
GRUPPO
ESCURSIONISTICO
PROVINCIA DI ROMA
Pagina
aperta ai Soci F.I.E. e G.E.P. in particolare, per tutto quello che vogliono
scrivere e rendere pubblico. L'invio dei contributi va effettuato tramite
e-mail a
gepnatura@mclink.it.
Particolarmente graditi sono sensazioni, commenti e resoconti delle
escursioni nelle giornate vissute con noi.
Iniziamo
con alcuni resoconti compilati magistralmente dal nostro giovane Socio
Fabrizio Bernini, autore dell'interessante sito
http://www.geocities.com/fabrizio48/
INDICE degli Appunti:
1. In notturma al Monte Amaro
1. Nelle terre di Fra' Diavolo
2.
MARSICANO, ostile ma spettacolare
3.
MALECOSTE, da Campo Imperatore alla cima Karol Wojtila
4. MONTE VIGLIO, escursione SENTIERO VERDE e G.E.P. del 16.09.2007
5.
MONTE
JENCA, escursione G.E.P. dello 08.07.2007
6. MONTE PRENA, escursione di Kronos del 29.07.2007

In notturna al
Monte Amaro
notte tra il 19 e 20 luglio 2008, racconto di Fabrizio Bernini
Il
Monte Amaro è alto 2.793 metri, questa volta l’obiettivo è raggiungere la
vetta di notte dopo aver consumato quasi 1.300 metri di dislivello. Si fa
sul serio, la meta è sfidante e ambiziosa. I vecchi saggi, quelli che non
sbagliano mai creando un detto popolare o un proverbio, hanno visto giusto
denominando Monte Amaro questo imponente blocco di roccia incastonato nella
Maiella. È la seconda vetta dell’Appennino, più in alto c’è solo il Corno
Grande, ma è lontano abbastanza da fargli dominare l’area circostante. Il
gruppo è numeroso, siamo 35, un aspetto che in montagna può non sempre
essere positivo. Perché cresce il rischio di incidenti e malori, che
pregiudicano la buona riuscita dell’ascensione, perché aumenta il rumore
prodotto durante il cammino e, quindi, diminuiscono proporzionalmente le
possibilità di incontrare animali ed ascoltare la natura. Ma, d’altra parte,
è molto maggiore la probabilità di divertirsi e di conoscere persone
simpatiche e umanamente valide. Il compromesso lo accettano tutti volentieri
e alle 16.00 partiamo da Roma, solito posto, via Tiburtina altezza metro
Rebibbia.
Il
viaggio è lungo, si deve arrivare all’uscita Pratola Peligna – Sulmona,
sulla A25 Roma-Pescara. Sono quasi 150 km, e poi altri 25, prima di arrivare
a Campo di Giove, da dove avremmo iniziato questa splendida avventura.
Insieme a Simona al volante, Tiziana, Lorena e Simone, sono arrivato a quota
1.500 a bordo di una comodissima Volvo, che ci ha fatto risparmiare i 300
metri di dislivello dal paese fino al campo base, arrampicandosi su una
carrareccia costellata di sassi e buche insidiose. Allacciamo gli scarponi,
controlliamo gli zaini, fotografiamo il meraviglioso tramonto che ci
accompagna. Quando iniziamo a salire con gli zaini e i sacchi a pelo in
spalla sono quasi le 20.00, perché tra una cosa e l’altra abbiamo trovato il
tempo per svaligiare un forno-pasticceria, prendere un rinfrancante caffè e
smorzare la tensione cercando di conoscere i compagni di questo affascinante
viaggio. Nuvole basse e una nebbiolina densa minacciavano fin da subito la
buona riuscita dell’avventura, ma c’era abbastanza energia in ognuno di noi
per allontanare mentalmente il solo pensiero di non poter terminare la
salita.
E siamo partiti. Un primo
tratto di declivio deciso ci accompagna all’inizio di un
boschetto di faggi, attraversando prati verdi sfumati dalla luce di un sole
che si abbassava velocemente, continuando ad illuminare la parte occidentale
di questa Terra meravigliosa. Il gruppo, inizialmente compatto e
allegramente rumoroso, si sgranava pian piano silenziandosi, risparmiando
quel fiato e quelle energie che così tanto sarebbero scemati più tardi.
Ormai eravamo in ballo, la luna piena faticava a farsi vedere dietro alle
nuvole, e le luci lontane dei paesini abruzzesi sottostanti ci
accompagnavano sul crinale di una lunga vallata chiamata della femmina
morta. Il sentiero sale ripidamente, ci si ferma poco e per brevi
minuti. Iniziano a spuntare quelle che avevo sperato fino all’ultimo di
veder comparire il più tardi possibile, le torce frontali a led, quelle che
sicuramente ci facevano sembrare, visti lassù dal cielo, come delle
minuscole lucciole che zigzagavano un po’ scoordinate su un sentiero
dell’Italia centrale. La luna è quasi sempre nascosta, e la luce che filtra
attraverso le nuvole non basta a rendere sicuro il nostro cammino.
Gianfranco e Santina si scambiano veloci informazioni con le radio, ma tutto
sembra procedere senza intoppi, solo una naturale lentezza dovuta al folto
gruppo di camminatori notturni. Che emozioni… siamo ormai intorno ai 2000
metri e i riflessi della luce selenitica dissimulano i colori e le forme
veri, facendo comparire fantomatici nevai intorno e sotto a noi. Vorrei
avere una fotocamera come si deve, per sentirmi un inviato del National
Geographic (cosa che mi capita spesso), per imprimere sull’obiettivo anche
la più piccola e lontana stella del cielo, oppure senza arrivare tanto
lontano, semplicemente le luci elettriche dei dintorni di Sulmona.
L’arrivo
alla forchetta decreta finalmente l’ora della cena, sono circa le
0.00, quella che avevo deciso già da Roma di non far assomigliare troppo ad
una triste mensa. Si, una volta tanto mi tratto bene, e per fare le cose
come si deve mi sono caricato 2 bei contenitori di vetro pieni zeppi di
pasta fredda. Pesavano non poco, ma ...
