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Da: Robert Katz, Roma città ApertaIl saggiatore 2003

Il segretario del partito, Palmiro Togliatti, che aveva trascorso gli ultimi diciotto anni d’esilio in Unione Sovietica, si fece vivo all’inizio di aprile nel Regno del Sud, controllato dagli Alleati, con un annuncio che lasciò tutti senza parole. Usando ancora il nome in codice Ercole Ercoli, disse che i comunisti erano pronti a stringere la mano ai monarchici (inclusi il re screditato, Badoglio e ogni altro partito antifascista), collaborando in un governo di unità nazionale. La “svolta” di Togliatti, che dissolse ogni dissenso a destra e venne giudicata “meravigliosa” da Bonomi, fece davvero meraviglie. In rapida successione, Bonomi ritirò le sue dimissioni, il re annunciò l’abdicazione (accettando libere elezioni nel dopoguerra che avrebbero deciso il destino della monarchia) e Badoglio fu nominato capo del governo, approvato dagli Alleati, comprendente sei partiti, saldando così la spaccatura fra Churchill e Roosevelt. A curare le ferite della delusione rimanevano i più stretti alleati dei comunisti e i comunisti stessi. Se la maggior parte degli antifascisti di sinistra, specie quelli della resistenza armata, credeva di combattere per un’Italia radicata in una democrazia nutrita di ideali, l’impresa erculea di Togliatti fece loro capire quale sarebbe stato il futuro più probabile: una democrazia di compromessi.

La scrittrice Elsa Morante ricorda così i giorni crepuscolari della Roma occupata, che allora sembravano eterni:

Negli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, Roma prese l’aspetto di certe metropoli indiane dove solo gli avvoltoi si nutrono a sazietà e non esiste nessun censimento dei vivi e dei morti […]. La popolazione era ammutolita. Le notizie quotidiane delle retate, delle sevizie e dei macelli circolavano per i rioni come echi rantolanti senza risposta possibile […]. E anche il famoso miraggio detto Liberazione si andava riducendo a un punto fatuo, materia di sarcasmo e canzonatura. Del resto, si diceva che i tedeschi, prima di abbandonare la città, l’avrebbero fatta saltare tutta intera dalle fondamenta e che già, per chilometri sottoterra, le fogne erano un deposito di mine […]. Ma, alla fine, dentro la città isolata, saccheggiata e stretta d’assedio, la vera padrona era la fame.

Benché la drastica riduzione della razione di pane annunciata il giorno dopo l’attentato di via Rasella fosse vista come una punizione per tutti, le autorità occupanti avevano agito per necessità. Le scorte di cibo in città, aveva fatto allora fatto sapere l’ambasciatore Rahn a Berlino, erano sufficienti “solo per altri due o tre giorni”, e il problema maggiore erano i rifornimenti. I bombardamenti alleati sulle linee ferroviarie avevano obbligato i tedeschi a trasportare i viveri su gomma, ma questi automezzi servivano sempre più al fronte, cosicché anch’essi erano diventati il bersaglio preferito delle bombe alleate. Per aumentare le razioni alimentari, gli occupanti avevano deciso, diceva Rahn, di “rimuovere” una parte dei consumatori (un numero imprecisato di rifugiati, studenti e disoccupati), il che avrebbe significato altri rastrellamenti e deportazioni.

I famosi gatti randagi di Roma, che popolavano le antiche rovine del Palatino e i cortili di Trastevere, erano spariti. I pochi altri commestibili rimasti, più o meno legalmente etichettati, si potevano trovare solo al mercato nero, dove la crescita vertiginosa dei prezzi avvicinava ogni giorno lo spettro della sopravvivenza, limitata ai più ricchi. Così, ai primi di aprile, quando il prezzo di un fiasco di olio di oliva raggiunse le 1000 lire (più di un mese di stipendio di un impiegato), la città ne fu colpita come da una forza maggiore che spingeva i romani verso le infime regioni della disperazione.

