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"Romanzo napoletano

(La Rivoluzione del '99)"

 

NON SONO IL BASSISTA DI PASSAGGIO

ovvero:

RACCONTO ELETTORALE E MUSICALE                                                               SULLE STRADE D'AMERICA E D'ITALIA

Nel 1996, Alex Jurlaro cominciò a scrivere questo romanzo, di cui si riportano le prime pagine, che salta continuamente da un viaggio nell'America dell'Era Clintoniana, con rivoluzione informatica e riforma del Wellfare, e l'Italia delle illusioni pre-Tangentopoli e delle difficoltà post-Tangentopoli, quando si tenta una sorta di Clintonismo tricolore. Una storia alimentata continuamente dalla musica e dai blues di Alex.

BLUES DEL NON SO DOVE

Adesso parto per il non so dove (ma che ci vado a fare?).

Ho i diavoli del non so dove, non cercare di fermarmi.

Incontrerò il vecchio che beve alla fonte,

maneggerò le armi dei potenti,

scalderò il vino da singhiozzo,

bacerò l'amore del non so dove.

Hai chiamato la figlia del mercante?

Lei non sa venire sul sentiero selvaggio.

Hai parlato all'uomo pelato del successo?

Lui misura le parole al microfono,

ma non sa venire, non può venire

con me nel non so dove.

Questi maledetti diavoli del non so dove

non mi lasciano dormire stanotte.

Nei sogni disperati non c'è la risposta.

Allungami la tua proposta di vita,

voglio ragionarci un po' sopra

prima di partire per il

non so dove.

Non serve la tua dannata voce razionale,

non bastano le realtà che hai in tasca.

I diavoli del non so dove portano più lontano,

puoi solo seguirli o decidere di non parlare.

Non parlare mai più,

mai più,

perché quello che hai dentro

sfugge sempre nel non so dove.

Sputami in faccia se resto immobile in silenzio.

Sto costruendo un futuro irreale.

Adesso parto per il non so dove (ma che cavolo ci vado a fare?)

Sputami in faccia se non parto,

perché non so che resto a fare.

Mandami un elenco telefonico del non so dove,

provo a chiamare qualcuno che me lo racconti.

Adesso parto per il non so dove, e non c'è davvero altro da fare,

nessuno che mi possa accompagnare.

Il non so dove non si può comprare.

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Ozarks Mountains

(Northeast Arkansas)

15 ott. 1996

>”Dealin’ with the Devil” (James Cotton)

Ero venuto a cercare Bill il presidente, erede stravagante di Buffalo Bill.

Ma, sulle Ozarks Mountains, nella patria di Bill il presidente, tra foreste, cascate e ricordi di lacrime dei Cherokee, che di qui passarono quando furono scacciati dal Tennessee (il sentiero del pianto), nell’Arkansas, capitale di polli e di tacchini, ho trovato solo il vecchio James Cotton, armonicista del Mississippi (Tunica). Una voce da incubo che unì all’armonica quando sentì Sonny Boy che suonava per una radio di poco oltre confine, la radio di Helena, porta dell’Arkansas per chi viene dal Mississippi.

James tra gli artisti che si rifugiano sulle Ozarks. Ha voluto sapere la mia storia, quando ho pianto ascoltando la sua “Dealin’ with the Devil”, cioè “Avere a che fare con il Diavolo”: “avrò a che fare con il Diavolo...dormirò con il Diavolo, perché la mia donna non mi ama più”.

Storia dei sentimenti esplosi un anno fa in questo periodo, dopo dieci anni di silenzio, di cammino senza pause né distrazioni per trovare la strada (“the trail of tears”, come i Cherokee, gli ho detto). Come un fulmine che ti vedi arrivare addosso al rallentatore, una scossa che ti affonda nella carne,  che puoi solo seguire dovunque vada, senza difese. E una volta che la saetta decide di sparire chissà dove, la corrente resta ad ondeggiare in ogni cellula come una musica e un odore di cui non ti puoi liberare.