Dopo poco si riparte, non
c’è il tempo per riposare e ci ritroviamo ben presto a salire di nuovo. Se
la luna ci avesse accompagnati avremmo potuto scorgere il bivacco, a forma
di igloo lassù sulla cima, un capezzolo sulla maestosa mammella di roccia
che avevamo davanti, come avremmo potuto comprovare l’indomani mattina
durante la discesa. Decidiamo di complicarci la vita e deviamo a sinistra,
laddove avremmo invece dovuto continuare dritti, salendo decisamente. Il
buio non perdona, e così ci ritroviamo dentro una scoscesa pietraia sulla
china sinistra della montagna. La affrontiamo, ormai stanchi, e ci
ricongiungiamo infine alla retta via, proprio sotto all’ultimo ripido tratto
di ascensione, quando ogni previsione di raggiungimento non poteva che
essere vaga e approssimativa, nonostante l’esperienza di Gianfranco. I GPS
non sono così precisi e così l’arrivo in vetta risulta inaspettatamente
improvviso, preceduto da una grande H di metallo proprio sotto al bivacco,
laddove un ipotetico elicottero avrebbe potuto dover atterrare in caso di
necessità. Ci siamo ragazzi, sono le 3.30!!
Ora non rimane che
rilassarci un attimo prima di provare a dormire. Gianfranco apre a fatica la
porta del bivacco e con rassegnazione comunica al gruppo che ci
sono pochi e scomodi posti, a sedere… Qualcuno entra e si sistema tra un
corpo e l’altro, mentre noi dotati di sacco a pelo iniziamo a cercare una
pianoro per sistemarci. Siamo rivolti, non a caso, ad est, laddove tra un
paio d’ore il nostro amico sole si sarebbe riaffacciato, puntuale, dopo aver
fatto un bel giro girotondo intorno al globo. Allora proviamo a
riposare, ci sdraiamo ed entriamo faticosamente nei nostri bozzoli
sintetici, cercando di limitare al minimo il numero di schegge ghiaiose
sotto la schiena. Perfino i fedeli compagni setter e pastore tedesco
sembrano stanchi e si sistemano vicino ai rispettivi padroni, anch’essi
trascinati a godere di uno spettacolo speciale, concesso solo a pochi membri
della loro specie…
Gli spifferi e il
chiacchiericcio circostante, insieme all’eccitazione per lo spettacolo
gratuito che mi attende, mi tengono sveglio. Quando alle 5.30 metto la testa
fuori e guardo il cielo, il palcoscenico è ormai pronto, il chiarore
dell’aurora annuncia l’imminente entrata in scena del protagonista. Mentre
uscivo dal sacco a pelo intirizzito dal freddo e assonnato, i miei compagni
davano anch’essi i primi segni di risveglio, cercando a tastoni le scarpe e
soprattutto la fotocamera. Qualche minuto e le parole finiscono, il rumore
del vento freddo era la colonna sonora del film. È tutto così veloce, la
palla di fuoco sale velocemente mentre tutto intorno le montagne e le valli
prendono colore e sembrano rinascere dalla nuda Terra. Le foto non rendono
giustizia a quello che solo gli occhi possono sintetizzare, ma 10, 20 scatti
cercano comunque di immortalare quella luce che già 8 minuti prima aveva
iniziato il suo viaggio, lungo 150 milioni di km. Ma non eravamo in ritardo,
ognuno di quei momenti rappresentava uno scorcio di eternità.

Nelle terre di Fra' Diavolo
domenica 18
novembre 2007 con il G.E.P., di Silvio Vitone
Zaini in spalla, scendiamo dal treno zeppo di extracomunitari e ci avviamo
verso la nostra meta un tantino rimpiangendo il tepore delle carrozze
ferroviarie malamente riscaldate; in breve la stazione ferroviaria di
Formia con la sua piccola folla anonima e provinciale rimane alle spalle.
Gli avventori dell’unico bar aperto nella mattina di domenica ci guardano un
po’ divertiti ed increduli. Ma dove vanno questi matti, proprio oggi, che la
neve è comparsa sulle cime più alte degli Aurunci? Non è il caso di dar
loro troppa importanza e ci incamminiamo per una salita, che, man mano,
diventa sempre impervia.
Siamo ancora nel tratto
urbano della cittadina rivierasca, nella parte alta, in località Castellone,
così chiamata per via della poderosa mole di una torre ben restaurata,
residuo di antiche difese contro i pirati barbareschi; intorno alla torre si
snodano e si intrecciano vicoli, svettano mura granitiche, si aprono piccole
e deliziose piazzette arricchite da portici in stile provenzal-moresco e si
arrampicano funamboliche scalette in pietra. Appena uno sguardo a questo
mondo di perduti ricordi marinareschi e di epiche battaglie all’ ultimo
sangue e… si continua a salire.
Ora il tessuto urbano si è
fatto più diradato, dominato da villette stile liberty, che appena
occhieggiano tra gli alberi di limoni, di mandarini e di arance, carichi di
frutti, irraggiungibili, parzialmente coperti da foglie verdissime.
Con la memoria torno agli
anni giovanili, quando venivo qui nel golfo di Gaeta e mi sentivo pervaso
dall’atmosfera magica ed invitante di questa Enotria tellus ( tanto
per citare reminiscenze classiche ). Allora formavamo il folto gruppo,
rumoroso ed allegro di giovanissimi e giovani iscritti al CAI; non
mancavano, però gli attempatelli, che cercavano di stare al nostro passo.
Ma questa domenica di autunno
avanzato, ora che i ricordi della verde età riappaiono malinconici e dolci
tra le pieghe di un paesaggio a me tanto caro, non avverto solo nostalgiche
sensazioni perchè i colori intorno brillano di una luce insolita: sulle cime
degli Aurunci un pallido sole illumina il bianco di una fresca nevicata,
mentre sul mare di un grigio perlato che vira verso il blu profondo,
spiovono alcuni raggi di sole che hanno attraversato la spessa coltre di
nubi.
