La vacuità della notorietà
e il bieco potere delle apparenze

Giancarlo Livraghi – giugno 2012

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È interessante che a ragionare sui misfatti della “notorietà” sia il più noto, su scala mondiale, degli scrittori italiani viventi. Nel numero dell’Espresso datato 28 giugno 2012 Umberto Eco, nella sua bustina di Minerva, comincia con un’analisi del concetto di “reputazione”.

«Un tempo la reputazione era soltanto o buona o cattiva, e quando si rischiava una cattiva reputazione (perché si faceva fallimento o perché ci dicevano cornuto) si arrivava a riscattarla col suicidio o col delitto d’onore. Naturalmente tutti aspiravano ad avere una buona reputazione. Ma da tempo il concetto di reputazione ha ceduto il posto a quello di notorietà. Conta essere “riconosciuto” dai propri simili, ma non nel senso del riconoscimento come stima o premio, bensì in quello più banale per cui, vedendoti per strada, gli altri possano dire “guarda, è proprio lui”. Il valore predominante è diventato l’apparire, e il modo più sicuro è apparire in televisione. E non è necessario essere Rita Levi Montalcini o Mario Monti, basta confessare in una trasmissione strappalacrime che il coniuge ti ha tradito».

Può sembrare una comica banalità, un vezzo sciocco e quasi innocuo, ma il problema è serio. L’apparire prevale sull’essere a tal punto che al mondo reale si sostituisce il teatro delle marionette. E chi tira i fili spesso rischia di diventare pupazzo, travolto nelle spire del gioco che crede di controllare.

«Il primo eroe dell’apparire – continua Umberto Eco – è stato l’imbecille che andava a mettersi dietro agli intervistati e agitava la manina. Ciò gli consentiva di essere riconosciuto la sera dopo al bar (“lo sai che ti ho visto in tv?”) ma certamente queste apparizioni duravano lo spazio di un mattino».

Le conseguenze si complicano e si incancreniscono. «Quindi gradatamente si è accettata l’idea che per apparire in modo costante ed evidente occorresse fare cose che un giorno avrebbero fruttato la cattiva reputazione». Fino a farne un vanto, un successo, premiato dalla fama. Come traspare, per esempio, da uno dei balordi neologismi del degradante gergo giornalistico: chiamare “eccellente” qualcosa (o qualcuno) che in realtà è pessimo (come lo sono i motivi per cui sale “all’onore delle cronache”).

«Non che non si aspiri anche alla buona reputazione, ma è faticoso conquistarla, dovresti aver compiuto un atto eroico, aver vinto se non un Nobel almeno uno Strega, aver passato la vita a curare i lebbrosi, e non sono cose alla portata di ogni mezza calzetta». Dissento un po’ da Umberto Eco sul valore dei premi letterari, ma è molto chiaro il modo in cui continua.

«Più facile diventare oggetto di interesse, meglio se morboso, se si è andati a letto per denaro con una persona famosa, o se si è stati accusati di peculato». Cioè la “fama” peggiore è quella che si ottiene più facilmente.

«Non scherzo, e basta guardare l’aria fiera del concussore o del furbetto del quartierino quando appare nel telegiornale, magari il giorno dell’arresto: quei minuti di notorietà valgono il carcere, meglio se la prescrizione, ed ecco perché l’accusato sorride. Sono passati decenni da quando qualcuno ha avuto la vita distrutta perché lo hanno ripreso in manette. Insomma il concetto è: “se appare la Madonna, perché non io?” E si sorvola sul fatto di non essere una vergine».

Non è un caso, ci fa notare Eco, che recenti libri e studi riguardino la scomparsa della vergogna. «Ora questa frenesia (e la notorietà a ogni costo, anche al prezzo di quello che un tempo era il marchio della vergogna) nasce dalla perdita della vergogna o si perde il senso della vergogna perché il valore dominante è l’apparire, anche a costo di svergognarsi? Propendo per la seconda tesi. L’essere visto, l’essere oggetto di discorso è valore talmente dominante che si è pronti a riunciare a quello che un tempo si chiamava il pudore (o il sentimento geloso della propria privatezza)».

