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Teoria e tecnica della comunicazione di massa

STAND-UP
Come, quando, perché
(teoria e istruzioni per l’uso)

PARTE GENERALE

1) COS’E’

A scuola, all’università, durante il servizio militare, partecipando ad una conferenza, ad un’assemblea o a una riunione di condominio, quando viene il momento di dire la propria, ci si alza in piedi e si parla rivolgendosi all’interlocutore. In piedi, stand up appunto, nell’atteggiamento di chi ha preso la parola.

In tv, ad un certo punto del suo servizio, il giornalista recita una piccola parte, in piedi davanti alla telecamera, guardando dritto nell’obiettivo. Entra in campo per dire alcune cose. Si introduce in prima persona nell’azione della storia che sta raccontando. Da voce fuori campo, filo conduttore alle immagini e ai suoni dell’avvenimento, il cronista si trasforma in presenza fisica, prende il sopravvento su tutti gli altri elementi. Per una durata, in genere compresa tra i sette e i venti secondi, è in primo piano sulla scena del fatto.

Per questa natura di comparsata, i francesi preferiscono un termine meno da accademia militare americana (l’effetto “Sissignore-signor-capitano” di film come Full metal jacket) e più da accademia d’arte drammatica, definendo lo stand up plateau, cioè scena o palcoscenico. Siparietto, potremmo dire in Italia, con riferimento al breve numero d’intermezzo fatto durante il cambio delle scene nella rivista. Se non fosse che proprio questa definizione mette l’accento su una delle più deleterie patologie dello stand up, purtroppo assai diffusa in Italia: un’esibizione gratuita, uno spettacolino fuori programma del cronista. Per non incoraggiare neppure involontariamente questa tendenza, è allora preferibile l’altra definizione che usano i francesi, face camera, faccia rivolta alla telecamera, analoga a quella inglese, piece to camera, pezzo verso la telecamera.

Pezzo in macchina, potremmo tradurre in italiano, senza dover ricorrere ad altri termini stranieri come l’orrido “spiccettino”, cioè “discorsetto”, dall’inglese speech, molto in uso fra i cameraman. Oltre ad essere fuorviante rispetto al contenuto e al tono che lo stand up è bene abbia, “spiccettino” contiene anche un richiamo controproducente all’idea di “spicciarsi”. In molti casi bisognerà fare in fretta se non addirittura al volo. Ma, è bene chiarire subito che se vogliamo fare un pezzo in macchina, dobbiamo essere disposti a dedicargli tutto il tempo e la cura possibili. Perché in gioco non c’è solo la buona riuscita del pezzo, ma anche l’immagine personale del cronista e quella dell’intera emittente.

Il punto decisivo da cui partire, e che attraverserà l’intero il percorso che faremo assieme, è che il giornalista non può mai, se non in casi eccezionali, trasformarsi in protagonista o, peggio, in show man. Anche quando conquista il campo, deve restare testimone e narratore. Solo così non tradisce quell’imparzialità, quella “terzietà” che, esattamente come per i magistrati, sono tra le fonti principali della credibilità. Uno dei compiti dello stand up è proprio quello di conferire maggiore autorevolezza e attendibilità al reporter e alla sua testata. Chi è stato sul posto ha informazioni di prima mano, ha visto di persona.

Ma, se per imperizia, mancanza di tecnica, sbadataggine o fretta, il cronista da con lo stand up un’impressione di sciatteria e di imprecisione, allora raggiunge il risultato opposto. Anziché acquistare credibilità, la perde e la fa perdere alla propria emittente. In questo caso, il danno di immagine e professionale è tanto grande che senz’altro è preferibile eliminare lo stand up.