E più si sale e più
l’orizzonte si allarga verso i monti che delimitano verso sud l’ampio
golfo; il mare fa da sfondo irripetibile a quelle cime lontane azzurrine
appena velate da una morbida nebbiolina.
Decidiamo per la prima sosta nei pressi della chiesetta, dalla cupola
vagamente bizantineggiante, costruita intorno al decimo secolo dai
Benedettini di Montecassino. Ti rendi conto di trovarti in una piccola
oasi di pace, al contatto con memorie millenarie. Qui, come apprendi da
una lapide ben in vista, su una delle bianchissime facciate della chiesetta,
ogni anno si ripete una pia processione in onore della Madonna. “Però
questi pellegrini non camminano molto!” Mi viene da pensare. Ed anche noi
escursionisti siamo un po’ pellegrini: come gli antichi viandanti
ripercorriamo le stesse strade, gli stessi sentieri polverosi e pieni di
sassi. Se non fosse che oggi calziamo scarponi di gore-tex e vibram e che
per noi l’escursione spesso diventa un momento di pura evasione
domenicale dai malesseri metropolitani, sentiamo che abbiamo più di un punto
in comune con i pellegrini. Vi è in comune l’intento nemmeno tanto recondito
di elevare lo spirito e di sfuggire ( almeno per un giorno! ) alle perfide
sirene del consumismo.
Ma non tutto riluce…non tutto porta a nobili aspirazioni, perché l’occhio
inevitabilmente cade sulle brutture, che deturpano irrimediabilmente i
fianchi della montagna. Orribili falansteri, costruzioni che nulla hanno da
vedere con le graziose villette liberty incontrate più a valle.
C’è da domandarsi: ma siamo in un parco (quello degli Aurunci)? E che fa
l’ente di gestione di questo parco, oppure è solamente un parco di carta, un
parco solamente sulla carta.?
Camminando, camminando mi
accorgo che i colori del giorno e dell’autunno si stemperano e assumono
toni più cupi, mentre sul golfo già si accendono, quasi falene guizzanti,
le prime luci: è l’ora di pensare al ritorno. E veramente il rientro alla
base si rivela più impegnativo del previsto perché il sentiero si perde tra
i bassi cespugli della gariga, i grossi massi di arenaria e le
querce di sughero. C’è da stare attenti, bisogna evitare di ruzzolare a
valle insieme a terriccio e pietroni. Il gruppo si sfalda, si allunga e si
disperde in un colorato serpentone e mentre i primi, veterani di mille
arrampicate e discese, sono già ai piedi della montagna, alcuni altri ( in
verità pochi ) arrancano e riescono a rimetterci il fondo dei pantaloni,
dove rimarranno indelebili i segni dell’inesperienza e di qualche poco
simpatica caduta. Qui risate amare e di prammatica.
Tutto bene, in fin dei conti,
una conclusione tranquilla, quasi come l’inizio. Sì, va bene, ma Fra
Diavolo? Di lui nemmeno l’ombra, nemmeno un mitico alone, nemmeno un
simulacro, un segno ( anzi un segnetto ) che ne richiami la memoria. Se non
fosse stata per la dotta disquisizione della nostra guida ed accompagnatore,
Roberto Gualandri – almeno una citazione se la merita per le sue capacità ed
il suo impegno - noi del gruppo non ci saremmo nemmeno accorti di
attraversare un lembo di quelle terre, dove le sue imprese sono diventate
leggenda.
Che differenza con la Maremma,
dove aveva imperversato il brigante Tiburzi! Lì, in ogni ristorantino di
campagna trovi il suo ritratto e da sotto il cappellaccio par che voglia
dirti “Aspetta, che se ti acchiappo…”. Altre latitudini, altre dimensioni,
ma in fondo forse è meglio così.
Forse è meglio immaginare, piuttosto che lasciarsi fuorviare da
rappresentazioni e richiami, evocativi quanto si voglia, ma che imbrigliano
la fantasia e distorcono l’attenzione dei nostri sentimenti.

MARSICANO, ostile ma spettacolare
Racconto di un’escursione di Fabrizio Bernini
L'escursione al Marsicano (in pieno Parco Nazionale d'Abruzzo) ci ha fatto
incontrare la prima neve della stagione. Nessuno si aspettava una giornata
così rigida, ma soprattutto imbiancata! In macchina ci ritroviamo in
quattro, uno più matto dell'altro. Andrea alla guida, io (Fabrizio) al posto
del navigatore, Angela e Simone adagiati mezzi addormentati sul sedile
posteriore. Partiti dal solito Antico Casello verso le 7.45, abbiamo
percorso la A24 fino alla biforcazione per Pescara, laddove con un tratto
finale di A25
siamo arrivati fino all'uscita di Pescina. Breve pausa subito dopo il
casello per radunare il gruppo e poi ancora un'oretta di macchina fino a
Pescasseroli, gioiellino del Parco Nazionale che ha già visto la prima neve
della stagione. Belli carichi e già affamati, abbiamo visitato uno dei forni
sulla piazza principale, depredandolo delle leccornie fresche di giornata
ancora calde: pizza, cornetti, bombe alla crema. Niente di meglio per
affrontare il freddo e la lunga salita al Marsicano. La neve iniziava subito
fuori dal centro abitato di Pescasseroli, laddove abbiamo percorso con le
automobili circa 2 km di sterrato prima di parcheggiare in uno spiazzo.