Non si tratta, ovviamente, di fare “moralismo”. Il problema è una generale e crescente caduta dei valori, una svergognata esibizione del peggio, continuamente alimentata dagli squallidi pettegolezzi dei mass media e dalla moda dell’apparire e della volgarità, a scapito non solo di ogni valore etico, ma anche del più elementare buon gusto.

«Roberto Esposito – “La vergogna perduta”, la Repubblica, 16 giugno 2012 – notava che è segno di mancanza di vergogna anche parlare ad alta voce al telefonino sul treno, facendo sapere a tutti i propri affari privati, quelli che un tempo si sussurravano all’orecchio. Non è che uno non si renda conto che gli altri lo sentono (sarebbe solo un maleducato) è che inconsciamente vuole farsi sentire, anche se i suoi fatti privati sono irrilevanti. Ma ahimé non tutti possono avere fatti rilevanti, come Amleto o Anna Karenina, e quindi basta essere riconosciuto come escort o come debitore moroso».

Il fenomeno non è del tutto nuovo. Lo diceva, per esempio, 350 anni fa Jean de La Fontaine. «Tutti i cervelli del mondo non riescono a prevalere contro la stupidità che è di moda». E ho già citato, in alcune occasioni, una esemplare lettera di Albert Einstein del 1919. «Con la fama divento sempre più stupido, questo ovviamente è un fenomeno molto diffuso».

Ma “ai giorni nostri” il malanno ha assunto dimensioni esasperanti. La sempre crescente diffusione (in quella parte del mondo in cui viviamo) di strumenti di informazione e comunicazione personale è ovviamente, in sé, una risorsa. Ma il modo in cui sono usati continua a degenerare. Non servono rimproveri, “predicozzi”, lamentele o polemiche. Né perversi divieti o censure. Ma occorre un’energica dose di buon senso – e anche di cortesia, reciproco rispetto, correttezza, “buone maniere”.

L’esempio potrebbe, dovrebbe, venire “dall’alto”. Da chi controlla le leve del potere e dell’informazione. E anche da chi (spesso “per futili motivi”) ha più notorietà e visibilità. Sta squallidamente succedendo il contrario.

Uno dei problemi è che i “famosi” sono, a loro volta, vittime del meccanismo. Prigionieri della loro “immagine”. Confusi da una distorta “visione del mondo”.

Stranamente, di questo problema ho qualche piccola esperienza personale. Non ho mai “cercato la fama” – e infatti non ce l’ho. Ma è accaduto che, all’interno di un particolare mondo professionale, fossi “parecchio” conosciuto. E così ho incontrato il fantasma.

Quell’essere irreale è la percezione che hanno di me persone che non mi conoscono. Un insieme di supposizioni e di “sentito dire” che creano un’identità inesistente, ma fortemente delineata nella mente di chi la percepisce. Radicata in una varietà di chiacchiere di diversa origine. Qualcuna intenzionalmente malevola (il successo genera invidia) ma più spesso soltanto confuse dal disordine del “passaparola”.

Accadeva così (talvolta accade ancora) che incontrassi una persona con cui la conversazione era molto pasticciata perché io ero io mentre il mio interlocutore credeva di parlare con il fantasma. La cosa può essere comica, ma può anche provocare fastidiosi malintesi.

Nei “genericamente famosi” (ma può accadere anche su scala molto più piccola, se qualcuno ha un fedele gruppetto di imitatori e “seguaci”) la sindrome si aggrava fino a diventare inguaribile. Rischiano di vivere in un mondo immaginario e di cadere in un tossico delirio di onnipotenza o di infallibilità. Questo è uno dei motivi per cui dobbiamo sempre stare in guardia contro il potere della stupidità e la stupidità del potere.



Alcuni testi su temi “attinenti”

Due capitoli di Il potere della stupidità
18 Il circolo vizioso della stupidità
e 22 Il problema dell’idolatria
e anche, fra i più recenti,
Tettontimento
C’era una volta il mercato
La crisi dell’informazione
Prostituzione che cosa vuol dire?
Uomini e topi
Stupidità e perversità dell’informazione



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