Uomini e topi

Giancarlo Livraghi – dicembre 2011

 
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Ovviamente il titolo è copiato da Of Mice and Men, uno dei migliori romanzi di John Steinbeck (1937). Ma si tratta di tutt’altro argomento. Il 9 dicembre 2011 un’intera pagina del Corriere della Sera è dedicata a un articolo di Massimo Piattelli Palmarini L’altruismo non è solo umano.

Lo spunto nasce da uno studio di tre neurobiologi dell’Università di Chicago, Inbal Ben-Ami Bartal, Jean Decety e Peggy Mason, nel numero di Science datato 9 dicembre 2011, ma ovviamente pubblicato qualche giorno prima (era stato presentato dagli autori il 7 luglio, “accettato” dalla rivista il 18 ottobre). Il titolo è Empathy and Pro-Social Behavior in Rats.

Altre interessanti spiegazioni, in inglese,
si trovano in un due articoli dell’8 dicembre 2011.
Di Peggy Mason pubblicato dall’Università di Chicago
e di Marc Bekoff in Psychology Today.
E in uno del 27 dicembre 2011
di Jeffrey S. Mogil in ScienceDirect

 
rats in love
“Rats in love” © Psychology Today
 

Non c’è motivo di dubitare della serietà e utilità di questo esperimento. Ma il fatto importante è che conferma fatti e valori già verificati in altri studi.

È abbondantemente dimostrato che collaborazione, responsabilità sociale ed “empatia” sono essenziali per la sopravvivenza del genere umano. E di altre specie. Come i primati, più estesamente i mammiferi (anche altri “generi”, per esempio gli uccelli). E non sono pochi i casi di collaborazione e reciproca comprensione anche fra specie diverse.

Ciò che stupisce, anche questa volta, è lo stupore. L’abbondanza di prove contrarie non è ancora riuscita a sconfiggere l’assurda persistenza di stupidi e pericolosi pregiudizi. Perciò non mi vergogno della mia ostinata insistenza nel ribadire alcuni concetti fondamentali.

Non è vero che l’umanità sia necessariamente malvagia o “peccatrice” e che per renderla meno barbara sia necessaria la disciplina imposta da una autodesignata “autorità superiore”. Da secoli e millenni, questa organizzata menzogna è lo strumento di oligarchie oppressive e cricche di potere, spesso più corrotte al loro interno di quanto sia la “plebe” assoggettata al loro arbitrio.

Non è vero che la repressione culturale, etnica, razziale sia radicata nella natura umana e che l’unico modo per eliminarla sia sia vietarla, punirla, contrastarla con la legge e con la forza. Ci sono situazioni, purtroppo, incancrenite (e nutrite dalla paura) in cui ci può essere la necessità di pressioni autoritarie. Ma sono esigenze di “breve periodo”. Inefficaci se non trovano poi i valori sostanziali del consenso, della comprensione, della “empatia” – senza i quali nessuna cultura si può definire “umana”, né può essere in grado di esistere senza rischiare l’autodistruzione.

Sull’importanza dei valori sociali fin dalle origini delle culture umane
vedi L’evoluzione dell’evoluzione (2006).

Sviluppi recenti dell’antropologia ci permettono di far risalire quelle radici a duecentomila anni fa, se limitiamo la definizione di “umano” ai nostri più diretti antenati. O un milione, forse due, quando troviamo analogie in più antichi homo. Diventa ancora più interessante con gli studi che allargano il quadro evolutivo ai primati (cioè 85 milioni di anni – o probabilmente di più) e, con ulteriori scoperte, più estesamente ai mammiferi (200 milioni).

E ci sono buoni motivi per pensare che ulteriori studi possano risalire ancora più indietro (e trasversalmente) nell’evoluzione della vita.

Ci sono rilevanti osservazioni di Jeffrey S. Mogil (McGill University, Montreal) nel suo articolo The surprising emphatic abilities of rodents pubblicato in ScienceDirect il 27 dicembre 2011. Il fatto è che i risultati dell’esperimento non sono “sorprendenti”, perché trovano riscontro in altri studi. E questo li rende ancora più interessanti.

«Molti pensano che empatia, reciproca comprensione e comportamenti di solidarietà» – spiega Jeffrey Mogil – «siano capacità specificamente umane, che richiedono elaborazione mentale, giudizio morale e apprendimento culturale. La possibilità di fenomeni come questi in specie diverse dai più “alti” primati (e forse elefanti e delfini) era considerata, fino a poco tempo fa, molto improbabile».

Siamo ancora in una fase iniziale di analisi scientifica dell’esperimento Bartal-Decety-Mason – che comunque, osserva Mogil, «ha stabilito il primo robusto paradigma di studio del comportamento sociale nei topi».

Un dettaglio lessicale di traduzione: qui uso genericamente la parola “topo”
mentre in inglese si distingue più abitualmente fra mouse e rat,
anche al di fuori di una rigorosa terminologia scientifica.

