labirinto
Il filo di Arianna


giugno 2011

Giancarlo Livraghi


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(migliore come testo stampabile)

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Questo articolo, pubblicato online nel dicembre 2010, è stato poi ampliato su richiesta
della rivista l’attimo fuggente per essere stampato nel suo numero 19 (giugno 2011)

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“Tettontimento”
(tittytainment o entetanimiento)

Sembra uno scherzo. Ma è un problema serio.
Definito con quel nome (ironico ma non troppo) sedici anni fa.
Praticato in ogni cultura umana, da secoli e millenni,
per intenzionale inganno o per inconsapevole imitazione.
Ma particolarmente imperversante nel complesso sviluppo
che hanno oggi i sistemi di informazione e comunicazione.


Non si finisce mai di imparare. Ho scoperto recentemente, con sedici anni di ritardo, che in un convegno a San Francisco nel settembre 1995 Zbigniew Brzezinski aveva definito un neologismo: tittytainment. Sono in ritardo anche nell’accorgermi che un autore spagnolo, Gabriel Sala, ha sviluppato il tema nel 2007 (chiamandolo entetanimiento) con il suo energico e polemico Panfleto contra la estupidez contemporánea.

panfleto
 

Non è certo una novità nel sito gandalf.it – qui se ne parlava, benché in termini diversi, quindici anni fa. Si è tornati varie volte, in vari contesti, sull’argomento. E non è solo un problema della nostra epoca che i sistemi di informazione e comunicazione siano usati per distrarre, confondere, intontire. È sempre stata una pratica del potere, fin dalle origini della nostra specie.

Anche senza arrivare agli estremi che definiamo “orwelliani” per la drammaticamente efficace descrizione che ne ha fatto George Orwell in Animal Farm e 1984 (o a quelli ancora prima, e più incisivamente, proposti da Aldous Huxley in Brave New World) il controllo e la manipolazione della conoscenza sono sempre stati, e continuano a essere, uno strumento di dominio in ogni cultura umana, dalle più ferocemente repressive alle più libere e aperte, ma tuttavia condizionate da chi ha le leve, politiche, economiche o culturali, per influire su ciò che si sa (o si crede di sapere) e sul modo in cui si percepisce.

Dobbiamo però constatare che oggi ha caratteristiche nuove un fenomeno definibile tittytainment (o entetanimiento). Sul filo dello scherzo, possiamo tradurre “tettontimento”. Ma il fatto è troppo serio per poterlo ridurre a una leggera ironia.

È chiaro che non si tratta solo di “tette”. Né di altre parti del corpo (non sempre e non solo femminile) più o meno esposte o messe in evidenza. È vero, purtroppo, che la proliferazione di scollature e svestimenti, malizie e seduzioni (mentre ovviamente in sé non è né riprovevole né scandalosa) imperversa esageratamente in ogni contesto come strumento di presunta “attrazione” (in realtà, distrazione). Ma sono anche molti altri i modi per cullare, divagare, disorientare, diluire l’attenzione.


tittytainment

C’è un sito web dedicato al tittytainment. In realtà è solo una pagina, messa online nell’agosto 1999 e da allora mai sviluppata. Spiega così l’origine del “neologismo”.
«L’inventore della parola “tittytainment” è Zbigniew Brzezinski, che fu per quattro anni, dal 1977 al 1981, national security advisor del presidente Jimmy Carter.
[Anche co-fondatore con David Rockefeller, nel 1973, della Trilateral Commission, un’organizzazione privata per intese di potere economico fra gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone. Ancora oggi è un importante consulente nello staff del presidente Barack Obama. – n.d.r.].
La usò per la prima volta in un incontro con vari leader mondiali al Fairmont Hotel di San Francisco alla fine di settembre 1995 su invito del “padre della perestroika e della glasnost” Michail Gorbaciov. Il dibattito riguardava “il futuro del lavoro”.
I convenuti tratteggiarono un nuovo ordine sociale e sembra che tutti fossero d’accordo nel pensare che nella società del ventunesimo secolo il 20 per cento delle persone avrebbe avuto un lavoro e l’80 per cento sarebbe stato tenuto docile, come in uno stato di semi-ipnosi, per mezzo di quello che Brzezinski definì “tittytainment”: una mescolanza di
entertainment desolatamente prevedibile, al più basso comun denominatore, per l’anima – e nutrimento per il corpo.
La parola “tittytainment” si forma con
tits ed etertainment, come se le mamme nutrissero i bambini con la somministrazione di una droga nell’allattamento».
 

