timone Il Mercante in Rete
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Marketing e comunicazione nell'internet


Numero 45 – 6 maggio 2000

 

 


Questo è un numero breve del mercante in rete (solo tre argomenti).
Per vari sovraccarichi di lavoro che affliggono chi lo scrive.
Ma anche per cogliere due fatti "di attualità" in questo periodo
– oltre a un libro che ho avuto la fortuna di leggere in questi giorni.

Fra qualche settimana riprenderemo il filo di vari sviluppi
e anche l’analisi dei dati (se e quando ci saranno novità significative).

Intanto oltre a due testi già citati
La gatta frettolosa fa i gattini ricchi?
Un pascolo per androidi di seconda scelta?
(su un argomento simile all’editoriale di questo numero)

sono usciti due nuovi articoli su temi "attinenti".
La batracomiomachia dei domain
Che cosa non è la nuova economia





loghino.gif (1071 
byte) 1. Editoriale:
Le debolezze delle "nuove imprese"


Devo confessare, con un certo dispiacere, che ho sbagliato una diagnosi. Spero che non sia un errore di prospettiva nel lungo periodo; ma i tempi sono molto più lenti di ciò che pensavo (o speravo) qualche mese fa.

C’erano segnali, apparentemente forti, di ripensamento. Sembrava che si stesse affermando una comprensione più chiara della necessità di dedicare vera e paziente attenzione alla nuova economia e all’uso della rete per attività di ogni specie – commerciali o non – che non fossero l’ennesimo sito inutile o l’ennesimo presunto "portale" o l’ennesimo tentativo di fare facili guadagni aggrappandosi a qualche ondata speculativa in borsa. Queste cose sono state dette e ripetute (anche in Italia, da quasi un anno) ma finora non hanno ancora preso il sopravvento sulla marea incontenibile delle false promesse, delle ipotesi semplicistiche e di una visione irreale della rete e delle possibilità che offre.

Rimane grande, e preoccupante, l’impreparazione e il disorientamento delle imprese "tradizionali" in tutto ciò che riguarda l’uso della rete. Ma ciò che è ancora più bizzarro è la mancanza di spessore, di chiarezza strategica, di capacità gestionale in molti protagonisti della cosiddetta innovazione.

Questo non è solo un problema italiano. Forrester Research è un istituto che ha spesso diffuso previsioni mirabolanti sulla crescita dell’e-business negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Mi sembra interessante notare come anche una fonte orientata in quella direzione si sia accorta che "non è tutt’oro quello che luce".

Alla fine di aprile George F. Colony, presidente della Forrester, ha pubblicato un articolo intitolato Hollow.com in cui spiega che molte imprese nella "nuova economia" devono essere smascherate per quello che sono: vuote, gonfie d’aria, prive di profondità.

Recentemente ho intervistato parecchi CEO su che cosa succederà nei prossimi dieci anni e come l’internet cambierà le loro imprese. La maggior parte di quelle interviste era con i capi delle tradizionali grandi imprese globali; ma il 20 % delle conversazioni era con i leader delle "Dot Com", le imprese nate e cresciute nella "nuova economia".

Come sappiamo, i responsabili delle imprese tradizionali sono spaventati dalla rete, hanno le idee confuse e si arrabattano per aggiornarsi. Ma la grossa rivelazione è stata la bassa qualità dei CEO delle nuove imprese rispetto ai tradizionalisti.

Che cosa manca? Molti di questi CEO sono privi di spessore, profondità, esperienza e buon senso gestionale. La loro prospettiva è di breve periodo – in media tre anni. Parlano della fluidità del loro personale, un’accozzaglia di persone in continuo cambiamento, che affluiscono attratte dalle stock option e dalla speranza di manovre in borsa e defluiscono alla ricerca di qualche altra occasione speculativa.