In Italia è accaduto proprio questo. Vista la diffusa difficoltà dei giornalisti e dei cameraman a familiarizzare con il pezzo in macchina, a comprenderne le potenzialità e ad utilizzarlo correttamente, numerosi responsabili dei telegiornali periodicamente ne sconsigliano, quando non ne impediscono completamente l’uso. E in ciò non incontrano difficoltà o resistenze eccessive. Nell’imbarazzo del come fare e del trovarsi buffi o inadeguati, e vivendo spesso la cosa come una semplice necessità narcisistica, esposta per di più alle critiche al vetriolo dei colleghi della carta stampata e di quelli che in tv lavorano dietro le quinte (“non ha perso l’occasione di mostrare la faccetta a mammà e alla fidanzata”), molti giornalisti preferiscono non cimentarsi negli stand up, se non quando siano costretti da un collegamento in diretta (e qui cominciano altri dolori). I cameraman li aiutano in questo, ben felici di liberarsi di ciò che per loro costituisce un fastidioso aggravio di lavoro, con gratificazioni professionali nulle, e vere e proprie crisi di rigetto quando il rapporto con il giornalista non è dei migliori.

In questo modo, però, per ragioni assolutamente banali, si riducono, e non di poco, le possibilità espressive e informative dei pezzi. E si impoveriscono l’immagine e la credibilità del giornalista e della rete. “Nessun reporter è verosimile che compia seri progressi nella sua carriera senza imparare a fondo questo elemento”, sostiene senza mezzi termini Ivor Yorke nel suo “Basic Tv Reporting”, una sorta di “help manual”, prontuario di salvataggio, per i giornalisti britannici che passano da altri media alla televisione.

Lo stand up, il piccolo monologo del giornalista rivolto al pubblico, caratterizzandosi come elemento di forte rottura nel ritmo e nel naturale sviluppo dei servizi del telegiornale, costituisce una risorsa preziosa e di impatto. Se realizzata e usata con abilità, consente di dare efficacemente una serie di informazioni e di risolvere un certo numero di situazioni narrative.

Per comprenderne la forza, in un parallelo cinematografico, si può pensare all’uso dirompente che Hitchcock faceva della propria presenza nel film. Con la differenza che il grande regista impersonava il proprio gusto per l’intreccio diabolico degli eventi.

Il giornalista, invece, deve incarnare il gusto di raccontare in modo attendibile gli eventi, come risultato del lavoro di tutto il gruppo che è dietro al suo servizio e al telegiornale intero.

Lo stand up, il pezzo in macchina del cronista, può essere paragonato a un’arma potente, alla quale non conviene perciò rinunciare, ma che bisogna imparare a padroneggiare con sicurezza se non si vogliono provocare danni gravi.

Il primo passo nell’addestramento all’uso di un’arma è definirne la funzione, a cosa serve.

2) A COSA SERVE

L’origine dello stand up, sia di quello in diretta, sia di quello registrato e poi mandato in onda come finta diretta oppure, più comunemente, montato all'interno di un servizio, ha a che fare con la natura stessa e i limiti dell’informazione televisiva.

Quando arriva una notizia di grande importanza, una breaking news, come dicono gli americani, la prima cosa che si fa è andare davanti ad una telecamera e raccontare cosa è accaduto. Finché non sono disponibili le immagini o non c’è il tempo per montarle, cioè per costruire con esse un efficace messaggio audiovisivo, il giornalista non ha altre strade che dire di persona il fatto qual è. Può affidare il compito a un conduttore seduto in studio. Oppure, può ricorrere ad uno stand up realizzato sul luogo più vicino o più pertinente alla notizia che si riesca a raggiungere.

Immaginate che un’ora e mezza prima della messa in onda del telegiornale, le agenzie battano la notizia di un gruppo di italiani ucciso per rappresaglia in un paese straniero. Magari, come spesso accade, si tratta di uno stato poco democratico, dove quindi le telecamere hanno difficoltà a muoversi con la rapidità cui oggi siamo abituati. Insomma, è certo che prima di alcune ore non arriveranno immagini del fatto. Non è, poi, da escludere che in quel paese sia notte, mentre in Italia è giorno. Così, non vi è neppure la possibilità di chiamare al telefono l’ambasciatore o il console italiano sul posto.

La notizia dovrà, perciò, essere data dal conduttore, con l’ausilio di una cartina grafica e, se possibile, di una telefonata all’Unità di crisi della Farnesina in cui la voce del funzionario fornisca tutte le informazioni disponibili. Insomma, si tratterà di un linguaggio radiofonico più che televisivo, tanto che i montatori definiscono questo modo di andare in onda “Radio a colori”.