Di quel convegno di sedici anni fa si è perso ogni ricordo – come di tante azzardate profezie sul “nuovo secolo”. Sappiamo che le vicende dell’economia e i problemi del lavoro hanno avuto tutt’altro, e diversamente drammatico, percorso. Ma l’infezione del tittytainment c’è – e continua a peggiorare.

Il metodo più semplice per imporre la volontà del potere è la violenza, insieme alla paura, all’ignoranza e alla privazione di libertà di informazione. Ancora oggi usato con spietata crudeltà in molte parti del mondo. Ma quando e dove un controllo così brutale non è possibile si ricorre al “tettontimento”.

È interessante che nell’origine del concetto di tittytainment il significato di “tetta” non fosse inteso solo come banale seduzione – ma significasse anche somministrazione di intontimento (e perciò stupidità) con il latte materno.

La metafora è perversamente chiara. Con false “coccole” indurre all’obbedienza. “Cullare” per assopire.

I buoni genitori, come i buoni insegnanti, sanno che il loro compito non è solo educare e proteggere i bambini, ma anche farli crescere così che da adulti siano in grado di essere indipendenti e responsabili. Tutt’altra è l’intenzione di chi ci vuole rimbambire per tutta la vita.

E non sono soltanto coccole. Si può distrarre e intontire anche con la “cronaca nera”, l’esasperata elucubrazione di delitti e misfatti, orrori e mostruosità, dolori e sofferenze, oltre ogni ragionevole limite del dovere (e diritto) di cronaca. Con la continua proliferazione del futile e dell’inutile. Con interminabili dibattiti su un’infinità di argomenti (compresi i più sordidi o banali maneggi della politica) in cui la confusione e la noia prevalgono su ogni tentativo di capire quali siano i problemi reali – e quali (se ci sono) i modi per risolverli.

Il problema non è che esista spettacolo o informazione “leggera”. Divertimenti, scherzi, fantasie e comicità non sono necessariamente sciocchezze. L’arte di “intrattenere” ha un ruolo piacevole, a suo modo utile. Quando è ben fatta, può essere più educativa di elucubrazioni noiose o dissertazioni incomprensibili. Solo un inguaribile pedante può pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nel divertimento, nel gioco, nella distensione, nelle gradevoli divagazioni. Ma diventano un problema quando servono a soffocare l’informazione, la conoscenza, la libertà, il pensiero, la cultura – e (come vedremo più avanti) a spegnere la responsabilità.

Un caso particolare è quello che oggi, chissà perché, si usa chiamare gossip. Come se un nome straniero potesse attribuire valore o qualità all’ignobile arte del pettegolezzo. Da non confondere con la satira e l’ironia, che sono tutt’altra cosa.

Non mi posso considerare un “osservatore obiettivo” di questo fenomeno, perché sono affetto da quella che, rispetto a comportamenti che sembrano molto diffusi, è un’anomalia. Sono refrattario al pettegolezzo. Prima ancora di infastidirmi, mi annoia. Non ho mai avuto il minimo desiderio di sapere se la signora della porta accanto passa un po’ troppo tempo con l’idraulico – o se qualche personaggio “famoso” non è sempre d’accordo con sua zia.