Zaini in spalla, erano già quasi le 10.30 e la salita non si preannunciava
affatto facile. Prima di iniziare la parte più impegnativa abbiamo percorso
un lungo tratto all'interno di una faggeta, i cui colori autunnali si
mescolavano meravigliosamente al bianco candido e lucente della neve e
all'intenso verde del muschio fresco. Dopo circa un'ora di cammino avevamo
ormai le gambe calde per iniziare la parte più impegnativa, attraversando a
zig zag il greto di un torrente ormai cosparso di foglie secche e rami
spezzati, il tutto ricoperto da un sottile strato di neve. Qua e là si
scivolava, i piedi affondavano in 10-20 cm di coltre, ma il gruppo procedeva
spedito verso la meta. Il freddo pungeva le mani, le orecchie e il naso,
mentre il cielo minaccioso controllava i nostri passi e la nebbia si
addensava intorno a quella che doveva essere la nostra vetta. Ogni tanto
qualcuno si ritrovava sul di dietro, ma il tutto faceva parte del copione e
dopo una sonora risata si riprendeva con animo la salita. Abbiamo fatte
poche soste, l'esperto capogruppo Fabio sapeva che bisognava tirare se
volevamo
arrivare in cima. Ormai eravamo sparpagliati, ma i più tenaci avevano buone
speranze di farcela. Fiatone e fatica adesso aleggiavano visibilmente
nell'aria; verso le 13.30, quando ormai la vetta era vicina, soltanto 200 mt
di dislivello, abbiamo dovuto arrenderci, cosa che ogni escursionista
assennato deve essere pronto a fare. La nebbia intorno al cucuzzolo del
Marsicano era densa e scura, oltretutto quasi nessuno era provvisto di
racchette e neanche scarpe adeguate. Dopo un maldestro tentativo di spronare
i restanti del gruppo (gli altri avevano già rinunciato e ci avrebbero
comunque aspettato poco più in basso), si fa dietro front, non era
consigliabile affrontare una ripida parete con i presupposti descritti.
Malvolentieri abbiamo voltato le spalle alla montagna e ci siamo incamminati
sul sentiero del ritorno, proprio mentre le ultime persone del gruppo
raggiungevano il punto di raccolta. Dopo aver ventilato la possibilità di
percorrere un sentiero alternativo, ci siamo arresi anche a questa
possibilità dopo aver constatato che il maltempo già oscurava il cammino.
Tutti d'accordo, abbiamo preferito goderci con calma la discesa verso
Pescasseroli, già pensando ad un dolce e bollente cioccolato caldo al tepore
del bar. E così è stato, con in più la sorpresa di una crostata casareccia
preparata da una delle ragazze del gruppo. E così la delusione per non aver
raggiunto la vetta è sfumata tra risate e battute. Nel tranquillo paesino
abruzzese ora echeggiavano i nostri schiamazzi, che nell'oscurità ormai
sopraggiunta del pomeriggio autunnale segnavano la degna conclusione di una
giornata goduta appieno, tra natura, odori e sapori veraci. La giornata
merita un seguito, così ci scambiamo indirizzi e-mail e telefoni, sperando
di poter rivivere al più presto le stesse intense emozioni. La neve ormai
sarà una compagna costante delle prossime escursioni, fino alla primavera:
questa volta ci ha trovati impreparati, ma la prossima volta giocheremo ad
armi pari...buon ritorno a casa!

MALECOSTE, da Campo Imperatore alla cima Karol Wojtila
Racconto di un’escursione di Fabrizio Bernini
Lo
sapevamo tutti, lo sapeva il mondo, lo riporta un noto proverbio, anche nel
film il Marchese del Grillo viene ripetuto, che morto un Papa se ne fa un
altro. Ma Giovanni Paolo II ha segnato un'epoca, di Lui si parla ancora oggi
come di un mito (spero di non essere accusato di blasfemia dai cattolici più
rigorosi) e si continuerà a parlare negli anni a venire, a prescindere dal
fatto se qualche "Concilio" gli darà o meno il bollino di Santo o Beato. E
di lui ricordiamo anche la grande passione per la montagna, dove era stato
sciatore da giovane e dove si ritirava per pregare o per riposarsi ogni
qualvolta poteva.
In Abruzzo devono averlo avuto a cuore in modo particolare, perché un paio
di anni fa, dopo la sua morte, decisero di dedicargli il nome di una vetta
inserita nel massiccio del Gran Sasso, così come riporta nel dettaglio
questa cronaca:
www.korazym.org/news1.asp?Id=12985
.
E domenica 23 settembre 2007, salendo da Campo Imperatore, anche una nutrita
"delegazione" di associati FIE ha raggiunto questa cima poco nota, ammirando
le gigantesche opere d'arte di madre natura che a suo tempo ammirò anche il
Papa. Le solite due orette per arrivare da Rebibbia a Fonte Cerreto, dove la
colazione dentro il Rifugio è d'obbligo per entrare nel clima montanaro.
L'aria settembrina punge, nonostante la giornata sia limpida e meravigliosa.
Alle 10.30 siamo pronti per iniziare la salita, dopo aver parcheggiato in
quota nei pressi dell'osservatorio di Campo Imperatore (2100 mt s.l.m.).
Che dire? Siamo già al cospetto del Re Gran Sasso e di alcuni suoi degni
valletti di corte, tra cui il Prena. Ma il bello deve ancora venire... Il
Rifugio Duca d'Abruzzi, sopra di noi, ci ricorda che tra un paio di mesi qui
sarà già quasi tempo di neve. La immensa piana sotto di noi, ora deserta,
sembra già prepararsi a quel momento, allorquando lo stesso identico posto
dove ora stiamo camminando sarà gremito di sciatori che barcollando con gli
scarponi si accingono a prendere la vicina funivia.
Il nostro cammino si svolge quasi tutto a mezza costa e dopo poco più di
mezz'ora siamo immersi negli Appennini abruzzesi. Il Gran Sasso sembra
seguirci, la sua mole immane lo fa rimanere fisso anche durante la
percorrenza ma al tempo stesso a portata di mano, si potrebbe incautamente
pensare di poterlo raggiungere facilmente. Ci aspetta Pizzo Cefalone,
dobbiamo arrivare fin quasi sulla vetta prima di poter affrontare la cresta
scoscesa che conduce alla meta. Inizialmente nascosto dall'imponente
Cefalone, appare all'improvviso anche Pizzo Intermesoli, che sembra voler
far prevalere la sua stazza confrontandosi con il suo gigante gemello. La
natura intorno a noi sembra ancora piuttosto ferma dopo l'estate, in attesa
di una pioggia ristoratrice che bagni le radici assetate. Il forte ginepro è
aggrappato alle rocce e funge da nascondiglio per minuscoli abitanti del
luogo, come ragni e cavallette. La nostra marcia è abbastanza lenta da
consentire di assaporare l'aria e il paesaggio. In lontananza, siamo sicuri
di intravedere anche l'Adriatico; sapendo che stà lì, basta solo un pò di
immaginazione e un puntino può essere la costa della Croazia...