Molto meglio, se le distanze lo consentono -ed è il caso della Rai-, andare al volo al Ministero degli Esteri, raccogliere le informazioni e un’intervista all’Unità di crisi e raccontare tutto in uno stand up, registrato dal vostro operatore davanti alla Farnesina o all’interno dell’Unità di crisi. Basterà, poi, che un fattorino, o un membro della troupe, riporti la cassetta in sede. Se c’è tempo, in pochi minuti un montatore inserirà la parte migliore dell’intervista nel punto dello stand up dove voi avrete previsto, mai in testa e, possibilmente, neppure in coda. In questo modo, il semplice pezzo in macchina comincia ad acquistare forma e dignità di un servizio un po’ più elaborato.

(Nota : Per non rendere inservibile lo stand up nel caso non vi fosse tempo per inserire l’intervista a metà, basta usare una frase che non lo bruci. Es. : “Secondo il responsabile dell’Unità di crisi, i nostri connazionali potrebbero esser stati scambiati per cittadini di un altro paese”. Qui fate una breve pausa in modo che l’intervista al responsabile dell’Unità di crisi possa essere inserita in questo punto. Poi proseguite con altre informazioni in modo da non dare l’impressione di un’interruzione o di un salto in caso non vi fosse tempo per montare l’intervista. Se, al contrario, direte frasi del tipo “Ascoltiamo cosa ci ha detto in proposito...”, oltre a perdere tempo e all’effetto retorico, lo stand up senza intervista non può essere mandato in onda).

Chi lavora per un’emittente fornita di buoni mezzi e di organizzazione efficiente, con una buona dose di fortuna, entro un’ora potrà contare su un’unità di diretta sul posto e andare in onda dal vivo.

Questa è la natura originaria sia dello stand up per il collegamento in diretta, sia di quello registrato, fatto cioè per essere inserito in un servizio chiuso. Nonostante queste due categorie fondamentali di stand up abbiano caratteristiche, sviluppi e utilizzazioni molto diverse una dall’altra, e perciò saranno trattate separatamente, sono accomunate dalla stessa funzione di base, primordiale e grezza si può dire, che resta anche la principale, quella a cui far riferimento per essere certi di aver impostato bene il lavoro. Entrambe nascono dall’esigenza di dare informazioni senza poter mostrare la realtà di cui si parla. Insomma, servono in primo luogo a superare il più grave handicap che possa capitare in televisione. Dover dire senza immagini.

I due tipi di stand up condividono anche una funzione negativa, assolutamente da evitare: non devono essere usati per dare la notizia, intesa come lead, lancio della storia. Il perché è molto semplice. Sia in una diretta, sia in un pezzo chiuso, quando il reporter arriva in campo è stato preceduto da alcuni passaggi nei quali, inevitabilmente, la notizia è già stata data. Il collegamento o il servizio sono sempre lanciati dal conduttore, che ha appunto la funzione di annunciare qual è la storia di cui si sta per parlare diffusamente.

Perché mai, dopo che questo signore ha appena detto “E’ accaduto questo, vediamo di cosa si tratta”, dovrebbe comparire un altro signore per ripetere “E’ accaduto questo, i fatti sono andati così e cosà” ? Ne riparleremo diffusamente quando tratteremo il modo in cui va fatto l’attacco del servizio e perché il pezzo in macchina registrato non vada mai messo all’inizio. Ma già ora si può anticipare che, a parte la ripetizione della notizia che è già nel lancio del conduttore e, magari, anche nei titoli, non si comprende perché, disponendo delle immagini dell’avvenimento, si dovrebbe cominciare con la faccia del giornalista. Cioè, con lo strumento che serve come estremo rimedio quando non possiamo far vedere ciò di cui dobbiamo parlare.