Il loro modo di pensare si basa su cliché semplicistici. "Essere come Amazon". "Fare tanta pubblicità". "L’importante è occupare territorio". "Non vogliamo fare profitto troppo presto". "Bisogna essere nel B2B" (Per chi non lo sapesse, è la sigla del gergo corrente per business to business – n.d.t.). C’è una ricerca spasmodica della valutazione (in borsa) mentre il valore (ciò che serve ai clienti) è un argomento marginale e trascurato. In molti modi queste imprese danno la sensazione di scatole vuote, in cui mancano gli ingredienti fondamentali per un successo duraturo.

Quattro dinamiche guidano questa mentalità.

La prima è l’imitazione del passato. Guardano indietro a imprese come Microsoft, Sun o Cisco e si convincono che muoversi per primi voglia dire scatenare un uragano che toglie l’aria ai concorrenti. Deduzione: la fretta è tutto, velocità o morte.

La seconda è la gelosia. Gli imprenditori vedono gente che non vale nulla diventare ricca in fretta – e vogliono una fetta della torta. Subito e non importa come.

La terza è la golosità del denaro disponibile. Il mercato finanziario è ingenuo e pronto a investire in "imprese" senza consistenza. Chi propone venture capital apprezza le finestre di breve periodo offerte della speculazione e incoraggia gli imprenditori a pensare nel breve termine. (Vedi l’ottimo articolo "Built to flip" per una spiegazione di questa tendenza).

La quarta è l’ingordigia. Il pensiero dominante è «Perché dovrei arricchirmi lentamente con molto lavoro quando posso farlo in fretta lavorando poco?»

Questi fattori generano imprese vuote, scarse di esperienza, saggezza, impegno, visione di lungo termine, attenzione al cliente, capacità di costruire. Queste imprese non sono fatte per reggere la concorrenza, non sono fatte per dare valore sostenibile, non sono fatte per durare. Era imbarazzante constatare l’idiozia delle hollow.com nella trasmissione televisiva del Super Bowl (la finale del campionato di calcio americano – n.d.t.). Al terzo intervallo della partita la pubblicità delle Dot Com era diventata la parte più comica dello spettacolo. Con pochissime eccezioni, era un fenomenale spreco di denaro. Quasi nessuno trasmetteva l’identità di un’impresa o informazioni rilevanti sui servizi offerti.

Come andrà a finire? Alcune straordinarie imprese saranno costruite in modo da dominare l’economia dell’internet. Ma permettetemi di sottolineare la parola costruite. Ci vorranno anni. Fatica, impegno, sangue, lacrime e sudore. Consapevolezza pazientemente sviluppata. Scelte illuminate e decisioni chiare per costruire i veri protagonisti. Le hollow.com finiranno nel cestino della carta straccia – insieme a una quantità di colpevole venture capital e day trading.

Una diagnosi severa. Ma ben motivata.

Non meno interessante è il lungo articolo di Jim Collins, Built to Flip, citato da George Colony. Riassumerne anche solo le parti più rilevanti occuperebbe troppo spazio; ma per capirne il senso possono bastare le parole di una ex allieva di Jim Collins, con cui l’articolo inizia.

Ho sviluppato il nostro modello di business sull’idea di creare un’impresa forte e durevole – come ci insegnavi a Stanford – e i venture capitalist mi hanno guardato come se fossi matta. Poi uno di loro mi ha puntato un dito e ha detto: «Non ci interessano imprese forti e durevoli. Torna da noi con un’idea che puoi realizzare velocemente e portare in borsa o vendere entro 12 o 18 mesi».

E due brevi paragrafi con cui l’articolo si conclude.

Perché la nuova economia ritrovi la sua anima dobbiamo porci alcune domande dure. Siamo impegnati a fare il nostro lavoro con autentica eccellenza, non importa quanto sia arduo il compito e lunga la strada? Il nostro lavoro è in grado di produrre un risultato di cui possiamo essere orgogliosi? Il nostro lavoro ci dà un senso di valore e significato che va oltre il fatto di guadagnare denaro?