Alla fine, l’esasperazione colmò la misura. Alcune donne erano in coda in una panetteria per la nuova, scarsa, razione dell’odiato pane nero succedaneo; erano passate alcune ore e nessuna era stata servita, allorché scoppiò una violenta protesta verbale. Travolgendo una guardia fascista, le donne fecero irruzione nel forno e sottrassero i sacchi di farina bianca riservati a pochi privilegiati, colmando le loro sporte e i loro grembiuli. Quando nei giorni seguenti scoppiarono rivolte di questo tipo anche in altri quartieri (compresi i borghi all’ombra di San Pietro), le donne della Resistenza cominciarono deliberatamente ad organizzarle, facendo appello alle loro sorelle, ovunque si trovavano, affinché scendessero in strada e “rivendicassero il diritto a vivere!”. Gli “assalti ai forni” da parte delle donne, come furono subito chiamate queste ribellioni, proseguirono per tutto aprile, portando a scontri sempre più frequenti con la polizia fascista e poi con i tedeschi stessi. Allora iniziarono le sparatorie. Nel quartiere Ostiense, a sud della piramide, un gruppo di donne e bambini saccheggiò una panetteria che serviva le truppe tedesche di stanza a Roma. Le SS catturarono dieci donne, le trascinarono sul vicino ponte sul Tevere, il ponte di Ferro, le fecero affacciare sul fiume e le uccisero con una scarica di fucili mitragliatori.

Il piano per ridurre i consumatori di cibo con altri mezzi fu avviato da Kappler e gestito con tipica economia di movimento. Gran parte degli assalitori ai forni era formata da donne che vivevano nel popoloso quartiere operaio del Quadraro, a sudest di Roma. Per Kappler, però esse erano l’ultima preoccupazione in una zona che gli occupanti definivano un vero “nido di vespe”, pieno di partigiani e altri pericolosi elementi antitedeschi. Il console Möllhausen riteneva che la zona fosse l’ultimo rifugio di tutti quelli che erano stati cacciati da ogni altro nascondiglio romano. A cavallo della via Tuscolana, antica strada consolare [sic], il Quadraro era la porta verso Anzio e Cassino. Vi erano almeno tre gruppi armati della Resistenza che attaccavano i traffici della Wehrmacht dal, e verso il, fronte: i combattimenti del Partito d’azione e i gappisti della cosiddetta VIII zona, appartenenti al CLN, e i partigiani indipendenti di Bandiera rossa. Era una specie di foresta “urbana” di Sherwood per il populista, apolitico, ma antinazista, Gobbo del Quarticciolo e la sua banda.

Il Lunedì di Pasqua il ragazzo-bandito si era unito per ignoti motivi ad alcuni partigiani in un attacco sferrato in via Tuscolana in cui rimasero uccisi tre soldati tedeschi. Con il pretesto che i romani non avevano imparato la lezione della “dura risposta” data dall’Alto comando per l’attentato di via Rasella, per reagire all’attacco degli occupanti attivarono il piano di rimozione. Una settimana dopo, prima dell’alba del 17 aprile, Kappler, al comando dei suoi uomini di altre forze della Wehrmacht e dei paracadutisti, circondò completamente i Quadraro e realizzò la più grande retata di tutto il periodo dell’occupazione. I tedeschi perquisirono accuratamente ogni casa, arrestarono circa duemila uomini e ragazzi, li ammassarono nel cinema del quartiere e li sottoposero a selezione per reclutare i più robusti. Circa settecentocinquanta, fra i quindici e i quarantacinque anni, vennero spediti al Nord, tolti dalla loro tavola romana e, secondo l’ultimo manifesto rosa affisso ai muri la sera stessa, “assegnati a un’occupazione produttiva nello sforzo bellico tedesco diretto contro il bolscevismo”. Metà di loro non fecero più ritorno.



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