Premesse le funzioni positiva e negativa comuni, da questo momento le strade dei due tipi di stand up, quello in diretta e quello registrato, si dividono. Analizzeremo innanzitutto il secondo, il meno conosciuto e praticato, quello che il giornalista dovrebbe essere in grado di inserire efficacemente in ogni servizio girato sul campo, che cioè non sia fatto in redazione. Gran parte delle indicazioni generali varranno anche per il primo, attualmente il più in voga nel nostro giornalismo, del quale parleremo nella seconda parte del manuale.

LO STAND UP REGISTRATO

1) LE FUNZIONI

Le funzioni del pezzo in macchina registrato sono fondamentalmente tre:

Parlare di qualcosa senza avere le immagini ;

Legare due parti diverse di un servizio ;

Testimoniare la presenza dell’emittente e del giornalista sul posto.

Ovviamente, i casi in cui lo stand up riesca a ricoprire tutt’e tre queste funzioni, il risultato sarà particolarmente buono.

a) Dire senza immagini.

Cercherò qui di esprimere in modo semplice, anche se, conseguentemente, un tantino impreciso, alcuni presupposti teorici necessari a comprendere il gioco di equilibrismo che è dietro ad un buon stand up.

Il modo più efficace di dare notizie in tv è l’uso sofisticato del linguaggio audiovisivo, un’interazione strettissima di immagini, suoni e parole che consente, seguendo una serie di regole, di comunicare in un tempo molto breve una elevata quantità di informazioni. Di raccontare in poco più di un minuto una storia con numerosi passaggi di tempo e di ambiente, dando un’impressione di vissuto molto intenso, ma senza che lo spettatore si stanchi, cioè senza che soffra per la durata o per l’intensità del messaggio.

L’equazione è : se la parola comunica 24 bit al secondo (l’unità di misura dell’informazione), i suoni centinaia di bit e le immagini migliaia di bit, un messaggio audiovisivo corretto comunicherà un numero di bit al secondo sensibilmente superiore alla semplice somma di bit-parola, più bit-suoni, più bit-immagini. Se ciò è vero, vuol dire che tutte le volte in cui rinunciamo ad adoperare uno stretto legame tra immagine, suoni e parole, abbassiamo drasticamente la possibilità di comunicare.

Ma, cosa ancor peggiore è se i tre elementi entrano in conflitto fra loro. Cioè, se la parola esprime una cosa, mentre immagini e suoni ne raccontano un’altra. Allora, si ha un fenomeno di interferenza, per cui lo spettatore sarà portato a seguire o il testo o immagini e suoni, e mentre tenta di fare questo, sarà costantemente distratto dall’una o dall’altra cosa.

E veniamo alle conseguenze. E’ giusto concludere che tutte le volte in cui abbiamo immagini e suoni di una situazione, non conviene affidarci alla sola parola per raccontarla. Cioè : perché mai fare il pezzo in macchina su un aspetto della storia che può essere reso meglio con sintesi audiovisiva ?

E, d’altro canto, tutte le volte che non abbiamo immagini per un aspetto della storia, perché mai tentare di raccontarlo leggendo un testo su immagini generiche e non strettamente pertinenti, rischiando fatalmente che lo spettatore si distragga o pensi ad altro.

Tanto vale venire fuori in primo piano e, guardando il pubblico negli occhi, riferirgli il fatto in estrema sintesi. Cioè : conviene fare il pezzo in macchina su gli aspetti della storia che è impossibile o difficile esprimere con immagini.

Non solo. Dipendendo dalle immagini a colori e dai suoni, la televisione è fondamentalmente il mezzo del concreto. Tutto ciò che è astratto ha bisogno di un trattamento particolare per poter essere rappresentato. Soprattutto nel linguaggio da telegiornale, per il ritmo e le abitudini di ascolto, lo spazio per l’evocazione o la rappresentazione delle idee è estremamente limitato. E’ necessario ricorrere a espedienti che rendano visualmente i concetti, le astrazioni o le cose non immediatamente visibili.

Il passaggio più semplice è la traduzione delle parole in uno stile esemplificativo e immaginifico, attraverso la sostituzione dell’astratto con il concreto. Cioè : può essere opportuno fare il pezzo in macchina sugli aspetti astratti che vanno detti e non si possono, o non si ha il tempo, di trattare televisivamente.