Se non siamo in grado di rispondere si a queste domande, siamo sulla strada del fallimento e non importa quanti soldi potremo intascare. Ma se siamo capaci di rispondere si siamo in condizione di ottenere non solo un successo finanziario ma anche il più prezioso dei risultati: una vita di lavoro che vale la pena di essere vissuta.

E in Italia? Se ci guardiamo intorno vediamo ripetersi gli stessi errori, la stessa superficialità, le stesse frettolose miopie. Compresa la disperante, rutilante, ripetitiva nullità delle campagne pubblicitarie (e in generale delle promesse) delle imprese che si contendono il mercato dell’internet. E che spesso si confondono con la pari nullità di chi vende tutt’altro ma usa gli stessi triti cliché. È quasi impossibile (quanto inutile) ricordare chi ci stia proponendo l’ennesima donna nuda marchiata come una bestia da macello, l’ennesimo preliminare di sesso, l’ennesimo personaggio che forse è un’idoru o forse è una donna vera fotografata male, l’ennesimo puerile pupazzo, l’ennesima pretenziosa pseudofilosofia del futuro, l’ennesimo contributo al confusopolio tariffario... o l’ennesima pretestuosa sceneggiata di questo o quell’altro personaggio televisivo.

Ancora una volta, stiamo pedestremente copiando il peggio della lezione americana. Cosa che da noi è ancora più grave, perché non abbiamo la stessa dimensione di risorse né un mercato interno abbastanza grande per poterci dare uno spazio sufficientemente ampio in cui vagare senza meta con la speranza di imbatterci in un inaspettato tesoro. Ancora una volta, la conclusione è chiara: dobbiamo imparare agli errori altrui non per copiarli ma per fare meglio. Non è facile, ma è possibile; e se tanti dei più pericolosi concorrenti internazionali commettono così banali errori è facile dedurne che ci sono spazi importanti di sviluppo per chi sa far meglio. Cioè non tentare di rapinare la nuova economia, ma coltivarla con il necessario impegno.



Post scriptum (20 maggio 2000)

Devo alla cortesia di un amico la scoperta di una curiosa vignetta di Dana Summers, pubblicata sull’Orlando Sentinel. Me l’ha segnalata Stefano Crudele dopo aver letto questo articolo.

dotcom

(Per chi non sa l’inglese... il mendicante a sinistra porta un cartello che dice "disposto a lavorare per mangiare" – quello a destra "dispostoalavorarepermangiare.com").
Si può interpretare in vari modi... ma conferma una certa diffusa perplessità a proposito dei soldi versati indiscriminatamente sulle "dot com".

 

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loghino.gif (1071 
byte) 2. Il virus dell’informazione


Non si contano più gli esempi di un fenomeno preoccupante, che esiste da quando si è cominciato a parlare diffusamente dell’internet (cioè da cinque o sei anni) e che non accenna ad attenuarsi. La quantità esorbitante di pseudo informazioni e di disorientanti commenti che confondono le idee. Compreso il frequente annuncio di "catastrofi" inesistenti.

Uno degli argomenti preferiti dei "cronisti della catastrofe" è la diffusione dei virus. Spesso con la ripetizione di notizie del tutto false; proliferano i cosiddetti hoax, cioè virus immaginari inventati per scherzo ma presi sul serio da chi riporta la "notizia" senza verificarne né la fonte né la credibilità.

Il virus I love you, di cui si parla in questi giorni, non è uno scherzo. Esiste davvero; e si è davvero "replicato" velocemente – anche cambiando nome per rendersi meno facilmente riconoscibile (Per chi volesse un’analisi tecnica, vedi Analisi del worm I-worm.LoveLetter sul sito www.avp.it). La notizia ha un certo interesse perché è giusto chiedersi come mai un software sostanzialmente banale (dicono "potrebbe averlo scritto uno scolaretto di dodici anni" e pare che sia vero) possa diffondersi così facilmente. Ma la cosa è stata amplificata oltre ogni limite della credibilità fino a trasformare uno scherzo un po’ birbonesco in una tragedia mondiale. Cosa che, per fortuna, non è.

