La relazione terapeutica
L'approccio cognitivo-comportamentale tradizionale è caratterizzato da
una impostazione piuttosto tecnica che, nella migliore delle ipotesi, considera
la relazione terapeutica condizione necessaria ma non sufficiente alla conduzione
ottimale della psicoterapia (Sanavio, 1991). Secondo alcuni autori, non avrebbe
ancora sviluppato un impianto teoretico e tecnico sufficientemente solido ed
articolato per impiegare attivamente e consapevolmente la relazione nel settore
clinico (Safran, Segal, 1990). L'approccio più strettamente comportamentale
ha sostenuto, anzi, che interazioni terapeuta-paziente ridotte al minimo non
influiscono sui risultati di interventi effettuati con la desensibilizzazione
sistematica applicata a paure semplici e circoscritte. Con pazienti disturbati
a livello di abilità interpersonali, coinvolti in problematiche multiple
o non facilmente circoscrivibili, tale impostazione resta comunque da dimostrare
completamente. Al contrario, autori contemporanei appartenenti alla tradizione
cognitiva (Beck, Emery, 1990; Liotti, 1993; Safran, Segal, 1990) sostengono che
la qualità della relazione terapeuta-paziente è una variabile determinante
nell'ottenimento di cambiamenti terapeutici generalizzati e duraturi. Viene considerata
fondamentale, in altre parole, non solo la semplice alleanza di lavoro basata
su un razionale empirismo collaborativo, ma anche la dinamica relazionale che
nasce dall'incontro fra le caratteristiche interpersonali del paziente e del
terapeuta. Le emozioni ed i pensieri automatici del professionista, inoltre,
assumono la funzione di strumenti potentissimi nella diagnosi e nel monitoraggio
della relazione terapeutica. Nella tradizione cognitivo-comportamentale più tradizionale
risulta invece che le capacità e le strategie adottate in sede terapeutica
per gestire e manipolare la relazione non sono fondate su scoperte della psicologia
sperimentale, quanto piuttosto sull'esperienza personale del terapeuta e sulla
supervisione clinica (Wilson, 1984). è una situazione perlomeno paradossale,
in quanto non è solo frutto di esperienze ed intuizioni, ma anche ampiamente
dimostrato che la relazione terapeutica influisce in modo determinante sull'efficacia
delle tecniche impiegate (Beck, Freeman, 1990; Safran, Segal, 1990). Negli ultimi
anni, quindi, il panorama della letteratura cognitiva si è arricchito
di importanti contributi che fanno esplicito riferimento all'importanza della
relazione nell'intervento terapeutico (Arnkoff, 1983; Goldfried, 1982; Jacobson,
1989), al suo necessario impiego nel trattamento di pazienti con Disturbi di
Personalità (Beck, Freeman, 1990) ed alla necessità di approntare
uno schema di riferimento teoretico di più ampio respiro, che superi cioè l'utile
ma riduttiva metafora dell'uomo come elaboratore di informazioni (Safran,
Segal, 1990). Recentemente Safran e Segal (ibid.) hanno anche elaborato
interessanti proposte di intervento operativo bene integrate all'interno
di un impianto teorico definito teoria cognitiva ad orientamento interpersonale.
Nel trattamento dei tossicodipendenti è addirittura indispensabile
un riferimento teorico che tenga in grande considerazione l'aspetto
interpersonale del rapporto terapeutico, provvedendo anche al suggerimento
di precise modalità tecniche. Ogni operatore delle tossicodipendenze,
infatti, ha ben presente che il suo intervento fallisce o ha successo
principalmente in funzione della specifica relazione che si è instaurata
con l'utente. Con questi soggetti è infatti difficile cementare
una solida alleanza di lavoro perchè ampiamente minata e distorta
dalla presenza di modalità di relazione patologiche sia nei
tossicodipendenti che nei loro familiari. Con questi utenti, allora,
si verificano frequenti rotture dell'alleanza terapeutica, se non
altro perchè mancano di esperienze passate costituite da correzioni
costanti dell'andamento delle relazioni più significative
(Safran, Segal, 1990, p. 175). La tossicodipendenza, noi pensiamo,
richiede poi anche un approccio di tipo costruttivistico (Bara, 1984;
Guidano, 1987, 1991), in quanto non è possibile immaginare
di trasformare un tossicodipendente in un individuo con processi
di elaborazione cognitiva simili a quelli della logica aristotelica,
così come di fatto proposto dagli approcci cognitivi classici
(Beck, 1976, 1979; Ellis, 1962). La sua storia e le sue esperienze "diverse",
infatti, non sono cancellabili facendo semplicemente riferimento
a come stanno "realmente" le cose, ma devono essere rielaborate e
ristrutturate in una specifica organizzazione del sè che,
pur diventando adattiva ed intrinsecamente equilibrata, potrà ancora
apparire deviante rispetto alla "normalità".