“Diavolo, ma tu hai il Blues”, mi ha urlato col suo vocione roco extrasensoriale James, “com’è vero che Arkansas in lingua indiana significava Vento del Sud”, ha aggiunto.

“I come from the South”, ho biascicato, mentre la testa mi sprofondava tra i legni dell’Ironworks Blues Club, il localaccio dove stavamo bevendo birra. Allora ho capito il magnetismo degli Ozarks, monti magici nel culo degli Stati Uniti.

“Suona con me !”, ha ordinato James.

“Dai, non posso. I’m not at all the passing bassman. Non sono mica il bassista di passaggio...”

Mi è scappata questa frase dalla mente perduta lontano, ad un anno fa. “Non posso mica trattarti come il bassista di passaggio”, aveva detto lei proprio in questo periodo, nell’autunno romano ancora tiepido e affollato di concerti all’aperto, interrompendo la mia voce che aveva preso a camminare nei suoi sentieri più profondi.

Col suo gergo da corista che sale in pedana a cantare la particina come anteprima di un dopo spettacolo infuocato, in quell’istante, sulla sponda del suo letto di fronte alla finestra semi aperta, la luce tenera diventata quasi buio e spazio infinito, mi aveva estratto dall’affollato esercizio di vita del prendersi e del darsi, rabbioso sfogo sostitutivo, in mancanza di sentimenti. Mi aveva tolto dal rito della pedana, dove si scaldava il sesso per il fine serata. E mi aveva collocato in cima ad un abisso dove aveva deciso di non tuffarsi più.

Si stupiva con sé stessa per aver detto: “non posso trattarti come il bassista di passaggio”. E di essere riuscita a mala pena a trattenere l’espressione, riemersa non sapeva bene da quale tomba del tempo, con cui le era venuto naturale chiudere la frase: “amore mio”. Sorpresa e subito in ansia per qualcosa che si può rompere, svanire proprio come previsto nel copione, ma ora all’improvviso non si vuole più. Le era presa la smania di avere tutto e per sempre, almeno senza scadenza, e la voglia di poterci credere. Con impazienza, travolgente, senza darmi il tempo di accorgermi che desideravo lo stesso, comunicava da ogni poro: voglio tutto, ora, non voglio soffrire all’idea che non ci sei, che mi fai aspettare, che puoi andare via. Bruciava di paura di crederci troppo, di restare delusa, di non essere capace di sopportare l’onda dei sentimenti. E decise di strapparseli di dentro.

“I’ll teach you”, ti insegno io, ha detto James, andando a pescare il basso disteso dietro gli amplificatori, sulla pedana per i musicisti.

“Accendi il tuo fottuto registratore !”, mi ha intimato, mentre nell’Ironworks Blues Club piombava un silenzio da avvenimento storico.

James, emigrato a Chicago con l’armonica, è tornato al Sud per dare lezioni di basso ad un semi-giornalista del Sud di una terra lontana, chiamata Italia.

Hey ! Ragazzi, ascoltate ! Il basso canta queste montagne e il pianto d’amore.

 

>Ozarks Mountain Blues (James Cotton)

“Hai visto come si fa ?”, ha grugnito ridendo. E mi ha buttato la sua armonica.

“Scommetto che sei di quelli che poi scrivono lettere strappalacrime”, mi ha riso di nuovo dietro, ma senza cattiveria. Ha tirato fuori un’altra armonica e ha suonato un giro.

“Metti via quel bastardo di un block notes e soffia così. Non dirmi che non sai seguirmi nel giro di Sad Letter, lettera triste...” E giù a ridere.

Sad Letter comincia con un nitrito d’armonica su cui si aggancia il basso.

Hey, ragazzi ! Sto suonando una lettera triste con il grande James Cotton !

 

>Sad Letter (James Cotton)

“I gat a letter this morning, this is the way my letter is…he tell me your baby is dead”

“Per Dio, chi ti ha insegnato a soffiare così, razza di porco italiano ?”E ora, come gli spiego di Edoardo Bennato e del mio amico Alex Daguerre a Napoli ?