Legare due parti del servizio.

Proprio il linguaggio di sintesi audiovisiva, con il suo andamento per scene, quindi diviso in blocchetti autonomi, impone spesso bruschi passaggi di tempo, di luogo, di argomento o di persone che possono essere ammorbiditi o risolti da uno stand up, detto appunto di passaggio o ponte.

Tempo. In un servizio che racconti di una dura trattativa sindacale, per esempio, dopo aver sviluppato le fasi critiche del confronto seguendo la giornata di incontri, si può passare alla soluzione raggiunta in serata superando il salto di tempo con uno stand up : “La trattativa si è bloccata per ore sul nodo degli straordinari. 40 ore forfetarie per tutti, dicevano gli industriali. Libera contrattazione nelle unità produttive, rispondevano i sindacati. Un’ora fa il compromesso, qui nella sede della Confindustria”. Nell’immagine successiva, notturna, sindacalisti e industriali che escono dal portone e spiegano l’accordo. Dalle immagini con la luce del sole, attraverso un pezzo in macchina girato all’interno degli uffici della Confindustria, nei corridoi o magari davanti alla porta aperta della sala riunioni, si passa alle immagini notturne dell’uscita.

Luoghi. In un servizio sulle lezioni amministrative, dopo aver dato conto della situazione a Roma, si può passare a Milano con uno stand up, ambientato al Campidoglio o nella sala stampa del Viminale : “Bisognerà attendere domattina per sapere se Rutelli conserverà l’attuale vantaggio che gli consentirebbe di diventare sindaco senza bisogno di ballottaggio. Un dato che è invece già certo a Milano, dove le operazioni di spoglio sono in fase più avanzata”. L’immagine successiva è Palazzo Marino o, comunque, un’altra di Milano pertinente a quello che dirà il testo.

Durante l’alluvione in Valtellina del 1987, nello stesso pezzo si doveva parlare della situazione in alto, dove s’era formato il lago, e a valle, dove i paesi rischiavano di essere travolti da un’inondazione. Lo stand up funzionava da cerniera.

E così pure durante la Guerra del Golfo, quando a Daharan dovevamo descrivere la situazione in Iraq. A metà pezzo, si passava a Bagdad con uno stand up dopo il quale si registrava solo un testo che era coperto in redazione a Roma con le immagini che arrivavano dalla capitale irachena.

Argomenti. In questi due ultimi esempi è già insito, oltre ad un cambio di località, anche un cambio di argomento. Un passaggio più brusco si può trovare in un servizio che spieghi una serie di provvedimenti del governo. Per passare dagli aumenti del gasolio alla nuova disciplina sugli esami di maturità può essere utilizzato un pezzo in macchina. E, così, raccontando lo scandalo sexgate che ha travolto il presidente degli Stati Uniti, si può ad un certo punto dover virare dagli sviluppi legali alle conseguenze sui rapporti familiari tra Bill Clinton, la moglie e la figlia.

Con alle spalle la Casa Bianca, se il presidente e la famiglia sono a Washington, il reporter racconterà cosa sta accadendo : “Per la prima volta i collaboratori di Clinton non hanno negato il malumore fra il presidente e la moglie, riferendo che i due non pranzano assieme e conducono in pratica vite separate. Un atteggiamento col quale, secondo molti, Hillary intende prendere le distanze dal marito per non pregiudicarsi la carriera futura”. In questo modo, si risolve anche il problema di non avere le immagini dei pranzi separati e delle attività private della coppia presidenziale. Se, poi, il presidente e la First Lady fossero altrove o in due posti diversi, lo stand up risolverebbe anche il problema di superare il salto di luoghi.

Personaggi. Nei tremendi pastoni politici italiani, si fa abuso dello pezzo in macchina per passare dai rappresentanti della maggioranza a quelli dell’opposizione, oppure da un partito all’altro. Magari, girando la scena senza faretto nella penombra di un corridoio della Camera dei deputati, o, peggio, alla luce del sole davanti a Montecitorio, mentre le immagini dei politici saranno tutte riprese in interni. Mancando totalmente l’ambientazione, lo stand up fa da meccanico raccordo tra facce che, nella maggioranza dei casi, non parlano neppure in prima persona, ma muovono la bocca a pesce mentre il giornalista spiega cosa hanno detto.