Ma un ostacolo è il pregiudizio culturale. Jeffrey Mogil lo spiega così. «Gli esperimenti sono così chiari che possiamo chiederci perché si sia dovuti arrivare al ventunesimo secolo per scoprire queste capacità anche in specie di mammiferi considerate più “basse”. Il mio sospetto è che la risposta stia nel timore di commettere un“peccato” di antropomorfismo. Tuttavia l’antroponegazione è un peccato altrettanto grave».

Le implicazioni umane sono definite chiaramente anche da Marc Bekoff nel suo articolo Empathic Rats and Ravishing Ravens pubblicato in Psychology Today l’8 dicembre 2011. Comincia così. «Chiunque si sia tenuto aggiornato sulle scoperte più recenti e importanti riguardo alla vita cognitiva, emozionale e morale di animali non umani sa che molti non primati dimostrano capacità intellettuali ed emozionali paragonabili a quelle delle grandi scimmie antropomorfe».

«In anni recenti» – spiega Marc Bekoff – «abbiamo imparato molto sulla vita morale degli animali. Studi dettagliati hanno dimostrato che alcune specie di mammiferi e uccelli dimostrano empatia e ora sappiamo che è così anche fra i topi».

«Molte ricerche dimostrano che animali umani e non umani sono inerentemente comprensivi ed empatici e che è davvero facile estendere la nostra base di compartecipazione».

In questo ambito, Marc Bekoff riferisce un’osservazione di Peggy Mason. «Quando ci comportiamo senza empatia agiamo contro la nostra eredità biologica. Se gli umani ascoltassero e agissero più spesso secondo la loro natura biologica, sarebbe meglio per tutti».

Inoltre Marc Bekoff rileva che le scoperte della biologia «ammoniscono contro la tentazione di sentirci “così speciali” e di vantarcene troppo».

Se cambiamo la prospettiva dalla biologia alla storia, una constatazione interessante è che per tempi molto lunghi, in vari stadi dello sviluppo umano, non c’era una così forte convinzione che la nostra specie fosse diversa da tutte le altre creature viventi. Non si trattava di “antropomorfismo”, ma di imparare, capire differenze e somiglianze, modi di essere amichevoli od ostili.

Ci vollero molti millenni perché la percezione, nei fatti, del potere che stavamo conquistando sull’ambiente si trasformasse nell’arrogante illusione di essere intrinsecamente diversi da tutti gli “animali” – e “creati superiori” fuori dalla realtà biologica.

Solo cinquecento anni fa (anche se alcuni filosofi-astronomi l’avevano capito mille anni prima) abbiamo dovuto affrontare il fatto che il nostro pianeta non è il centro dell’universo (da meno di cent’anni, che l’intero sistema solare è un minuscolo dettaglio in una di molti miliardi di galassie). E 150 anni fa che non siamo “divinamente creati”, ma frutto dell’evoluzione come tutte le altre forme di vita.

Benché tutte le persone oggi viventi siano nate dopo che antiche “visioni del mondo”, astronomiche e biologiche, avevano perso ogni significato, alcune parti della cultura umana hanno ancora difficoltà ad adeguarsi.

Una delle desolanti conseguenze è che il pregiudizio e l’arroganza continuano a ostacolare la comprensione del fatto che l’empatia e la consapevolezza sociale sono parte essenziale della natura umana – e anche più profondamente radicate nell’evoluzione.


Empatia

 
Non si finisce mai di imparare. E anche la terminologia può essere rilevante. Il concetto è presente in molte cose che ho scritto, ma non la parola. Non so perché. Forse mi sembrava troppo “tecnica”, propria del linguaggio scientifico in psicologia. Comunque ora mi sono convinto che è utile usarla, perché definisce un valore importante (istintivo quanto consapevole) nelle radici della cultura umana.

E va anche oltre le distinzioni di specie, perché sono possibili, e verificati, rapporti reciprocamente “empatici” con altri animali – e, più in generale, esseri viventi. (Non si tratta solo di “simbiosi”, ma di una consapevole e attiva partecipazione e condivisione emozionale).

L’empatia non è solo gradevole, piacevole, illuminante. È anche molto utile. Può evitare, attenuare o risolvere conflitti, costruire fertili rapporti di comprensione e collaborazione.

Non vuol dire abolire l’antipatia. È stupida quando (come spesso accade) è dettata da ignoranza, incomprensione o pregiudizio. Ma ci sono situazioni in cui un sentimento di antipatia è giustificato (o comunque inevitabile). Senza scatenare polemiche. inutili o eccessivi conflitti, è ragionevole non lasciarsi coinvolgere più di quanto è necessario con persone, ambienti e modi di essere che ci mettono a disagio o con cui non ci piace convivere.