Prima di tutto, questo virus non fa danni gravi. La notizia diffusa ("messi fuori uso 45 milioni di computer") è una panzana. Non so come abbiano fatto a contarli; ma che siano centomila o cento milioni il fatto è che, nella peggiore delle ipotesi, il malandrino cancella alcuni file musicali e alcune immagini (solo, pare, quelle in formato jpeg). Un inconveniente fastidioso per chi ha molte cose di quel genere; ma non certo tale da danneggiare seriamente una grande organizzazione pubblica o qualsiasi impresa. Potrebbe essere grave per chi si occupa di musica o di grafica; ma se non ha la prudenza di avere un backup sta gestendo malissimo il suo sistema, perché potrebbe perdere tutto non solo a causa di un virus ma in conseguenza di un guasto al suo computer o di una disattenzione da parte di chi lo usa.

Inoltre... il virus non si propaga se non si usa Outlook – un sistema di posta diffuso quanto notoriamente scadente. In più occorre che chi riceve il messaggio commetta una serie di errori.

  • Aprire un allegato di origine sconosciuta senza controllarlo prima (preferibilmente con un antivirus) è un’imprudenza. Queste sono cose che si dovrebbero insegnare al livello più elementare di formazione nell’uso di un computer o di collegamento all’internet.
  • Ci vuole una buona dose di ingenuità per non avere qualche dubbio quando si riceve un messaggio inaspettato con un titolo come "ti amo". Chiunque abbia un po’ di pratica della rete sa che spesso dietro titoli del genere si nascondono forme varie di spamming, proposte commerciali travestite, o qualche invito a un sito "erotico". Non dico che ci si debba aspettare un virus, ma un minimo di diffidenza dovrebbe essere naturale.
  • Pare che alcune versioni di Outlook aprano automaticamente gli allegati. Non mi sembra intelligente che qualcuno proponga una soluzione del genere; ed è sciocco accettarla. Può sembrare comodo, ma la pigrizia in queste cose non è sana. Sarebbe come un citofono che aprisse automaticamente la porta di casa. Comodo, se abbiamo organizzato una festa e stiamo aspettando molti amici. Pericoloso se è un sistema perennemente funzionante e aperto a qualsiasi estraneo. E anche quando stiamo aspettando gli amici... non è meglio che ci sia qualcuno a controllare che non entrino visitatori indesiderati?
  • Non è vero che il virus, per ri-diffondersi, usi tutti gli indirizzi e-mail che una persona ha nel suo computer. Usa solo quelli che sono predisposti come "abituali" nel suo sistema di posta. Una procedura non necessaria e intrinsecamente pericolosa proprio perché esistono i "replicanti" ma anche perché può facilmente dar luogo a errori (spamming involontario o invio di messaggi a indirizzi sbagliati). Gli automatismi, se non sono gestiti in modo esperto e molto attento, sono sempre una fabbrica di errori (anche in assenza di qualsiasi virus).
  • I messaggi "infettati" partono automaticamente (e chi li ritrasmette non se ne accorge) solo se il sistema di e-mail è impostato per spedizione immediata e incontrollata. Di nuovo, la pigrizia è pericolosa. Sarebbe come imbustare lettere senza rileggerle e senza controllare che l’indirizzo sulla busta sia quello del destinatario. C’è chi lo fa, con conseguenze spesso comiche e talvolta imbarazzanti. Nella posta elettronica questa cattiva abitudine forse è più diffusa – e ne vediamo l’effetto in un’infinità di messaggi a destinatari sbagliati, pieni di errori, con contenuti confusi o incomprensibili. Perché non si diffonde un po’ meglio, anche in rete, la conoscenza dei più elementari principi di attenzione e cortesia nello scrivere? Il risultato sarebbe probabilmente qualche messaggio inutile in meno e qualche cosa interessante in più. Prima ancora di arrivare al fatto che delle distrazioni e superficialità approfitta facilmente chi diffonde cose irrilevanti, catene di Sant’Antonio, ripetizioni di sciocchezze... e virus.