Più opportunamente, la funzione dello stand up, in questo caso, è sì quella di passare da un personaggio all’altro, ma spostandosi anche tra gli ambienti nei quali l’uno e l’altro si muovono. Per tornare alla politica americana, pensate a un servizio sulla giornata di campagna elettorale dei due candidati alla Casa Bianca. Oppure,

immaginate un pezzo sul confronto a distanza sull’embargo fra il vice primo ministro irakeno Tarek Aziz e il Segretario di stato americano, il primo in visita in Italia, il secondo impegnato in un giro di capitali arabe.

Testimonianza.

In greco antico, il verbo orao, cioè vedere, all’indicativo aoristo (un tempo in linea di massima corrispondente al passato remoto italiano) era usato come presente del verbo sapere, conoscere. E così, per dire “io so” si poteva usare oida, cioè “io vidi”. Il ragionamento dei greci è che chi ha visto, sa, conosce. Se un giornalista è sul posto in cui accade un avvenimento, lo conosce direttamente, per averlo visto. E, quindi, a rigor di logica, è credibile.

Essere presente sui fatti principali è un punto di forza di un telegiornale e, quindi, molte emittenti, soprattutto straniere, impongono lo stand up ai loro reporter e inviati. E non solo nei servizi in trasferta, ma anche in quelli cittadini. In tempi in cui si lavora sempre più assemblando notizie e immagini che arrivano dall’esterno dell’emittente, in gran parte sui circuiti delle agenzie, perfino avere un giornalista al consiglio comunale o su una rapina può costituire un punto a favore nei confronti del pubblico.

Il giornalismo si gioca in gran parte sulla ricerca delle fonti primarie, cioè quelle a diretto contatto con la notizia, definite così in contrapposizione alle fonti secondarie, quelle che ci riferiscono di un fatto per averlo saputo da altri.

Poter essere testimone diretto, trasforma il reporter in una fonte particolarmente attendibile. E, visto che la costruzione di una storia, si gioca in gran parte su quanti protagonisti di quella vicenda si riesce a portare davanti alla telecamera, perché diano la propria testimonianza diretta, il giornalista presente sul campo, se da un lato è colui che ha sentito direttamente queste persone, dall’altro diventa egli stesso una voce da ascoltare.

Un fattore psicologico così forte, che nella distorsione dell’informazione spettacolo, soprattutto negli Stati Uniti, tra la metà e la fine degli Anni Ottanta ci si accorse che ormai si inviavano i reporter sul luogo di un avvenimento solo perché portassero a casa uno stand up, cioè la prova che c’erano stati. Le notizie erano attinte in gran parte dalle agenzie, le immagini e le interviste erano girate da cameraman guidati da producer, e il giornalista era catapultato sul posto solo per far presenza. E, appena girato un pezzo in macchina, rispedito in redazione in modo che non rischiasse di bucare il servizio che altri continuavano a mettere assieme per lui.

La situazione diventò tanto comica che se ne accorse anche il pubblico. I militari americani su questa degenerazione televisiva costruirono quel capolavoro di disinformazione che fu la Guerra del Golfo. Immagini uguali per tutti, girate da poche telecamere, magari militari. E ogni inviato poteva confezionare i propri pezzi sul conflitto aggiungendo stand up rimessi alla fantasia di ciascuno. Una duna dietro l’angolo, un posto di controllo davanti all’albergo a cinque stelle di Daharan (basta non inquadrarlo), la pista di decollo degli aerei. Poi, la differenza si vide in Kuwait, quando ci si trovò davvero in mezzo alle botte.

Celebre lo stand up con maschera antigas di un giornalista della CNN, dietro al quale ciondolavano però persone a viso scoperto. Il mondo rise. Il re era nudo.