Ma anche chi ama spettegolare dovrebbe capire che un’overdose, come quella in cui siamo sprofondati, diventa intontimento. Lo sanno tutti gli “addetti ai lavori” – e alcuni lo dicono. Per esempio Maurizio Costanzo. «Il pettegolezzo diverte solo noi giornalisti: ce la cantiamo e ce la suoniamo». O Gianni Boncompagni. «La televisione generalista non la si può vedere. Ormai, ci sono solo pettegolezzi nobilitati come “gossip”». E ovviamente non si tratta solo di televisione. È impressionante la quantità di pagine dedicate da giornali “presunti seri” a ogni sorta di equivoci pettegolezzi.

È evidente anche che si fabbricano. Persone note, o in cerca di notorietà, fanno tutto il possibile per offrire pretesti ai pettegoli. Che siano del tutto falsi, o in parte basati su qualcosa di vero, non ha importanza. Si racconta che Phineas Barnum dicesse: «parlino pure male di me, l’importante è che parlino». Ma non è un buon motivo per trasformare il mondo in un circo equestre.

Nella disordinata accozzaglia dei pettegolezzi si insinua facilmente la calunnia. Che è un potente strumento per nuocere – o per confondere le idee. Come diceva l’astuto e perverso Charles Talleyrand: «calomniez, calomniez, quelque chose restera». Diciassette secoli prima, con quasi esattamente le stesse parole, Plutarco: «audacter calumniare, semper aliquid haeret». Diversi altri autori hanno espresso concetti molto simili. E c’è la famosa aria nel Barbiere di Siviglia, la calunnia è un venticello...

Truccare l’informazione è sempre stato uno strumento di guerra o di dominio. Ma è inevitabile che alle distorsioni si aggiungano le idiozie. Spesso è inestricabile la mescolanza di calunnie intenzionali, errori di distrazione e sciocchezze ciecamente ripetute.

Insomma il pettegolezzo è una droga – e un veleno. Dai sussurri di vicinato è cresciuto fino a diventare un’onda travolgente di imperante dabbenaggine, un’epidemia di contagiosa stupidità. Ci sono bugiardi così abituali che finiscono col credere nelle loro menzogne. Ci sono scemenze così spesso ripetute da continuare a diffondersi come verità rivelate anche dopo che ne è stata scoperta e documentata la falsità.

È così da sempre. Ma la velocità e l’ampiezza dell’onda portante, che è cresciuta come mai prima nella seconda metà del diciannovesimo secolo, poi nel ventesimo oltre ogni limite precedentemente immaginabile, ci porta in una situazione che non abbiamo ancora imparato a gestire. Usata bene, è una grande risorsa. Infettata dal “gossip”, dalla superficialità e dalla fretta, diventa una pandemia.

«Il pettegolezzo è l’oppio degli oppressi», dice Erica Jong. È sempre stato uno sfogo degli oppressi – se non possono liberarsi dagli oppressori, almeno cercano di consolarsi dicendone male. Ma con l’imperversare del “gossip”, della maldicenza e soprattutto della futilità, è diventato un “doping”, una droga, un’assuefazione cronica, che affligge i chiacchieranti quanto i chiacchierati, gli uni e gli altri sempre più intontiti da un meccanismo di cui sono, contemporaneamente, autori e vittime, protagonisti e schiavi.

Diceva Albert Einstein, in una lettera a Heinrich Zangger nel dicembre 1919: «con la fama divento sempre più stupido, questo ovviamente è un fenomeno molto diffuso» (citata da Helen Dukas e Banesh Hoffmann nell’interessante libro Albert Einstein – The Human Side, 1979). Sono passati novant’anni, la diffusione della sindrome è molto cresciuta, ma pochi se ne accorgono – o hanno il coraggio di ammetterlo. (Non è un caso, tuttavia, che alcune fra le persone più intelligenti del mondo si tengano consapevolmente lontane dalle ingannevoli luci della ribalta).

Cinquant’anni dopo, Ennio Flaiano. «La stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è nemmeno più la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé». (Corriere della Sera, 15 marzo 1969). Già allora il pettegolezzo era diventato molto invadente. Ma l’infezione continua a peggiorare.