“E’ stato il Diavolo e una donna che si chiama come la Madonna”, scherzo e piango, non so perché, con la birra che mi affoga la voce.

“E ora sei rimasto solo, col Diavolo, come un povero diavolo...”, sfotte James.

“C’mon, seguimi ! Che domani ti presento una che ti fa dimenticare la Madonna. Ragazzi, per il mio amico napoletano, il bis di Dealin’ with the Devil”.

>”Dealin’ with the Devil” (James Cotton)

“’Couse I’ll be dealin’with the devil, I’ll be dealin’ with te devil (2), my woman don’t love me no more…I soon be sleepin’ with the devil (3), my woman don’t love me no more”  

Ozarks Mountains

(Arkansas)

16 ott. 1996

Alba

E’ stata dura prender sonno nell’Owl Hollow County Inn Bed and Breakfast di Mountain View. Qui dormono tutti i musicisti della zona. Anche James e questa rocchettara che vuole presentarmi oggi. Ho una giornata di interviste sul presidente davanti. C’è un sole stupendo in arrivo, la pioggia è volata via col blues. Sento che le rocce (rocks) mi pompano il rock nelle vene.

Diavolo, qui finisce che mollo il lavoro e vado per la tangente. Così mi licenziano.

Amen ! Troverò qualcosa di più umano da fare.

Altro che tv !

 

>Ozarks Mountains Blues (James Cotton) 

16 ott. 1996

Sera

Mio Dio ! E questa dove l’ha pescata ?

Pelle bianca da paura, occhi azzurri, dolci ma fradici di sentimenti, una canottiera che ti fa capire quanto diavolo è donna, i capelli divisi al centro, scuri e folti, che nascondono le spalline e leccano il seno sotto la magliettina.

E poi, l’espressione di chi ti ascolta fino alla bocca dello stomaco, per sbatterti in faccia la sua capacità di capirti, con quelle labbrone da sfottò e da amore alla “decido io”.

“Patti, questo mio amico è l’uomo giusto per darti l’ispirazione per una canzone”, mi presenta James Cotton.

Lei se ne sta a cavallo di una sedia, aggrappata come alle redini, e mi guarda come un fenomeno arrivato da una dimensione sensuale. Il mento è a tre centimetri dalla spalliera, ma non c’è rilassatezza in lei. E’ pronta.

Ascolta la storia che le vomito addosso. Poi ad un tratto scavalca la sedia con la gamba lunga e stretta nel jeans nero (diavolo, ha anche le gambe questa medusa, belle !), mi stampa un bacio, mi allunga una carezza tra le spalle e la schiena, prende chitarra, Camel e birra, e sparisce al piano di sopra, nella sua stanza.

“E’ l’ultima volta che vedi Patti Rothberg. Se sopravvivi al colpo, lo racconterai ai nipoti. Fra un’ora tutto pronto”, dico al cameraman. Partiamo per Kansas City

>I’m gonna move to Kansas City (Robert McCollum/Robert Nighthawk - canta Junior Wells)

“..Looking for the woman they call Lucille. She doesn’t move to Kansas City...Honey where they don’t love you”

Non ho più languore, non sentimenti fluttuanti, non pensieri. Sono una macchina da vita che voglio vivere. Tutto realtà ed energia. Si parte ?

No, un’ora dopo Patti torna giù con tutta la band.

Mi si siede davanti con i gomiti appoggiati sul tavolo. Non sa da dove cominciare. Sorride, accenna a parlare, le scappa qualche gesto. Poi scuote il capo e comincia a togliere tutti gli oggetti dal tavolo : portacenere, bicchieri, mezzo hamburgher, patate cadute, saliera, tomato, menù...Lascia solo la tovaglietta di carta.

Tira fuori un pennarello e una penna a china, di quelle da architetti (chissà perché non si è laureata...). Scrive il titolo a caratteri buffi. E poi, per 40 minuti, va giù a zampettare il testo, strofa dopo strofa. La canzone sulla mia storia.

Treat me Like a Dirt, che in napoletano suona come “Mi tratti una munnezza”, e in inglese raffinato “Mi tratti con disprezzo”.