Stefania ci ricorda che il cammino è lungo, dobbiamo ancora affrontare la
parte più impegnativa. Il gruppo è numeroso, 21 in tutto. Tra noi ci sono
anche 9 aspiranti AEN e Gianfranco cerca di trasferire loro tutta la sua
grande esperienza.
Senza arrivare in vetta al Cefalone, tagliamo attraverso un delicato
passaggio esposto e siamo in vista della cresta che porta fino alla cima
Wojtila. Ora nella scenografia è apparso anche il lago di Campotosto,
appariscente gioiello turchese incastonato tra queste pietre preziose. In
prossimità della cresta ci fermiamo e possiamo in tutta tranquillità goderci
lo spettacolo al gran completo. Ora anche il Corvo e lo Jenca sono dei
nostri, sembrano osservare le nostre caute mosse da lontano. Siccome la
sicurezza non è mai troppa, Gianfranco e Stefania montano una corda-guida
sfruttando gli spit già presenti; anche solo sapere di poterla afferrare, se
necessario, fa comodo un pò a tutti. Alla spicciolata attraversiamo la
cresta, mentre qualcuno, nell'attesa, approfitta per ricaricarsi
sbocconcellando qualcosa. Allegria ed entusiasmo sono lo scenario ideale per
questa giornata, tutti siamo impazienti di vivere la fase più soddisfacente
del percorso. Ecco la cima, adesso la croce montata sulla sua sommità è a
poca distanza e uno dopo l'altro la raggiungiamo. La croce di circa 2 metri
riporta la dedica al Papa, segna 2424 mt. C'è appena lo spazio per tutti e
ci sistemiamo in ordine sparso per godere al meglio del panorama, ora a 360°
intorno a noi. Ciao Velino, ciao Sirente, sotto di noi la piana dell'Aquila
e dietro i suoi immensi silenti guardiani. Un pò più a sinistra la Maiella,
montagna madre degli Appennini abruzzesi. Non possiamo avere di più, almeno
non da qui. Gli zaini ora si aprono; frutta, panini, anche qualcosa di più
impegnativo fa la sua comparsa. Niente di meglio che osservare l'immensità
del panorama mentre arrivano anche i primi segnali di fame. Dopo il pranzo
riprendiamo la via del ritorno; come sempre, la parte più gratificante è
passata e si affronta la via del ritorno con il duplice sentimento della
nostalgia precoce e dell'intima consapevolezza di essersi arricchiti ancora
un pochino. Un oro invisibile che vale molto più di quello giallo e di
quello nero, ma solo pochi eletti possono capirlo...
La vista dell'osservatorio ci accoglie dietro l'ultimo scorcio di montagna,
sono quasi le 17.00 e ormai l'imbrunire autunnale incombe. Gianfranco
riunisce il gruppo mostrando alcune tecniche per fare i nodi, ma può durare
poco perché la temperatura si sta abbassando velocemente. Ci salutiamo e ci
scambiamo gli indirizzi di posta, c'è voglia di condividere i ricordi della
giornata. Con un sorriso stampato sul volto, evidente segnale di
soddisfacente gioia interiore, ci avviamo verso le macchine, dove ciascuno
trova modo di assaporare un gradevole tepore e un meritato riposo.

Monte Viglio (2156 mt s.l.m.)
escursione G.E.P. e SENTIERO VERDE del 16.09.2007
Racconto di un’escursione di Fabrizio Bernini
Anche
questa volta non sono riuscito a convincere gli amici a seguirmi, "la
domenica è sacra, mi dedico a me stesso", "la domenica ciabatte e pigiama
fino alle 11.00", "andiamo a fare un giro da Ikea, dobbiamo sistemare la
camera da letto...". Eccomi dunque ancora una volta davanti all'Antico
Casello alle 7.30 in punto, è la prima escursione dopo il ritorno dalle
vacanze estive. La mattina è fresca e questa domenica di metà settembre
promette un bel carico di emozioni da spendere in montagna.
La meta è il Monte Viglio, la vetta più alta dei Monti Càntari. Posto al
confine tra Lazio e Abruzzo, tra le province di Frosinone e L'Aquila, il
Viglio è contenuto nel Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini. Siamo
in 15, belle facce allegre più o meno assonnate, ma pronte a svegliarsi di
fronte alla sollecita organizzazione degli accompagnatori, i due AEN Pietro
Pieralice e Giuseppe Virzì.
Dopo la partenza da Roma, l'appuntamento è a Filettino, dove arriviamo dopo
essere passati per la bella cittadina di Fiuggi. Tra ritardi e strade
sbagliate, ci ritroviamo davanti alla fontana dell'Aniene alle 10.00, con la
genuina impazienza di mollare le macchine e sgranchire finalmente le gambe.
Ancora una mezz'oretta di sofferenza prima di arrivare al valico Serra
S.Antonio (circa 1600 mt slm), da cui l'indicazione per campo Staffi mi fa
venire voglia di sciare. Finalmente! Tutti a terra, zaini in spalla e si
parte.
La prima mezz'ora del percorso si svolge su un sentiero sterrato che sale
dolcemente verso la Fonte Moscosa (circa 1616 mt slm), dove facciamo un
primo stop per decidere quale sentiero prendere tra i due che conducono alla
vetta del Viglio. Qualcuno ne approfitta per fare scorta d'acqua sorgiva
alla Fonte Moscosa, nulla da individare allo spot di Messner davanti alla
fonte Levissima!! C'è anche un'area picnic che ci avrebbe attesi fino al
nostro ritorno, qualche ora più tardi.