C’è anche un problema imperversante di villania e “cattivo gusto”. Non è facile (e può essere soggettivo) definire che cosa sia “buon gusto” e che cosa no. Ma è un fatto che stiamo assistendo alla sgradevole, quanto stupida, continua crescita di un’indigesta, nauseabonda mistura di insopportabili salamelecchi e grossolane volgarità.

Che urla e insulti, battibecchi e parolacce, sguaiatezze e liti, voyeurismo ed esibizionismo, facciano “salire gli indici di ascolto” o aumentino le vendite dei giornali (o perfino libri) è sostanzialmente falso – comunque effimero. Ma anche se fosse vero sarebbe un percorso senza uscita, perché a forza di “rincarare la dose” si precipita nel vuoto. Perfino l’umorismo è in decadenza, troppo spesso ridotto a banale barzelletta o grossolano doppiosenso.

Prima di avvicinarci a una conclusione, vediamo come l’entetanimiento è definito da Gabriel Sala nel suo panfleto.

«L’entetanimiento non è altro che una mescolanza di “intrattenimento” mediocre e volgare, spazzatura intellettuale, propaganda, elementi psicologici e fisicamente nutritivi con il fine di soddisfare l’essere umano e mantenerlo convenientemente sedato, perennemente ansioso, sottomesso e servile ai dettami dell’oligarchia che decide il suo destino senza permettergli alcuna opinione sull’argomento».

E spiega così il suo effetto. «L’entetanimiento è il migliore fornitore di alibi che sia mai esistito, il prisma attraverso il quale possiamo osservare il mondo senza sentirci colpevoli e senza vederci obbligati ad assumere la responsabilità delle nostre azioni».

È comodo? Così vogliono farci credere. Ma se ci lasciamo rinchiudere in una prigione mentale non siamo noi a scegliere l’arredamento. E il nostro nutrimento è qualsiasi intruglio che qualcun altro ha deciso di propinarci.

Lo fanno apposta? Palesemente si. Ma non solo. I propalatori di intontimento sono intossicati dal loro veleno. A forza di spargere cretinerie, rincretiniscono.

Avevo spiegato questa sindrome in un articolo del 2002 Il circolo vizioso della stupidità che poi è diventato il capitolo 18 di Il potere della stupidità (con diverse analisi del contagio in altre parti del libro).

Non è un caso che alcune osservazioni su questo argomento si trovino anche nei miei ragionamenti su L’ambiguità della “meritocrazia” (aprile 2011) – né che, cinquant’anni fa, un metodo molto simile al “tettontimento” fosse proposto da Michael Young, come strumento repressivo di una nuova oligarchia, in The Rise of the Meritocracy (il libro in cui per la prima volta, nel 1958, è stato usato il termine “meritocrazia”).

Il problema non è nuovo. C’è sempre stato, fin dalle origini dell’umanità. Ma oggi assume proporzioni e prospettive diverse, con il “paradosso dell’abbondanza”. La quantità di informazione disponibile è enorme. Se non siamo rinchiusi da divieti e censure, tutti possiamo accedere a “quasi tutto”. Ma cercare e trovare non è facile.

E oltre ai limiti e alle deformazioni dell’ambiente in cui viviamo ci sono quelle che nascono continuamente in ogni angolo del mondo. Bubbole e sciocchezze, manipolazioni e travestimenti, possono avere origini remote e arrivarci anche da chi “in buona fede” riferisce qualcosa che non ha avuto il tempo o la capacità di controllare.

Non si tratta di precipitare in uno stato di angosciosa diffidenza, sospettare di tutto e di tutti, vedere imbrogli e inganni anche dove non ci sono. Il rimedio sarebbe peggiore del male.

La soluzione è più semplice – e meno fastidiosa. Avere un’insaziabile curiosità, una perenne voglia di capire, una vivace capacità di “pensare con la nostra testa”.

Può essere impegnativo, per chi non ne ha l’abitudine. Ma è anche piacevole. Con un po’ di pratica diventa istintivo, spontaneo, intuitivo. Quando ci riusciamo è sempre una soddisfazione. Spesso interessante, stimolante, divertente.



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