non perdere di credibilità. Ancora un effetto
positivo per il telegiornale.
2) DOVE SI METTE
Quando si registra lo stand up, nella
maggior parte dei casi il giornalista ha appena abbozzato, e solo
mentalmente, la struttura del servizio. Gli avvenimenti sono spesso
ancora in corso e molte cose potrebbero cambiare. E’, dunque,
quasi impossibile o, comunque, molto limitativo, decidere già a
questo stadio del lavoro dove pezzo in macchina sarà
inserito.
Per cavarsi d’impaccio, e per non perdere tempo,
molti pensano che sia bene stabilire che lo stand up sarà
comunque l’apertura o la chiusura del pezzo, e in base a questa
scelta ne decidono il contenuto. Altri, addirittura, registrano
tutto il testo del servizio sul posto, magari a braccio, come se
fosse un lungo stand up e poi lo coprono con le immagini.
Chi sceglie la prima strada si trova imbottigliato
in un attacco o in una chiusa che, per una ragione o per l’altra,
nella maggior parte dei casi possono non avere più senso al momento
di andare in onda. Chi sceglie la seconda strada, rischia di
ritrovarsi un servizio immodificabile, superato dagli eventi (oltre
al grave inconveniente tecnico di avere su tutto il pezzo l’audio
ambiente del posto dove è stato registrato lo stand up. E’
capitato perfino di sentire il rumore del traffico parigino all’interno
dell’Assemblea Costituente)*.
La regola fondamentale è, dunque, l’elasticità,
cioè registrare lo stand up come un elemento da giocarsi in
una posizione da definire al momento di strutturare la storia. Già
pensare questo aiuta ad adoperare una serie di accorgimenti che
evitano di portarsi a casa un pezzo in macchina che scade o
diventa inservibile. Per esempio, i giornalisti americani, che
firmano in voce al termine del servizio, cioè enunciano una
formuletta che contiene il proprio nome (es. : “Bob Schiffer, Cbs
news, Washington”), quando registrano lo stand up
aggiungono sempre questa frasetta dopo aver lasciato una breve
pausa. Poi, se monteranno lo stand up al termine del
servizio, lasceranno la formuletta. Altrimenti, se lo stand up
andrà all’interno del servizio, allora la firma in voce sarà
tagliata (e riletta in coda al testo).
Anche per la posizione, come poi vedremo per la
forma e per il contenuto, esistono, però alcune regole che aiutano
ad evitare errori irreparabili o un cattivo uso del pezzo in
macchina.
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