Saliamo verso destra, scegliendo tra i due il percorso più panoramico. Il
gruppo è ben assortito e tutti abbiamo una gran voglia di scoprire le
bellezze di questa parte del Parco. Dopo qualche decina di minuti
incontriamo i primi cavalli, che con i loro zoccoli si tenevano in
equilibrio (apparentemente precario) sulla costa della montagna, scovando
con perizia qualche cespuglio da brucare tra le scomode rocce. Arriviamo
così al pianoro da cui ci appare un primo assaggio della vista sui monti
circostanti. La foschia ci nega di riconoscere con precisione diverse vette,
ma avvistiamo con certezza il cono del Velino, sulla destra il fratello
minore Cafornia e più in là le Gole di Celano.
Non affrontiamo grosse "pettate", la salita è impegnativa pur mantenendosi
ad un ottimo livello di godibilità. La croce azzurra a quota 2156 inizia a
scorgere in lontananza e con il binocolo si intravedono nitidamente le
sagome degli escursionisti che ci precedevano. Dopo un lungo tratto a mezza
costa, ecco spuntare il massiccio "Gendarme", grosso blocco di pietra
preposto a sorvegliare la salita alla vetta, ultimo baluardo prima del
ripido tratto finale. Dopo esserci avvicinati, lo affrontiamo uno dopo
l'altro, con sicurezza, l'impegno è abbordabile anche per i meno esperti.
Ora siamo proprio sotto la vetta e alcuni di noi preferiscono costeggiare la
cresta lateralmente piuttosto che arrivare da sotto. Alcuni metri più in
basso della croce, un eterno ricordo di tre escursionisti giace inerme,
ancora una volta ricordando che la montagna esige rispetto sempre e
comunque. Finalmente tocchiamo la croce! Il diario di vetta 2007 lasciato
dalla sezione CAI di Colleferro ci aspetta ben custodito dentro la
cassettina di ferro. A turno ci passiamo la penna e scriviamo qualche
pensiero lasciandoci trasportare dalla gioia e dalla misticità di quel
momento, solo apparentemente uguale a quello vissuto in precedenza su un
altro monte. Osserviamo la Val Roveto sul versante Est, la Val Granara sul
versante Ovest, le vette lontane della Maiella, del Velino e del Sirente.
Spezziamo l'incantesimo per un buon motivo, il pranzo. La soddisfazione
produce relax e con la bocca piena ci godiamo il fresco vento d'altura. Un
vento che spinge anche alcuni nuvoloni sopra di noi, incoraggiando alcuni a
rovistare nello zaino prima di indossare un'altra maglietta.
Qualcuno ha le competenze per arricchire questi momenti con un tocco di
cultura. Veniamo infatti a sapere che proprio sotto il cocuzzolo, ben
visibile, si trova un cimelio storico non indifferente, ovvero uno dei cippi
che segnavano il confine tra Stato Pontificio ed il Regno Borbonico di
Napoli. Pare che nella zona ne siano disseminati parecchi tuttora, numero
che va via via purtroppo riducendosi a causa di qualche furbone che spera di
dare importanza alla propria sala da pranzo... Questo confine era
attraversato dai briganti quando, dopo l'unità d'Italia, il Papa dava
protezione a chi recava qualche forma di danno ai propri nemici. Presi dalla
curiosità, alla spicciolata tutti ci spingiamo fin là per una capatina.
Ancora evidenti sono da una parte le Chiavi di Pietro, simbolo dello Stato
Pontificio, e dall'altra il Giglio, simbolo dei Borboni. Ci concediamo
ancora qualche minuto di relax, tra fotografie e battute defaticanti. I
nuvoloni ci convincono ad incamminarci e, lentamente, iniziamo la via del
ritorno. In ordine sparso, fermandoci nei punti più panoramici a godere
l'immensità del panorama, ancora una volta affrontiamo il Gendarme, questa
volta in discesa. Qualche difficoltà in più, alcuni ciottoli smossi dagli
scarponi precipitano facendomi riflettere sulla fatalità di un incidente di
montagna. Con accortezza ci ritroviamo di nuovo tutti insieme, ora la fatica
si sente e le ginocchia possono far cilecca. Il gruppo a fisarmonica si
ritrova e si disperde, ma ormai siamo in vista di Filettino, segno evidente
che anche questa esperienza sta volgendo al termine. L'area picnic adiacente
alla Fonte Moscosa è l'ideale per scambiare qualche battuta ed ascoltare i
più esperti che raccontano aneddoti divertenti, aggiungendo un ricordo in
più ad una giornata da incorniciare. Con malavoglia ci alziamo e affrontiamo
l'ultimo tratto del sentiero che riporta al Valico Serra S.Antonio. Ne
approfitto per camminare da solo, rifletto, mi fermo, guardo ammirato a
terra come un bambino le foglie dell'autunno, stupendo tappeto naturale. La
giornata volge al termine ed io sono contento di godere ancora di queste
piccole cose, felice di poter sentire il vento soffiare ed il mio respiro
lento riempirmi i polmoni.

Monte Jenca
escursione G.E.P. dell'8 Luglio 2007
Racconto di un’escursione di Fabrizio Bernini
Il Monte
Jenca è una delle vette più belle del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti
della Laga. Alto 2208 mt, deve il suo nome alla famiglia che fu proprietaria
delle terre dentro cui si erge.
Appuntamento ore 7.30 al Bar Antico Casello, davanti alla Stazione
Tiburtina.
Eravamo un gruppo piuttosto nutrito, 18 persone in tutto. Dopo la colazione
di rito e la ripartizione delle persone nelle macchine disponibili, siamo
partiti verso l'autostrada A24, ansiosi di sfruttare al meglio la bellissima
giornata di sole di luglio.