Non mi sono perso una parola né un segno sulla tovaglietta. Ma Patti non consente distrazioni quando mi rilegge il testo, pronunciando ogni parola come una frustrata da condanna alla pubblica fustigazione.

E, appena accenno a girare lo sguardo attorno nella sala ammutolita, mi sbircia sottocchio e stringe forte con le ginocchia le mie gambe sotto al tavolo. E provo un calore di comunicazione totale.

“Embè ?”, mi taglia con una smorfia di soddisfazione alla fine. Giusto il tempo di lasciarmi di stucco a cercare una parola. Ha già riscavalcato la sedia ed è sulla pedana con la chitarra aggrappata al bacino.

 

>"Treat me like a dirt" (Patti Rothberg)

Un fendente, un giro facile facile , di quelli che negli Anni Settanta scioglievano la paralisi da impatto sociale. La band la segue come un plotone di kamikaze. Le ragazze che giocano al biliardo dietro al palco si avvitano alle stecche poggiate per terra. E al terzo “Treat me like a dirt”, fanno già coro. Ora è la loro storia.

“You stay away from me because you know I’m good for you, and you are masochistic too. The reason I want you so much is ‘cause I know you’re not good for me, so together we are perfect. Don’t you see…”

Volo via dalla scena, attraverso lo scalone, raggiungo la balaustra che domina la sala dall’alto. Voglio viverla dal di fuori.

Assolo di basso. Patti poggia la chitarra su un amplificatore.

Assolo di batteria. Patti è al bancone e porta via due birre e un pacchetto di Camel Light.

Battono tutti le mani a tempo di “Treat me like a dirt”. Patti schiva sorridendo tavolini, padrone del locale, braccia di chitarrista protese per ritirarla sul palco, fischi, urla e pacche di amici e clienti.

Un fulmine, su per le scale, come diretta in Paradiso. Come un pompiere. Mi urla qualcosa. Per Giove, Patti ! Dove sono le fiamme ?

Un bacio per estrarmi dai pantaloni. Un sorso di birra per aspettare che la mia bocca scivoli sulla sua schiena. Un calcio alla porta della camera per non mostrare il seno a chi passa nel corridoio. Un tramestio di vestiti residui gettati via.

Santa pace ! Dove inizia e dove finisce questa donna ? “Scivolami dentro”, è la risposta di Patti.

Ozarks Mountains

(Arkansas)

17 ott. 1996

Alba

 

Un pensiero lontano che si fa largo nel dormiveglia, il tempo di riorientarsi nella penombra.

>”Salsa” (Daniela Ramo y sus Corridos)

“Cià, cià, cià # cià, cià”, batte il ritmo di salsa dalla radio di Hot Spring che arriva fin qui. Daniela Ramo y sus Coridos cantano un pezzo che invita a baillar. Non capisco cosa c’entri in terra di blues&country. Andando a bere dalla bottiglia d’acqua che è sul cassettone vicino alla finestra, accenno qualche passo in mezzo alla stanza.

“Oye, Oye! Alma mi, yo  me siento  muy bien con la salsa! Oye, oye! Esta musica muy sabrosa, carinhosa. Oye, oye! Con la que vamos a seguir bailendo. Oye, oye! Con la que vamos a seguir cantando”

Non ho mai imparato bene da quando ho perso la possibile partner, la salsa-ispiratrice. Un’italiana caraibizzata, la Cubana, come l’avevo soprannominata per non doverne dire il nome. Insomma, la corista dell’anno prima.

Scrivo qualcosa sul block notes, mi infilo una camicia a scacchi e torno sotto le coperte. Patti allunga una mano e cambia stazione.

>”Benediction” (di Mose Allison. Cantano Van Morrison, Georgie Fame, Ben Sidran).

“My message this evening is simple indeed. Wherever you wonder, whatever your breath. There’s just one thing baby that comes from above, when push come to shove. Thank God for self love!”