Mi sembra rilevante anche il fatto che nel momento in cui questa notizia si è diffusa suoi giornali erano già disponibili antivirus in grado di scoprire e neutralizzare l’intruso. Quindi con un po’ di attenzione era facile riprendere il controllo.

Fra le varianti di questo worm ce n’č una (potenzialmente più nociva) che si presenta col titolo "Festa della mamma". Di nuovo un tentativo di ingannare giocando sugli affetti. Ma bisogna essere molto ingenui o distratti per cascarci – specialmente dopo che sono ampiamente diffuse notizie sulla versione "Ti amo". Un finto addebito per un ordine mai fatto per un presunto diamante che costa 326 dollari è palesemente sospetto. Curiosamente questo trucco somigia un po’ a una truffa spagnola di cui si è parlato cinque mesi fa.

Non è chiaro se le molteplici varianti di loveletter siano opera della stessa persona che ha prodotto il primo virus della serie o di altre che si divertono a "cavalcare l’onda". Fatto sta che ce ne sono parecchie; e alcune (nel tentativo sfruttare l’enorme diffusione della notizia non solo in rete, ma anche sulla stampa e in televisione) si travestono da improbabili specie di "antidoti" (vedi Overview of known variants of LoveLet virus).

Nessuno che conosco è stato infettato da questo virus (né la prima "lettera d'amore" né alcuna delle varianti). Perché? Ad alcuni di noi – me compreso – non è neppure arrivato (ci sono arrivati, invece, tempestivi avvertimenti della sua esistenza). Probabilmente perché ci muoviamo in ambienti in cui non sono frequenti i molteplici errori necessari alla sua diffusione. Altri l’hanno ricevuto ma non ci sono cascati: non hanno aperto l’allegato e non hanno attivato il software che conteneva. Per la normale diffidenza che si ha sempre in questi casi. Le persone che conosco sono supertecnici specialisti in virologia? Macché. Gente di ogni specie e con le più diverse formazioni culturali e professionali. Ma con un po’ di esperienza della rete e una ragionevole dose di buon senso.

E se fossero stati infettati? Se ne sarebbero accorti quasi subito, l’avrebbero sradicato con un buon antivirus, non avrebbero subito altro danno che la perdita di qualche file musicale o immagine jpeg che avrebbero sostituito in mezz’ora di lavoro (qualcosa di più se si tratta di persone che fanno un uso pesante di grafica o di musica su computer... ma in questo caso è impensabile che non abbiano un backup). Fastidioso? Si; ma non grave.

Le conclusioni mi sembrano due.

La prima è che, come spesso succede, la notizia è stata "gonfiata" enormemente al di là della sua reale rilevanza.

La seconda è che c’è una madornale impreparazione. Se i sistemi di posta fossero concepiti bene, se le persone fossero correttamente informate, se gli amministratori di sistema facessero bene il loro lavoro, anche un "replicante" malignamente veloce come questo avrebbe vita breve e diffusione limitata. Non so che cosa avesse in mente l’inventore di questo virus. Ma se voleva dimostrare che ci sono in giro tecnologie deboli e male utilizzate – e che basta una modesta "trovata" come questa per scatenare una smisurata e sconsiderata bagarre nel sistema informativo in mezzo mondo – ci è perfettamente riuscito. Potrebbe essere un benefattore se, passata l’inutile buriana delle false notizie e degli esagerati allarmi, si badasse a organizzare meglio le necessarie cautele e quindi a evitare un attacco che non sia, come questo, quasi innocuo ma possa fare davvero danni rilevanti.