E' quindi opportuno dedicare un'attenzione più particolareggiata
ad aspetti teorici e tecnici utili alla gestione delle relazioni
interpersonali con questi utenti, in modo che non si sia costretti
a negare la specificità e la drammaticità della loro
esperienza passata.
Per Safran e Segal l'efficacia di una psicoterapia è condizionata
dal «modo di percepire il significato del comportamento del
terapeuta da parte del paziente» (1990) e, più specificatamente,
dal risultato delle precedenti esperienze interpersonali vissute
con le figure significative. In definitiva, quindi, gli autori si
riferiscono anche a tutto ciò che nel campo interpersonale
esula dall'ovvietà della razionalità dell'hic et nunc.
Infatti i pazienti non sono "monadi" che richiedono un intervento
specialistico, ma innanzitutto individui interpersonali, che nei
rapporti con gli altri hanno sviluppato cognizioni, emozioni, comportamenti
e strategie interattive. Trascurare l'aspetto interpersonale implica
allora eludere il versante biologico dell'essere umano, e cioè soprattutto
il fatto che ogni individuo è una creatura programmata dall'evoluzione
per sopravvivere e crescere in un contesto significativo quantomeno
diadico (Bowlby, 1979, 1988). In particolare, l'uomo si caratterizza
per la presenza di comportamenti di attaccamento che, lungi dall'esaurire
i propri obbiettivi nell'infanzia, determinano la sua azione per
tutta la durata della vita (Ammaniti, Stern, 1992; Bowlby, 1979;
Guidano, 1987, 1991; Liotti, 1984, 1992a, 1994; Stern, 1985). Il
mantenimento della vicinanza con altri esseri umani, infatti, si
dimostra un requisito indispensabile per la sopravvivenza fisica
e l'equilibrio psicologico. In quest'ottica interpersonale, allora,
lo studio dell'emozione deve assumere un ruolo determinante ed essere
intesa come «una forma biologicamente innata d'informazione
circa il sè in interazione con l'ambiente» (Safran,
Segal, 1990). Un'attenzione particolare deve essere prestata all'ansia,
emozione suscitata dalla «incapacità di integrare relazioni
interpersonali» (ibid., p. 74; cfr. Sullivan, 1953, 1956),
derivante soprattutto da rapporti disgregati. In questi ultimi casi
l'estrema ansia associata alle relazioni interpersonali impedisce
una corretta codificazione mnestica delle informazioni sia interne
che esterne (Safran, Segal, 1990), causando il mancato riconoscimento
di emozioni sia in sè stessi che negli altri. In sintesi,
allora, «ripetute esperienze d'intensa ansietà e di
scarsa sintonizzazione affettiva possono provocare un senso frammentato
del sè. Nei casi più estremi possono svilupparsi stati
limite (borderline) o sindromi di personalità multipla» (Safran,
Segal, 1990) e, in generale, uno scarso senso di stabilità e
di continuità temporale del sè. Effetto opposto sarebbe
invece associato a relazioni empatiche ricorrenti, sintonizzate sulle
emozioni della persona.
Schemi interpersonali e cicli cognitivo-interpersonali
In seguito alla ridondanza dell'esperienza soggettiva, ogni individuo
sviluppa uno schema interpersonale, «la
rappresentazione generica d'interazioni fra il sè e l'altro» (ibid.),
il cui scopo è la previsione di nuove interazioni sociali
in modo simile ad un «programma per il mantenimento dello
stato di relazione» (ibid.; >si veda anche il concetto
di "modello operativo interno" di Bowlby in Ammaniti, Stern, 1992).