Sospira e sprofonda nel materasso, a pancia sotto. Per lei la salsa è stata un disturbo semicosciente all’alba. Per me, uno sturbo, un brusco risveglio in mezzo ad un sogno travolgente. Un chiodo che poi ti insegue, nonostante i tanti tentativi di martellarlo via nel profondo. Più lo spingi giù e più ti si conficca dentro. E non sai neppure se si possa chiamare amore di ritorno.

La mente mi si scioglie e mi accorgo di avere le dita di una mano intrecciate con quelle di una donna con la quale divido un pezzo rock. L’altra mano le accarezza i capelli. I nostri corpi e le sensazioni dondolano sulle voci di Van Morrison, Ben Sidran e Georgie Fame che cantano “Benediction” del grande Mose Allison da Tippo, Mississippi.

Nell’aria dolce dell’aurora, realizzo di essere solo un giornalista di passaggio. E mi scoppia la voglia di partire.                    

 

Ozarks Mountains

(Arkansas)  

17 ott. 1996

Alba

>”If you live” (Mose Allison con Van Morrison, Ben Sidran, Georgie Fame)

“If you live, your time will come (2)…a day will come…your day will come”

Quando ti lasci dietro gli Ozarks, è come abbandonare un posto sicuro, dove i pensieri possono fluttuare indisturbati, ed affrontare la vita. Alle spalle, gli aceri che danno ombra all’Owl Hollow County Inn Bed and Breakfast, la Corthouse Square, irreale al mattino senza musicisti, via da Muntain View,  attraverso Batesville, la porta degli Ozarks, giù per la statale 14.

Il cameraman sonnecchia semi-sdraiato dietro. Sul sedile al mio fianco la producer fa i suoi calcoli di itinerari, tempi, interviste e immagini da raccogliere, mentre la strada si srotola verso Memphis, Tennessee. Velocità costante, da limite americano. Ora alla radio Bobby Reed canta “Going home”.

>”Going home” (Ling-King. Canta Bobby Reed)

“I’m going home to see my baby, I’m going home (2)... There is something wrong, please let me know, ‘couse my baby needs me and I really, really must go…”

Stacco una mano dal volante e stringo in tasca i due elastici colorati con cui Patti si ferma i capelli. Un trofeo per tenerla vicina ancora un po’.

“Torna con un’altra storia buona per una canzone”, mi ha detto con l’ultimo bacio, prima di rigirarsi a pelle di leone fra le coperte.

Preoccupazioni da rock-star. Da donna che vuole stringere qualcosa tra le corde della sua chitarra. Diavolo, trent’anni di rock, e ancora non mi basta !

Elvira, la producer, chiude la rubrica dei nostri appuntamenti. Butta all’indietro la testa, capelli biondi sul seggiolino, chiude gli occhi azzurri da tedesca emigrata a San Francisco, si rilassa con un sospiro e si prepara a lasciar uscire il piano di lavoro.

E invece, a me, per fermarla, per impedirle di spezzare l’arco mentale che mi sta rimescolando il passato, esce di bocca una canzone di trent’anni prima. Scritta con rabbia una mattina presto, scendendo a piedi verso scuola, dall’alto di Napoli verso la Riviera, con il Golfo scintillante negli occhi.

 

VOGLIA DI ANDARE

E mi resta soltanto

una stupida voglia

di andare,

sulle strade del tempo e del mondo

a guardare,

a pensare s'è poi vero che è giusto

sbagliare,

ed il giusto,

l'ho detto io stesso che non si può

trovare.

Dove ho perso quel poco di essere

vero,

che più d'essere

è stato

o, soltanto, ho creduto sia stato

come nella mia mente

ho creato.

E son qui a sapere che nulla è cambiato

da quel giorno in cui nulla è successo

e nulla son stato

più che un essere solo,

qualcosa che il tempo ha

assorbito.

Ma quel modo ormai fermo di vedere

le cose

non è ancora venuto

e ho cercato

di non farlo arrivare

con la mia stupidissima

voglia di andare.