Post scriptum

A questo proposito vedi anche l’articolo di Manlio Cammarata pubblicato su InterLex l’11 maggio: "I love you": ma i veri colpevoli non sono a Manila.



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loghino.gif (1071 
byte) 3. Tecnologie e metafore (Neal Stephenson)


Se in questi giorni non avessi dovuto passare alcune ore in aeroplano e in treno, chissà quando avrei trovato il tempo di leggere il bel libro di Neal Stephenson In the beginning was the command line.

libro

Breve (150 pagine), chiaro, divertente e illuminante. Dice cose abbastanza note a chi ha competenza tecnica in fatto di computer e di sistemi operativi, ma in un’ottica culturale brillante e in un linguaggio chiaro e comprensibile anche per chi non sa nulla di informatica.

Spiega, con incisiva lucidità, come ci sia un contrasto fra le scelte comode ma traditrici offerte da chi ci somministra soluzioni predefinite imbrigliandoci in un gioco di discutibili metafore; e la difficoltà, che non tutti sono disposti ad affrontare, di capire che cosa c’è dietro e azionare direttamente i comandi. E come questo non sia solo un problema delle "interfacce grafiche" che si frappongono fra noi e il sistema operativo del computer, ma più ampiamente di quelle metafore che ci propinano la televisione, il cinema, la cultura-spettacolo in cui siamo immersi – e più in generale un sistema informativo che gira su se stesso, sempre più affogato nell’apparenza e sempre più lontano dalla realtà.

Nell’ultimo capitolo Neal Stephenson non offre formule né soluzioni. Ci lascia con un dubbio importante, che ognuno di noi deve cercare di risolvere. Quanto e quando possiamo affidarci alla comoda ma illusoria mediazione delle metafore? Quando invece dobbiamo scegliere strumenti meno facili ma pių diretti ed efficaci? Un problema del conoscere e dell’agire, che va molto oltre l’ambito iniziale da cui parte la sua analisi – una chiara e interessante storia di come siamo arrivati ai sistemi operativi di oggi e alle molteplici assurdità delle scelte che siamo indotti (o costretti) a fare.

Questo libro sarebbe molto interessante anche se si limitasse a parlare di tecnologia dell’informazione. Ma va oltre – e mette il dito su problemi culturali che meritano qualche meditazione. Dopo qualche ora di piacevole e divertente lettura, alla fine ci lascia un po’ a disagio. E fa bene. Perché siamo un po’ troppo abituati ad accoccolarci nelle abitudini.

 

 

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Lista dei link

Com’è abituale in questa rubrica, ecco una lista dei link
per comodità di chi stampa il testo prima di leggerlo
e quindi non può andare direttamente alle connessioni
offerte durante la lettura online.


La gatta frettolosa fa i gattini ricchi? http://gandalf.it/offline/off22.htm

Un pascolo per androidi di seconda scelta? http://gandalf.it/offline/off23.htm

La batracomiomachia dei domain http://gandalf.it/offline/off25.htm

Che cosa non è la nuova economia http://gandalf.it/nodi/nodo01.htm

Hollow.com http://www.forrester.com/ER/Marketing/0,1503,183,FF.html

Built to flip http://www.fastcompany.com/online/32/builttoflip.html

Confusopolio (Scott Adams) http://gandalf.it/mercante/merca43.htm#heading02

Analisi del worm I-worm.LoveLetter http://www.avp.it/text/lovelett.htm

Un nuovo genere di truffa online http://gandalf.it/mercante/merca41.htm#heading06

Overview of known variants of LoveLet virus http://www.sophos.com/virusinfo/articles/loveletoverview.html

"I love you": ma i veri colpevoli non sono a Manila http://www.interlex.it/tlc/iloveyou.htm.