Giancarlo Livraghi

Il potere della stupidità
Kali

Capitolo 1


Il problema della stupidità


Sono sempre stato afflitto e affascinato dal problema della stupidità umana. A cominciare, naturalmente, dalla mia – e dalle tante cose stupide che ci circondano, complicandoci la vita tutti i giorni. Basterebbe questa per essere una grossa fonte di preoccupazione. Ma è ancora più allarmante quando abbiamo l’occasione di scoprire come persone potenti e influenti prendono “grandi” decisioni con “grandi” conseguenze.

Tendiamo abitualmente ad attribuire ogni sorta di decisioni sbagliate (o catastrofiche) a intenzionale perversità, malvagità, astuta cattiveria, megalomania, eccetera. Questi comportamenti ci sono – e in esagerata abbondanza. Ma un attento studio della storia (come l’osservazione delle cronache quotidiane) porta all’inevitabile conclusione che la principale causa di terribili errori è una: la stupidità.

Questo è un fenomeno abbastanza noto. Uno dei modi in cui è stato riassunto è il cosiddetto Rasoio di Hanlon: «Non attribuire a consapevole malvagità ciò che può essere adeguatamente spiegato come stupidità».

L’origine di Hanlon’s Razor è un po’ misteriosa. È considerato un corollario della cosiddetta “legge di Finagle” (Finagle’s Law of Dynamic Negatives) che somiglia alla “legge di Murphy” (vedi capitolo 4). Si ispira al classico “Rasoio di Occam” (ed è altrettanto tagliente). Non si ha notizia di alcun autore chiamato Hanlon – probabilmente si tratta di una variazione fonetica sul nome di Robert Heinlein, che aveva fatto quella constatazione nel suo romanzo Logic of Empire (1941).

Il concetto è stato ribadito da Robert Heinlein in una frase ancora più semplice: «Non sottovalutare mai il potere della stupidità umana».

Quando la stupidità si combina con altri fattori (come succede continuamente) l’effetto può essere devastante. Spesso la stupidità umana è all’origine di una catena di eventi che si complicano sempre di più, fino a produrre conseguenze talvolta comiche, ma troppo spesso tragiche. In altre situazioni la stupidità non è l’origine del problema, ma un’infinità di comportamenti stupidi contribuiscono ad aggravarlo o a ostacolarne la soluzione.

Una cosa che mi sorprende (o forse no?) è quanto poco studio si dedichi a un argomento così importante. Ci sono dipartimenti universitari che si occupano delle complessità matematiche dei movimenti delle formiche in Amazzonia o della storia medievale dell’isola di Perim. Ma non mi risulta che ci siano cattedre di stupidologia.

Nella letteratura di tutti i tempi ci sono molte opere che, in un modo o nell’altro, ci aiutano a capire il problema della stupidità. Ma sono pochi i libri che approfondiscono questo argomento. Ce n’è uno che ho letto quando ero un ragazzino – e non ho mai dimenticato. Si chiama A Short Introduction to the History of Human Stupidity di Walter Pitkin della Columbia University ed era stato pubblicato nel 1932.

Pare che anche Jorge Luis Borges, nel 1934, avesse cominciato a scrivere una Historia universal de la infamia, ma poi si fosse arreso davanti alla vastità del tema, limitandosi a raccogliere alcuni esempi. Si dice che la stessa cosa fosse accaduta a Gustave Flaubert, che dopo aver rinunciato a compilare un’enciclopedia della bêtise trattò in parte l’argomento in un romanzo incompiuto, Bouvard et Pécuchet (1881). Vedi Flaubert e l’ossessione della stupidità

Vecchio com’è, è ancora un buon libro. Molte osservazioni del professor Pitkin sono di grande attualità dopo ottant’anni.

Viene spontanea una domanda: perché un volume di trecento pagine si chiama “breve introduzione”? Il libro si conclude con un epilogo: «ora siamo pronti a cominciare lo studio della storia della stupidità». Poi... più nulla. Il professor Pitkin era saggio. Sapeva che un’intera vita è troppo breve per poter approfondire anche solo qualche frammento di un argomento così vasto. Perciò pubblicò l’introduzione – e basta.