L'escursione vera e propria è iniziata dal Passo delle Capannelle. Dopo
essere arrivati con le macchine fino all'inizio del sentiero, ci siamo
incamminati verso il rifugio Panicucci, la prima tappa del lungo anello di
13 km. Qui gli accompagnatori (AEN) ci hanno mostrato la pianta del Tasso
Barabasso e quella della Genziana, apparentemente uguali ma in realtà
facilmente distinguibili ad una analisi più attenta. Pare che le foglie del
Barabasso venissero utilizzate come carta igienica dai pastori, data la loro
particolare morbidezza...
Seconda Domenica di luglio, abbiamo trovato una giornata bellissima,
assolata e calda. Per camminare non è il massimo, ma la limpidezza del cielo
mi faceva ben sperare per il panorama. Dopo un tratto in cresta, abbiamo
iniziato a scorgere uno dei rami del lago di Campotosto ed il minuscolo
laghetto della Provvidenza. Quest'ultimo è alimentato dal primo e con il suo
colore verdissimo si mimetizza perfettamente nel verde circostante.
Il gruppo si sgranava facilmente, uno degli accompagnatori, Roberto, faceva
il battistrada seguito da alcuni più allenati tra cui me. Gli altri si
distanziavano via via, o perché si fermavano più a lungo a fare foto o per
tirare il fiato. Man mano che salivamo, si apriva garadatamente la
spettacolare vista sui rami del lago di Campotosto e sulla caratteristica
forma a "V" del suo bacino.
L'ultimo pezzo della salita alla vetta è piuttosto ripido, ma la
meravigliosa vista e il silenzio rotto solo dai campanacci delle mucche
spingevano a salire con convinzione.
Una volta sulla vetta, un gradevole venticello alleviava il caldo del primo
pomeriggio, ci siamo concessi il pranzo al sacco tra una fotografia e
l'altra, ormai appagati dal meraviglioso paesaggio circostante.
La giornata era talmente limpida che in alcuni momenti si riusciva ad
intravedere l'Adriatico. Ma anche non volendo arrivare così lontano, gli
occhi si poggiavano ovunque su vette maestose: il Vettore, immerso nei
Sibillini, il Velino e la catena del Sirente, il Terminillo guardando verso
Roma, il Monte Corvo con i suoi 2600 metri proprio di fronte a noi e più in
lontananza, sempre verso sud-ovest, il Corno Grande del Gran Sasso, che
nasconde la immensa catena della Maiella.
Una buona mezz'ora di relax e poi ci siamo incamminati per la discesa. Non
proprio agevole, siamo passati attraverso un ripido sentiero cosparso di
scomode pietre, giù verso il rifugio della Piana del Castrato. Qui ci hanno
accolti due personaggi particolari, una via di mezzo tra pastore e alpino,
che erano lì a farsi compagnia e godersi la tranquillità.
Il rifugio non aveva nulla, se non lo splendido fontanile adiacente, da cui
sgorga un'acqua spettacolarmente fresca e limpida. Sdraiaiti sulle dure
panche del rifugio, ci siamo riposati un'oretta, prima di ripartire verso le
macchine. Ci aspettava però un altro stupendo percorso, all'interno di una
enorme faggeta, sotto la quale ogni raggio di sole arrivava spento ad
illuminare i nostri passi.
Quando ormai pensavamo di essere quasi arrivati, ciò che rimaneva di una
precedente frana ci ha costretti a cercare un percorso alternativo,
allungando l'escursione e mettendo a dura prova la nostra resistenza. Ma a
contatto con la natura tutto è meno duro, abbiamo vissuto anche l'ultima
parte dell'escursione in maniera simpatica e goliardica, ridendo sonoramente
alle battute di Roberto che prendeva in giro Giuseppe.
Alle macchine eravamo esausti, ma ogni volto rivelava una evidente felicità.
Tutti portavano dentro una giornata di meraviglioso contatto con la natura e
in qualche modo di grande spiritualità.

Monte Prena (2.561 mt)
Escursione di Kronos del 29.07.2007
Racconto di un’escursione di Fabrizio Bernini
Il Prena
è un osso duro, così l'appuntamento è adeguato a difficoltà e durata
dell'escursione. Ci si vede alle 6.30 a Rebibbia, perché l'idea è quella di
partire alle 7.00. E come tutti gli appuntamenti che si rispettino, anche
questo doveva tenere conto dei tempi di colazione e piccoli ritardi, nonché
la gioia di condividere l'entusiasmo con i presenti o con i precedenti
compagni di escursione che oggi hanno scelto qualcos'altro.
E' il 29 luglio, la giornata è calda. Alle 7.00 in punto le macchine si
mettono in moto, partiamo in 7, altri 2 li recupereremo in autostrada e
altri 2 alle pendici del Gran Sasso. L'uscita è quella di Assergi, subito
dopo quella di L'Aquila Est. Ci si incammina poi verso il Parco Nazionale,
nel quale si arriva dopo pochi km di marcia. Una sosta al piazzale da cui
parte anche la funivia prima di affrontare gli ultimi km di tornanti che ci
condurranno alla piana di Campo Imperatore. Da Fonte Vetica imbocchiamo una
carrareccia e dopo 3-4 km di strada bianca, percorribile abbastanza
facilmente, finalmente scendiamo dalle auto per indossare gli zaini in
spalla e gli scarponi, che già scalpitavano ansiosi di divorare metri su
metri verso anche questa sfidante cima. Tra le varie soste ed attese,
iniziamo a camminare alle 10.15, a quota circa 1630 metri. Durata stimata 9
ore.