Napoli

(Italia)

Febbraio 1967

Ora di pranzo borbonica (ore 13.45 circa)

 

Un giorno di trent’anni prima, lo scontro fisico tra i figli delle due realtà contrapposte lasciate in eredità dalla guerra, era maturato in pochi minuti alla fine della mattinata scolastica. Senza accorgersi che il corso della storia stava cambiando sotto i suoi occhi, il bidello corpulento e furbesco, custode e inquilino dell’ex stalla borbonica, ora liceo classico per la leadership partenopea, aveva deciso di chiudere il portone all’ora solita, come da procedura inveterata.

Era perfettamente cosciente che, così facendo, avrebbe messo in trappola quel gruppo di studenti rimasto in cima alla scalinata, a confabulare sullo sciopero del giorno successivo. Ma, era altrettanto convinto che si trattasse dei soliti giochi tra liceali, goliardie e lazzi o baruffe che abbondano nel repertorio di un guardiano di futuri addottorati. A immischiarsi, per lui c’era solo da perdere. In tanti anni, povero era e povero è rimasto.

Al cigolare di cardini e allo scattare di chiavistelli, l’altro gruppo di giovani, assiepati sotto gli alberi dei giardinetti di fronte alla scuola, un drappello di fascisti, si compattò e si preparò dietro al mucchio di mattonelle scaricate lì qualche giorno prima per ripavimentare i marciapiedi. Guardando la scena dal bar in cima alla piazzetta, quello che a quell’ora sforna pizzette calde da scetare i cadaveri, la prospettiva politico-storica era precisa, da manuale. A sinistra, sulla scalinata del liceo, il gruppo dei contestatori e del Movimento studentesco. A destra, sotto gli alberi, nei giardinetti, i giovani eredi di una nostalgia squadrista che a Napoli aveva una delle principali centrali.

Attimi di silenzio e di tensione. Poi, una voce dagli intrappolati davanti al portone chiuso. Uno dei più vecchi, un universitario barbuto, lancia il segnale : “Compagni, andiamo !” E si scatena il finimondo.

Nella luce che filtrava all’alba,  Alex non poteva certo immaginare che si sarebbe trovato lì in mezzo quando, quella mattina di fine inverno napoletano, aveva sentito la rabbia scorrergli naturalmente nelle vene. Una rabbia dolce, di cose che si devono fare. Di “bisogna esserci”.

Uccelli zittiti dal rombare di un camion sullo stradone in mezzo alla ex-campagna, salto piacevole fuori dal letto, doccia, sensazione plastica di chiarezza mentale.

Senza nessuna idea precisa, aveva stretto sotto al braccio la grande cartella per disegno da studente di terza media. Come uno scudo amico.

Tredici anni appena compiuti, all’attivo un 45 e un 33 giri dei Beatles (“Twist and shout” e “Help”) e due 45 dei Rolling Stones (“Come on” e “Satisfaction”), da qualche tempo Alex era stato attratto da varie patacche con slogan in inglese che erano cominciate a circolare sulle bancarelle partenopee. Spille da attaccare a pantaloni e giaccone per mostrare dissenso. Segni esteriori che ora non bastavano più.

>”Satisfaction” (Rolling Stones)

“I can't get no satisfaction, I can't get no satisfaction. 'Cause I try and I try and I try and I try.I can't get no, I can't get no. When I'm watchin' my TV and that man comes on to tell me how white my shirts can be. Well he can't be a man 'cause he doesn't smoke the same cigarrettes as me. I can't get no, oh no no no. Hey hey hey, that's what I say.!...”  

Un risveglio irresistibile, quella primavera precoce come sempre, febbraio ’67, mite e frizzante sotto il minaccioso letargo del Vesuvio. Un flusso di energia che pervade naturale e incontrollabile, contrasto troppo forte con la mattinata sospesa nel vuoto, nella classe dove si succedono le solite cose di scuola. Che non bastano più.

All’uscita dalle cinque ore cinque, in cerca di futuro, prima di tornare a casa Alex aveva deciso di passare a dare uno sguardo sotto al ginnasio-liceo classico dove si sarebbe iscritto nel settembre successivo, inizio di quello che sarebbe stato un autunno caldo.