Ma possiamo scoprire valori di empatia anche dove meno ce li aspettiamo. Senza farci eccessive illusioni, è sempre gradevole (e spesso utile) accorgersi della sommessa presenza di piccoli, ma fertili, “tesori nascosti”.

In senso opposto, non è un caso che gravi ed enormemente nocive patologie del comportamento siano definite come “psicopatie” provocate da cronica “incapacità di avere una normale empatia umana”. (Vedi È una malattia mentale? – testo aggiunto nel novembre 2011 a C’era una volta il mercato).

Nell’articolo di Massimo Piattelli Palmarini è citato anche il fatto che “Jean Decety ama molto un brano in un discorso di Barack Obama dell’agosto 2006, prima che diventasse presidente”.

«Si parla molto del deficit federale, ma dovremmo parlare di più del nostro deficit di empatia, dell’abilità di metterci nei panni altrui: il bimbo che ha fame, l’operaio che è stato licenziato, la famiglia che ha perso la casa nell’uragano. Quando allarghiamo così l'orizzonte delle nostre preoccupazioni, diventa arduo non agire, non aiutare».

A cinque anni di distanza, mentre Barack Obama si prepara a una nuova campagna elettorale, quelle parole suonano come un ammonimento ai sistemi di potere che sembrano aver perso, su scala mondiale, il lume della ragione.

È importante, necessario, urgente rimettere i valori umani, civili, sociali al di sopra di ogni considerazione economica o finanziaria.

So che qui mi ripeto, ma non mi stanco di insistere. Troppo, incontrollato potere è nelle mani di una demente cricca di psicopatici patologicamente privi di empatia. Accade, ovviamente, che nei complessi sistemi dell’evoluzione biologica compaiano mutazioni negative come questa. Ma finora il sistema immunitario sembra paralizzato da un’insensata acquiescenza.

Sarebbe interessante se, almeno in una simulazione sperimentale, quella cricca di maniaci fosse sostituita da topi accuratamente scelti dall’Università di Chicago fra i meglio dotati di empatia. O se i disumani psicopatici fossero rinchiusi in una clinica dove studiare la loro demenza e scoprire eventuali terapie. Ma in pratica si tratta di dare, o restituire, il giusto valore a una dote che si conferma necessaria per la sopravvivenza del genere umano.

L’ammonimento, che era così chiaro nelle parole dell’allora senatore Obama prima che la “crisi” assumesse le scellerate dimensioni di oggi, dovrebbe essere un impegno inderogabile per tutti i governi del mondo. E un criterio per i cittadini nel decidere chi merita la loro fiducia.

O vogliamo cedere ai topi il compito di governare questo pianeta?



Per chi è interessato al significato psicologico e sociale del concetto di “empatia”, questa
è una spiegazione di Jean Decety citata alla fine dell’articolo di Massimo Piattelli Palmarini.
«L’empatia non va confusa con il fenomeno più viscerale chiamato contagio emotivo:
ridere quando gli altri ridono, essere tristi vedendo facce tristi intorno a noi. Questa
partecipazione istintiva, in genere, non produce alcuna azione. Invece l’empatia, quella vera,
è un processo cognitivo e un impegno attivo, induce a fare qualcosa, a venire in soccorso»
.
Occorre capire che l’empatia non è “altruismo”. Non è solo un comportamento “virtuoso”.
È profondamente radicata nell’evoluzione umana, inerente alla natura della specie.


Sarebbe lungo – e sostanzialmente non è indispensabile – allargare la ricerca per scoprire
quanti altri esperimenti contibuiscono a indentificare valori di empatia in specie diverse.
Ma può essere utile citare un articolo di Elena Dusi in la Repubblica, 3 gennaio 2012
Lo scimpanzé grida solo se è utile al branco – basato su uno studio dell’universtà
St. Andrews e dell’istituto Max Planck pubblicato in Current Biology il 29 dicembre 2011.
Si tratta, in questo caso, di una specie particolarmente “simile” alla nostra
(ma è noto che ci sono “linguaggi” complessi anche in altre, come i cetacei).
Il valore di empatia rilevato sta nel saper ascoltare e osservare – modulare i segnali
secondo la situazione in cui si trova il destinatario. Non sarebbe sorprendente
se nuove ricerche trovassero comportamenti analoghi anche in altre specie.
Ma intanto rimane preoccupante il fatto che la capacità di ascoltare,
e di capire le situazioni altrui, non è abbastanza diffusa nel genere umano.


Un ampio articolo su questo argomento è stato pubblicato in La Stampa
il 26 luglio 2012. Marco Belpoliti Tu chiamala, se vuoi, empatia.
È più complicato del necessario in materie neuro-psicologiche, ma tuttavia interessante.
Cita cinque libri e varie altre fonti – con contrastanti, spesso discutibili, opinioni.
Il quadro generale conferma che alcuni stanno prendendo coscienza del problema,
ma nella cultura estesa rimane scarsamente percepito il valore dell’empatia.



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