Secondo Walter Pitkin, quattro persone su cinque si possono definire “stupide”. Si trattava, allora, di un miliardo e mezzo di persone – oggi più di cinque miliardi. Naturalmente neppure Pitkin si aspettava che la sua ipotesi potesse essere presa numericamente alla lettera. Ma, comunque, il fatto è preoccupante – come vedremo nel capitolo 29.

Una fondamentale osservazione di Pitkin è che è difficile studiare la stupidità perché manca una buona definizione di che cosa sia. Per esempio i geni sono spesso considerati stupidi da una maggioranza stupida (non è facile neppure definire che cosa sia il genio). Ma la stupidità palesemente esiste. E ce n’è molta più di quanto possiamo immaginare nei nostri peggiori incubi. Infatti governa il mondo – cosa ampiamente dimostrata dal modo in cui il mondo è governato. (Vedi il capitolo 10 La stupidità del potere).

Anche Robert Musil nel suo Discorso sulla stupidità (1937) notava come fosse poco studiato «il dominio vergognoso che ha la stupidità su di noi». E diceva di aver trovato «incredibilmente pochi predecessori nella trattazione di questo argomento».

In periodi più recenti la letteratura sulla stupidità è un po’ meno scarsa. Benché ci siano alcuni altri libri interessanti, di cui si parla nelle prossime pagine, tutti gli autori che hanno cercato di approfondirlo confermano la scarsità di studi sull’argomento.

Insomma ragionare sulla stupidità vuol dire avventurarsi in un territorio poco conosciuto, poco e male studiato, generalmente trascurato per un misto di imbarazzo e di disagio. Come se tutti sapessimo di essere stupidi, ma avessimo una gran paura di ammetterlo.

Proprio per questo mi sembra che sia il caso di prendere la lanterna di Diogene e andare a vedere di che cosa si tratta. Se riusciremo a fare un po’ di luce forse la notte della ragione sarà un po’ meno scura.


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L’essenza della stupidologia è un tentativo di spiegare perché le cose non funzionano – e quanto ciò è dovuto alla stupidità umana, che è la causa di quasi tutti i nostri, grandi o piccoli, problemi. E anche quando la causa non è la stupidità le conseguenze peggiorano perché sono stupide le nostre reazioni e i nostri tentativi di soluzione.

Questa analisi è essenzialmente diagnostica, non terapeutica. Il concetto fondamentale è che, se riusciamo a renderci conto di come funziona la stupidità, possiamo controllarne un po’ meglio le conseguenze.

Non possiamo sconfiggerla del tutto, perché fa parte della natura umana. Ma i suoi effetti possono essere meno gravi se sappiamo che c’è, capiamo come funziona, e così non siamo presi del tutto di sorpresa.


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Alcuni lettori mi hanno fatto notare che sono troppo lunghe, nelle prime pagine del libro, le citazioni di vari autori. Chi non è interessato alla parte che segue la può tranquillamente saltare, almeno a una prima lettura – e passare direttamente al secondo capitolo.

Ma mi sembra che sia corretto (pur nella generale scarsità di approfondimenti sul tema) citare il fatto che esistono libri recenti sulla stupidità, di cui alcuni offrono contributi interessanti. Una “bibliografia” estesa porta a citare parecchi titoli, che in un modo o nell’altro riguardano l’argomento, anche se raramente arrivano alle radici del problema. Un “elenco ragionato” si trova online; qui mi limito ad alcune delleosservazioni più interessanti.

Sono note ai lettori italiani le “leggi” di Carlo Cipolla, di cui si parlerà nel capitolo 7. Ma prima, nei capitoli 5 e 6, si tratterà di due brillanti autori, Cyril Parkinson e Laurence Peter, che non hanno scritto libri sulla stupidità – ma aiutano a capire “perché le cose non funzionano”.

