Il potere della stupidità
Kali

Flaubert e l’ossessione
della stupidità

Giancarlo Livraghi – dicembre 2007


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I biografi di Gustave Flaubert dicono che era sempre stato, fin dai primi anni di attività e di pensero, ossessionato dalla stupidità umana. Aveva continuato a moltiplicare dubbi e preoccupazioni, accumulato un’immensa collezione di stupidaggini e banalità, cercato di definire un’enciclopedia della bétise. Ma non era mai riuscito a dare forma a un “trattato” sistematico sull’argomento, né a un sottiser, cioè un “catalogo ragionato” degli esempi che aveva pazientemente raccolto per molti anni.

Non era riuscito neppure a completare un “dizionario dei luoghi comuni”, ma dai suoi appunti se ne è ricavata una versione abbastanza estesa. (Si trova anche online il testo del Dictionnaire des idées reçues). In alcune edizioni è pubblicato insieme a due testi analoghi: un breve ironico Album de la Marquise e due pagine di Catalogue des idées chic.


Edizione italiana Adelphi 1980
 

È interessante scoprire, nel “dizionario dei luoghi comuni”, le banalità che erano ricorrenti ai tempi di Flaubert, mentre oggi ci appaiono antiquate, e quelle che continuano a imperversare.

Il tema della stupidità e dell’ottusità è ricorrente in vari libri di Flaubert (compresa, per esempio, la galleria di personaggi meschini e sciocchi in Madame Bovary). In particolare aveva lavorato per anni sul romanzo Bouvard et Pécuchet, “epopea della stupidità culturale”, con cui (dicono i biografi) aveva un rapporto intenso di amore-odio – la percezione che potesse essere un buon libro e l’angoscia di non riuscire a farlo come desiderava. Morì prima di averlo finito. Come il Dictionnaire des idées reçues, fu pubblicato “postumo” e incompleto nel 1881.

Nella presentazione dell’edizione italiana del Dictionnaire, curata da Rodolfo Wilcock, si dice: «Durante tutta la vita di Flaubert l’immagine della Stupidità, sotto la possente spinta dei tempi, si era continuamente dilatata dinnanzi a i suoi occhi: non più soltanto attributo inestirpabile della specie umana, ma Potenza Cosmica, l’etere che avvolgeva qualsiasi parola fosse pronunciata, le chiacchiere della comare e le relazioni dell’accademico, gli appelli del politico e le sentenze del farmacista, le similitudini dei lirici e i protocolli degli scienziati».

In un articolo nel Corriere della Sera del 31 marzo 1969 Ennio Flaiano raccontava di aver visto una “riduzione” teatrale di Bouvard et Pécuchet e la commentava così.

«Questi due personaggi sono gli immortali testimoni della stupidità e Flaubert con essi intendeva dimostrare quella del suo tempo; servendosi delle idee allora correnti, oggi confutatissime o dimenticate; mettendoli alla prova nell’applicazione di quelle idee; ordinando un archivio di sciocchezze; compilando un catalogo di idee chic, cioè alla moda. Compito immenso, che la morte gli impedì di portare a termine».

L’articolo si trova in una raccolta di testi di Ennio Flaiano curata da Maria Corti e Anna Longoni in Opere, Scritti postumi, Bompiani, 1988, poi ripubblicata con il titolo La solitudine del satiro da Adelphi, 1996 (pagine 309-311).

In realtà, come già osservato, Flaubert aveva lavorato per tanti anni sull’argomento (in un modo o nell’altro, per tutta la vita) sempre più sgomentato dalla sua immensità. Probabilmente si sarebbe sentito incapace di “portare a termine” l’opera anche se fosse vissuto più a lungo. E non è vero che tutte le stupidaggini di allora siano “oggi confutatissime o dimenticate”. Alcune continuano quasi invariate, altre appaiono travestite secondo nuove mode, ma non per questo sono meno sciocche.

L’articolo di Flaiano continuava con queste osservazioni. «Alla sua amica Louise Colet [Flaubert] scriveva che il suo fine era di arrivare a una comicità portata all’estremo, una comicità che non facesse più ridere. Non dimostrare più niente, scrivere un libro che, come diceva Du Camp, sembrasse opera di un cretino. Ma da allora la stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è nemmeno più la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé».

Poco più avanti, Flaiano commentava che «Il metodo flaubertiano avrebbe dovuto essere applicato dai riduttori alle sciocchezze che vengono oggi diffuse come incrollabili verità. E allora avremmo avuto Bouvard e Pécuchet impegnati a saggiare la verità della cultura di massa, della rivoluzione culturale, del libero erotismo, del delirio scientifico, del collage come romanzo, della contestazione globale, del teatro della crudeltà, della meccanizzazione totale, della disalienazione promessa dai partiti, dell’arte come terapia e della terapia come arte, eccetera. Quale meravigliosa serie di capitoli e scene! E quale catalogo di idee insopportabilmente chic! Ognuno faccia il suo proprio».