E, d’altro canto, uno dei più bravi inviati della Cbs, Bob Simon, svanì nel deserto, preso dagli iracheni, mentre cercava di vedere qualcosa con i propri occhi. Tornò a guerra finita, senza stand up.

Ogni volta che sono state portate a conoscenza del pubblico i trucchi e le finzioni, gli autori hanno perso popolarità e credibilità (da noi, invece...) E ancora oggi non essere capace di eseguire un buon pezzo in macchina o essere poco telegenico possono rappresentare un grave handicap in quei paesi. Gli americani e gli inglesi dividono drasticamente le professioni televisive in “on camera” e in “off camera”, cioè tra chi può andare in onda e chi lavora dietro le quinte. E non c’è raccomandazione che tenga. Non si diventa conduttore o inviato solo per grazia di partito, come da noi (“My God, the monsters !”, esclamava qualche anno fa un grande giornalista britannico davanti ai tg italiani). Perché il prezzo che l’emittente paga in termini di ascolti e di credibilità è troppo alto.

Nella funzione di “testimonianza” si può far rientrare, dunque, anche il prestigio e la popolarità che il giornalista acquista mostrandosi al pubblico giorno dopo giorno dalla scena dei vari avvenimenti chiamato a seguire. Il suo volto diventa sinonimo di una particolare personalità professionale.

La gente comune, ma anche i personaggi pubblici, lo riconoscono e ne hanno stima. Dunque, si lasciano intervistare con fiducia ed è più facile che si confidino con lui. E questo si trasforma in un altro vantaggio per l’emittente.

Ma, essere sotto i riflettori, costringe il reporter ad attenersi scrupolosamente a regole di correttezza e ad impegnarsi sempre al meglio nel proprio lavoro, per non tradire la fiducia della gente e non perdere di credibilità. Ancora un effetto positivo per il telegiornale.

2) DOVE SI METTE

Quando si registra lo stand up, nella maggior parte dei casi il giornalista ha appena abbozzato, e solo mentalmente, la struttura del servizio. Gli avvenimenti sono spesso ancora in corso e molte cose potrebbero cambiare. E’, dunque, quasi impossibile o, comunque, molto limitativo, decidere già a questo stadio del lavoro dove pezzo in macchina sarà inserito.

Per cavarsi d’impaccio, e per non perdere tempo, molti pensano che sia bene stabilire che lo stand up sarà comunque l’apertura o la chiusura del pezzo, e in base a questa scelta ne decidono il contenuto. Altri, addirittura, registrano tutto il testo del servizio sul posto, magari a braccio, come se fosse un lungo stand up e poi lo coprono con le immagini.

Chi sceglie la prima strada si trova imbottigliato in un attacco o in una chiusa che, per una ragione o per l’altra, nella maggior parte dei casi possono non avere più senso al momento di andare in onda. Chi sceglie la seconda strada, rischia di ritrovarsi un servizio immodificabile, superato dagli eventi (oltre al grave inconveniente tecnico di avere su tutto il pezzo l’audio ambiente del posto dove è stato registrato lo stand up. E’ capitato perfino di sentire il rumore del traffico parigino all’interno dell’Assemblea Costituente)*.

La regola fondamentale è, dunque, l’elasticità, cioè registrare lo stand up come un elemento da giocarsi in una posizione da definire al momento di strutturare la storia. Già pensare questo aiuta ad adoperare una serie di accorgimenti che evitano di portarsi a casa un pezzo in macchina che scade o diventa inservibile. Per esempio, i giornalisti americani, che firmano in voce al termine del servizio, cioè enunciano una formuletta che contiene il proprio nome (es. : “Bob Schiffer, Cbs news, Washington”), quando registrano lo stand up aggiungono sempre questa frasetta dopo aver lasciato una breve pausa. Poi, se monteranno lo stand up al termine del servizio, lasceranno la formuletta. Altrimenti, se lo stand up andrà all’interno del servizio, allora la firma in voce sarà tagliata (e riletta in coda al testo).

Anche per la posizione, come poi vedremo per la forma e per il contenuto, esistono, però alcune regole che aiutano ad evitare errori irreparabili o un cattivo uso del pezzo in macchina.


 
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