Ora, se consideriamo che lo scopo di ogni schema interpersonale è identico
- cioè il mantenimento dello stato di relazione -, nondimeno
sono differenti le strategie ed i presupposti applicabili per il
suo ottenimento, e sono questi ultimi ad essere oggetto di apprendimento. è verosimile
che gli schemi interpersonali debbano essere intesi come «schemi
cognitivo-affettivi codificati sia a livello concettuale che a
livello espressivo motorio» (ibid.; cfr. Leventhal, 1984;
Stern, 1985), e questo implica che l'attivazione di tali strutture
coinvolge necessariamente anche una componente affettiva che, clinicamente,
dovrà essere isolata e tradotta in termini cognitivi quanto
più è primitiva ed indifferenziata (ibid.). L'essere
dotati di schemi interpersonali rigidi ostacola la possibilità di
accedere a relazioni diverse che consentono l'esperienza di nuove
emozioni e l'elaborazione di ulteriori schemi interpersonali, nonchè l'aggiornamento
di quelli già esistenti. Le aspettative saranno allora rigide
e limitate ed avranno il potere di autorealizzarsi. Infatti «il
comportamento disadattivo persiste per periodi protratti poichè si
basa su percezioni, aspettative o costruzioni delle caratteristiche
di altre persone che tendono a essere confermate dalle conseguenze
interpersonali del comportamento messo in atto» (Carson,
1982). Quanto più un individuo è disturbato, tanto
più i suoi schemi interpersonali plasmeranno rigidamente
la sua esperienza conducendo ad un ulteriore consolidamento degli
schemi disfunzionali stessi, poichè mai disconfermati. Se è vero
che nel momento in cui si sono cristallizzati hanno contributo
alla salvaguardia dell'individuo in quanto ne hanno accresciuto
la capacità di adattamento all'ambiente, il fatto che successivamente
siano rimasti sostanzialmente invariati o si siano consolidati
può originare un disturbo a livello sia interpersonale che
cognitivo-affettivo. Nel modello proposto da Safran e Segal, infatti,
gli schemi cognitivi fondamentali di un individuo sono strettamente
connessi ai suoi schemi interpersonali, tanto da formare un vero «ciclo
cognitivo-interpersonale che si automantiene» (ibid.;
grassetto nostro). Di conseguenza, per esplorare produttivamente
le cognizioni disfunzionali del soggetto è fortemente consigliabile
fare riferimento ai contesti relazionali cui sono associate: la
famiglia, il gruppo, il rapporto informale e terapeutico. In quest'ultimo
caso, è essenziale che l'operatore sia in sintonia con il
paziente in una condizione di osservatore partecipante (ibid.;
Sullivan, 1953), tale che consenta di riconoscere come indicatori
interpersonali le ridondanze comportamentali del paziente ed i
sentimenti ricorrenti dell'operatore stesso. Secondo Safran e Segal,
infatti, «gli indicatori interpersonali forniscono all'operatore
tracce utili per l'esplorazione dei processi cognitivi ed emotivi
del paziente poichè i processi interiori più problematici
del paziente spesso avvengono in associazione con indicatori interpersonali
che svolgono un ruolo centrale nel suo ciclo cognitivo-interpersonale
disfunzionale. è così probabile che i suoi processi
cognitivi centrali siano maggiormente accertabili quando egli rivela
l'indicatore interpersonale». Insegnare alle persone ad osservare
dall'esterno tali indicatori interpersonali può servire
per incrementare la loro consapevolezza e de-automatizzare il comportamento
interpersonale disadattivo abituale (ibid.). è importante
individuare quanto prima i cicli cognitivo-interpersonali dato
che, quanto più sono disfunzionali, tanto più tendono
a giostrare nel loro meccanismo anche la figura dell'operatore.
A questo proposito alcuni autori (Weiss et al., 1987) parlano di
un vero test di traslazione agito dai pazienti per verificare quanto
i terapeuti confermeranno i propri cicli cognitivo-interpersonali
disfunzionali. Nel momento in cui l'operatore, coinvolto nella
relazione, riconosce di essere inserito in un ciclo cognitivo-interpersonale,
si deve sottrarre ad esso e metacomunicare quanto sta avvenendo.
In questo modo è possibile spezzare le rigidità degli
apprendimenti dell'individuo e riorientarle verso nuove esperienze
correttive ed integrative. Questa operazione è però possibile
in una relazione caratterizzata dall'empatia, laddove cioè l'operatore,
in sintonia col paziente, lo accetta per quello che è, riflettendogli
con precisione il significato emotivo, cognitivo ed interpersonale
delle sue modalità interattive. La semplice accettazione
intrinseca all'empatia, inoltre, non deve essere intesa come un
semplice mezzo per attuare interventi efficaci. Scoprire di essere
comunque accettati, di avere nell'operatore una base sicura, infatti,
ha di per sè un effetto potentemente terapeutico nel momento
in cui contrasta le modalità relazionali del paziente (ibid.),
e ciò avviene, evidentemente, non solo nel setting tradizionale,
ma anche nei contesi informali e lavorativi. Con questa certezza
la persona sarà anche in grado di rischiare, di provare
nuove forme di relazione interpersonale, di prestare attenzione
alle emozioni che lo agiscono nelle sue modalità interattive,
in modo da viverle direttamente per elaborarle e trasformarle in
cognizioni astratte su sè stesso e su gli altri in genere.
Quest'ultimo processo elaborativo è essenziale poichè gli
schemi interpersonali sono provvisti di un'importante componente
espressivo-motoria. Se si interviene solo sull'aspetto cognitivo,
allora, lo schema in questione può risultare solamente scalfito.