E concludeva così. «Oggi Flaubert riscriverebbe il suo romanzo o lo vieterebbe ai riduttori teatrali. Per la ragione che essi non credono nel progredire e nel variare incessante della stupidità. Che oggi non è tanto più borghese, razionalista e volterriana, come ai tempi del farmacista Homais, quanto tesa verso il futuro, piena di idee. Oggi il cretino è pieno di idee».

Il farmacista Homais è una di varie caricature della bétise in Madame Bovary. Incarna, in particolare, la stupidità “scientifica”.

Sono passati centotrent’anni da quando Flaubert si affaticava sull’opera incompiuta e quasi quaranta da quando Flaiano proponeva di aggiornarla. La stupidità continua a imperversare e a “montare in cattedra” con infiniti travestimenti. Oggi, come sempre, è difficile distinguere fra le “nuove” stupidaggini che proliferano ogni giorno e quelle che erano chic anche migliaia di anni fa, ma qualcuno ci ripropone come improvvisa scoperta, labile moda o incauta profezia.

Fra i molti danni della stupidità ci può essere anche la sofferenza che provoca quando ci accorgiamo della sua sconfinata diffusione. Il rischio è che diventi ossessione, disperazione, rassegnazione. E può dare una deprimente percezione di solitudine, in una desolazione culturale come quella che tormentava Flaubert.

Ci sono persone intelligenti, attive e attente che si sentono sole, non perché vivano isolate dal mondo, ma perché si accorgono di essere circondate dalla stupidità, dalla banalità, dalla superficialità delle abitudini convenzionali. Si fanno una domanda preoccupante. «Perché è così difficile trovare qualcuno con cui parlare di quello che davvero mi interessa?».

Non si tratta di eremiti, né di arroganti “elitisti” chiusi in qualche presuntuosa “torre d'avorio”. Hannno famiglia, amici, affetti, lavoro, vita sociale, continue frequentazioni di persone di ogni genere. Ma si trovano a disagio in quelle sabbie mobili di stupidità in cui si rischia continuamente di sprofondare.

Se n’era accorto anche Albert Einstein, che in una lettera a Heinrich Zanger, nel dicembre 1919, scriveva: «Con la fama divento molto più stupido, questo ovviamente è un fenomeno molto diffuso». Scherzava? Probabilmente. Ma non del tutto.

«Se vuoi evitare di vedere un cretino, devi rompere lo specchio» diceva François Rabelais. Ma, in quei felici momenti in cui ci liberiamo della nostra stupidità, sentiamo il pensiero cogliere qualche stimolo interessante, aumenta la percezione del vuoto che ci circonda. Uscendo dalla stupidità ci troviamo soli – in terreni lontani dalle confortanti abitudini dei luoghi comuni e delle sciocchezze dominanti.

Insomma più ci accorgiamo della stupidità, più c’è il pericolo che la constatazione diventi ossessiva. Precipitare nella depressione (o ricorrere a imbambolanti “antidepressivi”) non è un modo per risolvere o attenuare il problema.

Una soluzione, che può essere “consolante”, è rincretinire. Adeguarsi alla stupidità dominante e rallegrarsi di essere in così vasta compagnia. Ma non è sano. Perché il mondo è pieno di gente pronta ad approfittare della nostra stupidità. E perché, se non riusciamo a diventare completamente stupidi, il disagio rimane.

Spesso i lettori chiedono: “qual è il rimedio?”. Non è facile definirlo. Ma, anche in questo caso, rendersi conto del problema vuol dire esserne un po’ meno afflitti. Non credo che ci siano formule magiche, né terapie universali (che, come molte “panacee”, potrebbero aggravare la malattia). Ma ci sono due ingredienti che possono sempre essere utili.

Uno è non cadere nella rassegnazione. Non arrendersi al trionfante potere della stupidità. Che sia spaventosamente diffusa, spesso imperante, ammirata e riverita, non vuol dire che sia invincibile – e soprattutto non vuol dire che debba essere sopportata o imitata.

L’altro rimedio è la curiosità. Per quanto desolante sia il panorama, qualcosa di “non stupido” si riesce a trovare. Che siano grandi o piccoli stimoli, idee profonde o dettagli divertenti, sono sempre utili.

Ci aiutano a non cadere nell’ossessione, a tenere la mente in esercizio, a trovare l’energia necessaria per attraversare il deserto fino alla prossima oasi. Che, negli inesplorati territori del pensiero e della cultura, talvolta può comparire quando e dove meno ce la aspettiamo, regalandoci un po’ di imprevisto buonumore.



Vedi anche La stupidità dei “luoghi comuni”



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