Sono interessanti, in questo senso, anche le opere di Scott Adams, che è noto per la sua straordinaria serie di vignette satiriche “Dilbert”, ma ha anche scritto libri sull’inefficienza delle organizzazioni. Fra cui uno pubblicato nel 1997 con il titolo The Dilbert Future: Thriving on Business Stupidity in the 21st Century che non è un trattato sulla stupidità, né una profezia, ma (come gli altri testi dello stesso autore) un’acuta e ironica analisi della degenerazione strutturale e culturale delle imprese.

Come in diversi altri testi, anche nel ponderoso saggio accademico Stupidity di Avital Ronell (University of Illinois – 2003) ricorre la constatazione che la stupidità è perennemente diffusa, insidiosa, difficilmente definibile. «Benché non sia una patologia o un indice in sé di difetto morale, la stupidità è connessa ai più pericolosi fallimenti delle imprese umane».

La mancanza di studi e approfondimenti sulla stupidità è rilevata da quasi tutti gli autori che trattano l’argomento. Per esempio José Antonio Marina, in La inteligencia fracasada (2004), osserva che da secoli ci sono molteplici (anche se discutibili) lavori sull’intelligenza – ma non sulla stupidità. Da una diversa prospettiva Fausto Manara in Il sale in zucca (2003) costata che «con i tempi che corrono l’intelligenza ha vita sempre più difficile».

Anche Robert Sternberg, nella nota introduttiva a Why Smart People Can Be So Stupid (Yale, 2002), osserva che «si spendono milioni di dollari nelle ricerche sull’intelligenza, ma quasi nulla si fa per capire come viene travolta da sconvolgenti atti di stupidità».

Il libro raccoglie saggi di vari autori su come le persone intelligenti si comportano in modo stupido. È una compilazione accademica e aneddotica, ma contiene alcuni commenti interessanti. A questo proposito vedi anche Intelligenza, furbizia, dabbenaggine e stupidità di Gabriele Calvi in Social Trends, novembre 2002 ).

È più interessante il contributo di James Welles. Nel 1986 aveva pubblicato una prima stesura di Understanding Stupidity, che poi ha esteso e sviluppato in successive edizioni. Anche questo autore – come Pitkin e Musil cinquant’anni prima – osserva che la stupidità è uno dei problemi meno trattati e approfonditi nello studio della storia e delle culture umane.

Welles ci fa notare che «Benché gli studiosi del comportamento umano abbiano sistematicamente ignorato la nostra dilagante stupidità c’è un’enorme produzione di letteratura scientifica sull’intelligenza. Eppure, vasta com’è, porta a una conclusione predominante: nessuno sa che cosa sia. L’unica cosa che sappiamo con certezza è che, qualunque cosa sia, non è mai stata misurata con i test di intelligenza. Perciò, se siamo intelligenti, non lo siamo abbastanza per sapere che cosa sia l’intelligenza e quindi non sappiamo chi o che cosa siamo».

«Se è comprensibile – continua Welles – che si dedichi così tanto impegno allo studio dell’intelligenza, è stupefacente constatare come il fenomeno molto più diffuso, palesemente pericoloso e potenzialmente devastante, della stupidità sia completamente trascurato. Si potrebbe leggere l’intera letteratura delle scienze sociali senza trovare un cenno alla stupidità. Al massimo ci si limita a metterla da parte come il contrario dell’intelligenza, ma questo serve solo a rendere l’argomento ancora più oscuro».

Ci sono altri autori, anche recentemente, che hanno constatato la difficoltà di definire l’intelligenza – e ancor più la stupidità. Per esempio, nel 2006, Giovanni Sartori.

Fra gli autori italiani sul tema della stupidità è da ricordare Ennio Flaiano, che non ha mai scritto un libro sull’argomento, ma ha dimostrato in diversi suoi scritti di averne capito chiaramente la gravità.


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Fare chiarezza non è facile. Dai commenti dei lettori sembra che questo libro ci sia riuscito. I tre capitoli iniziali sono introduttivi, perché prima di svolgere l’argomento è meglio definire alcune premesse. Comunque è un libro che può essere letto in due modi: partendo dall’inizio, oppure scegliendo fra i diversi argomenti secondo le proprie inclinazioni e curiosità.





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