Dopo un breve tratto semi pianeggiante ancora lungo la carrareccia, deviamo
a sinistra come indicato dalle segnalazioni rosse e gialle. Si sale
abbastanza ripidamente a zig zag verso la sella, da dove deviamo decisamente
per scendere nuovamente fino alle pendici del grande Prena. La imponente
parete, quasi completamente denudata dal verde, si staglia davanti ai nostri
sguardi. Il primo tratto è divertente, in alcuni tratti ci sono passaggi di
primo grado ma per la maggior parte si cammina tranquillamente. Questa
montagna comunque esige rispetto e ce lo ricorda quando sentiamo un
elicottero che si avvicina. Sembra ce l'abbia con noi perché ci si ferma
proprio sopra. Cercano di segnalarci qualcosa, vogliono informazioni se va
tutto bene. Un pochino infastiditi dal rumore e dall'innaturale vento
generato a terra, avanziamo nell'ascesa anche se il rumore continua a
ronzarci. Iniziamo ad avere qualche dubbio, i cenni che intuiamo
dall'elivolante sono a metà tra saluti e domande. Alla fine capiamo tutto,
perché raggiungiamo un gruppo di escursionisti intravisti dal basso sulla
parete e ci dicono che un loro compagno ha avuto un incidente durante
l'arrampicata di 3° grado che si stavano trovando ad affrontare e che ora
attende anche noi. Siamo attrezzati con imbraghi, corde e rinvii, ma non
tutti i componenti del gruppo hanno già avuto esperienze di questo tipo.
Prima di attrezzare il breve ma insidioso tratto di parete antistante,
attendiamo che i mesti componenti del gruppo che ci precede scendano, la
loro giornata è finita anticipatamente, purtroppo la mancanza di idonea
attrezzatura ha ancora una volta causato un incidente che poteva finire
peggio. Io ed altri abbiamo un pò di esperienza nell'arrampicata e apriamo
le danze attrezzando il lastrone antistante. Dopo Mario, l'accompagnatore
salito per primo, uno dopo l'altro infiliamo l'imbrago e ci issiamo verso la
prima sosta. Si riprende a camminare dopo una mezz'oretta, adesso il
percorso è davvero impegnativo, i passaggi tra le strette rocce si fanno più
frequenti e il tutto rende questi momenti indimenticabili. Il paesaggio è
lunare, vegetazione praticamente assente e alti canaloni fiancheggiano il
nostro gruppo che avanza. Altre due volte attrezziamo la roccia, siamo tutti
in forma e uno dopo l'altro ci ritroviamo ad incoraggiarci e a farci i
complimenti dopo i vari passaggi. Adesso è dura veramente, si sale
arrancando verso la vetta che ancora non si degna di farsi vedere, nascosta
com'è dietro un immenso spuntone di roccia che ci illude di essere arrivati.
Prima di arrivare alla cima decidiamo di pranzare, sono ormai quasi le 15.00
e la meta non è vicinissima. Panini, frutta e dolcetti fanno la loro
comparsa. Devo constatare come la fatica abbia un effetto stranamente
antitetico su alcuni componenti del gruppo. Io per esempio divento
voracissimo, mentre qualcun altro perde quasi completamente l'appetito.
Comunque da una parte è meglio mantenersi leggeri, ci aspetta ancora una
bella sgroppata fino alla vetta. Da qui, dove ci siamo fermati per il
pranzo, si intravede la croce a quota 2561, mentre intanto un minaccioso
cielo nuvoloso ci induce ad alzarci, affrettando il passo verso la cima.
Il gruppo si divide, ma poco a poco il Prena viene dominato da uno, due,
fino a tutti gli 11 escursionisti della domenica. Dalla vetta il panorama è
eccezionale, nonostante la foschia si intravede il Vettore ed in lontananza
il Velino con la sua vetta appuntita. Da una parte e dall'altra due maestose
presenze, il Camicia e il Gran Sasso, due fratelli del Prena che ci guardano
intimandoci rispetto. Silenziosamente ci riposiamo, alcuni mangiucchiano gli
avanzi del pranzo ed altri si cambiano in vista della lunga discesa. Con il
binocolo mi tolgo un'altra soddisfazione, riesco ad individuare in
lontananza, molto più in basso, il castello di Rocca Calascio, laddove vide
la luce il mito di Lady Hawk. Sono quasi le 17.00, la temperatura sta
scendendo e le nubi nascondono spesso il sole, che adesso ci farebbe comodo
con il suo calore pomeridiano. Dopo qualche foto di rito vicino alla croce,
prendiamo la via del ritorno. Scegliamo la "normale", quella dell'andata è
troppo rischiosa per chi ha già speso molte energie. Dopo un lungo ripido
primo tratto, una pietraia costellata di infido "sfasciume", ci ritroviamo
davanti la parete Est del Prena. Guardando verso l'alto, notiamo il sole che
sta per nascondersi dietro e osserviamo ciò che resta di una strana
architettura rocciosa, laddove una immensa pietra si staglia in equilibrio
tra due massicce colonne. Chissà chi avrà il dono di vederla precipitare (da
lontano), o solo di sentirne il fragoroso rombo di tuono. Quasi tutti però,
tra pochi giorni o tra migliaia di anni, osservando quel foro, si dovranno
fidare ed accontentarsi di sapere che qualcosa lì in mezzo c'era...
Continuiamo a scendere fino al Vado Ferruccio, a 2233 metri. Da lì ci
aspettano ancora saliscendi, prima di iniziare il lunghissimo tratto finale,
un declivio piuttosto impegnativo che porta fino a dove la vista della piana
di Campo Imperatore avverte che il ritorno è vicino. Illusione ottica
chiaramente, la montagna non ti permette di fare troppi programmi. Ancora
un'ora di cammino prima di ritornare sulla carrareccia che avevamo lasciato
solo qualche ora prima. Sono quasi le 20.00, adesso vogliamo solo arrivare a
Fonte Vetica per una birra e un tozzo di pane con formaggio e salame. In
maniera frammentaria tutti arrivano alle macchine, con una giustificata
stanchezza e una soddisfazione enorme. Qualcuno ha sete di birra e mette
fretta a tutti, le macchine si accendono... un attimo! Sentiamo una voce che
forse chiede aiuto! Niente paura, stavolta sono solo tre ragazzi trafelati
che, con la notte alle porte, ci chiedono uno strappo fino alla loro auto,
ad almeno 1 km di distanza. Ma prima di esaudire il loro desiderio, tutti
insieme a bere birra ascoltando dal vivo la taranta, tradizionale musica
abruzzese.