Si rischia, infatti, di «non modificare importanti relazioni
interpersonali codificate in forma espressivo-motoria» (Safran,
Segal, 1990) che sono tanto più presenti quanto più gli
schemi risultano poco elaborati perchè cristallizzatisi
in seguito a relazioni elicitanti reazioni negative, in primis
l'ansia. Il lavoro attivo sul versante espressivo-motorio, al contrario,
permette al soggetto di entrare in contatto con emozioni mai percepite
prima in modo completo e differenziato, ma che nondimeno hanno
caratterizzato e sospinto il suo comportamento. Questa esperienza
ha valore evolutivo se l'operatore è per il soggetto una
base sicura che consente di contenere ed elaborare tali emozioni,
altrimenti potenzialmente disgreganti. Inoltre «il terapeuta
deve avere un concetto di sè abbastanza flessibile da poter
riconoscere e accettare i propri sentimenti nell'interazione terapeutica» (Safran,
Segal, 1990). In caso contrario proverà difficoltà nel
provare e nell'accettare determinate esperienze emotive in sè stesso
e, di conseguenza, quando queste si presenteranno nel paziente,
eviterà di entrare in empatia con esse. Si verificherà,
allora, che l'utente sarà spinto a non provare tali emozioni
anzichè a comprenderle. è invece essenziale che il
terapeuta sia in grado di «fornire una relazione in cui [gli
utenti] imparino che non devono sconfessare una parte di sè stessi» (ibid.).
In quest'ottica diventa ancora più giustificato ricorrere
a tecniche come il Training Assertivo che permettono, infatti, di
intervenire in vivo sui cicli cognitivo-interpersonali disfunzionali,
complessi mnestici considerabili soggetti al processo della codifica
stato-dipendente (Safran, Segal, 1990; cfr. Bower, 1981 e Rossi 1986a,
b). Le emozioni e le cognizioni ad essi connessi vengono in tal modo
elicitate direttamente, mentre sono contemporaneamente disponibili
feedbacks da tutti i partecipanti al gruppo; i cicli cognitivo-interpersonali
disfunzionali, in seguito, attraverso ulteriori apprendimenti, sia
osservativi che in prima persona, vengono invalidati, ricontestualizzati
e corretti.
Da un punto di vista cognitivo-comportamentale non è affatto
indispensabile la ricostruzione genetica della formazione di un determinato
schema interpersonale. Questo modello teorico, in effetti, ritiene
che un simile intervento rischi di produrre involontariamente un'intellettualizzazione
eccessiva dei problemi affrontati, separando il soggetto dalle emozioni
del momento e dall'urgenza di lavorare nell'immediato per cambiare
i propri schemi disadattivi (Safran, Segal, 1990). è però da
riconoscere che un'operazione simile ad una ricostruzione genetica
di transfert deve essere effettuata soprattutto quando ci si trova
di fronte a gravi distorsioni cognitive e relazionali che impediscono
di incidere sufficientemente nello schema oggetto di intervento (Safran,
Segal, 1990). Rimane comunque essenziale produrre una nuova relazione
interpersonale rispetto ad una ricostruzione storica (Gill, 1982;
Liotti, 1993; Safran, Segal, 1990). L'ottica cognitivo-comportamentale
più recente, infatti, considera globalmente più produttivo
fornire, nelle problematiche relazionali, nuove e sistematiche esperienze
di apprendimento "in vivo" piuttosto che fare fondamentale affidamento
sulla riorganizzazione cognitiva ed emotiva (Beck, Freeman, 1990;
Safran, Segal, 1990). è ovvio che una pratica simile è più ansiogena
per il clinico poichè lo costringe ad analizzare variabili
interpersonali che evidentemente lo coinvolgono in prima persona.
Il riferimento sistematico a cause passate, seppure potenzialmente
positivo, sembra invece una pratica che troppo facilmente è in
parte attribuibile al tentativo agito dall'operatore di contenere
la propria ansia. Non appena questi è in grado di isolare
significativi indicatori interpersonali, dovrebbe invece sottrarsi
al ciclo cognitivo-interpersonale disfunzionale agito dal soggetto
ed evidenziargli quanto si svolge nel presente. Tale intervento,
noto come metacomunicazione, può essere effettuato essenzialmente
nei seguenti modi: segnalare 1) un indicatore interpersonale o 2)
un proprio sentimento per a) accrescere la consapevolezza del soggetto
o b) sondare ulteriori aspetti ideo-affettivi del paziente (Safran,
Segal, 1990).La strategia da adottarsi è quindi piuttosto
semplice, per lo meno sulla carta: sganciarsi da ciclo cognitivo-interpersonale
disfunzionale in corrispondenza di un indicatore interpersonale,
metacomunicare il processo in atto eventualmente impiegando le proprie
emozioni, confutare empiricamente (relazionalmente) le distorsioni,
evocare nuove emozioni e cognizioni (se opportuno con riferimento
all'esperienza passata), ristrutturare il ciclo cognitivo-interpersonale
stesso (Safran, Segal, 1990). |