Prima emozione. Effetto benefico, sentirsi uno di loro, parte di quella massa di gioventù non più nel limbo della scuola inferiore. Generazione che quando fa qualcosa, il mondo attorno sta a guardare. E’ esattamente questa l’immagine trasmessa dal flusso di studenti che esce dal portone del liceo della capitale sconfitta di un regno del Sud. Non più i padroni che saranno, l’elite cittadina in erba voluta dall’ordinamento del liceo classico. Ma, lo specchio del nuovo in arrivo.

Seconda emozione. Fisica, sensuale, di colori, muscoli, gambe, seni, occhi, labbra, fianchi. Uno strusciarsi classe dopo classe sotto il portone altissimo. Chi scappa via, chi indugia un istante, chi resta sulla scalinata d’ingresso.

Soprattutto, chi resta solo per esserci. Semplice e forte voglia di riconoscersi nell’aria nuova. Vibra dentro come la primavera, atmosfera da “tutto è possibile”.

I  liceali del quarto e del quinto anno sembrano uomini fatti. Poi, i più giovani, soprattutto ragazze, facce shock, sentimenti di rivolta nella pelle, sete di vita alternativa che pulsa nelle vene. Capelli, vestiti, sguardi, gesti simili come segnali. Fino alla minigonna esasperata, bandiera allacciata al sesso, pronta a cadere. Trasgressione sbattuta in faccia, senza neppure ostentare troppo, ai padri della repressione.

>”Gloria” (Jim Morrison & the Doors)

“Your mother’s at shopping, your father at work...Gloria!”

L’unica vita che sentono come desiderabile è vietata dallo Stato. Nel nome delle istituzioni, della famiglia, di papà e mamma che edificano l’Italietta del benessere. Scontro di idee.

Tra i liceali, sotto la scuola, ci sono due o tre strani adulti arrivati dall’università, con tanto di barbone, rappresentanti di una nuova strada possibile.

Ma c’è anche l’opposto, c’è la reazione al cambiamento, l’eredità di una storia che qui ha intrecciato su barricate spesso rovesciate miseria e nobiltà, Reame borbonico e Repubblica dei lumi. Rivoluzione dei diritti umani finita alla forca, tra gli applausi dei senza diritti.  Ecco gli strani adolescenti, pretoriani di quella tradizione lazzara e sanfedista, incrociata con purga e manganello dell’ordine in camicia nera, una decina vestiti in modo diverso dagli altri, stivaloni e giubbotto di pelle, rimasti in gruppetto nei giardinetti di fronte al Liceo, a ridosso della catasta di piastrelle. Giovani con sguardo duro e ironico, di chi la realtà già sa dov’è, e un grande spirito di squadra. Fascisti.

Aspettano il momento giusto per dare una lezione contro il disordine possibile venturo, in nome dell’ordine passato remoto. Danno sguardi diretti, si scambiano informazioni precise. La polizia li lascia fare.

Alex, batterista dei “South band”, nascente formazione nutrita da ambiguo orgoglio meridionale, che con il rock italiano di “Bisogna saper perdere” ha in repertorio il blues di “Sitting on the dock of the bay”, che mescola la rabbia di “Gloria” e di “Hey Joe” con quella di “Tammurriata nera”, lì sotto non conosce nessuno. Ha solo scelto il gruppo a contatto col quale si trova meglio. Quello che trasuda lo stesso linguaggio, la stessa voglia di mettere semplicemente in pratica il nuovo vento che la società si sta negando, annunciato dall’altro lato dell’Oceano come “Blowin’in the wind”.

>”Blowing in the wind” (Bob Dylan e vari artisti, Newport folk festival ‘63)

“Quante le strade che un uomo farà per giungere e riposar...Risposta non c’è o, forse, chi lo sa, caduta nel vento è ormai” (versione Tenco) 

Alex salta giù dalle scale, appena in tempo per schivare le prime piastrelle. Le sente schizzare per terra e spaccarsi in schegge che volano via, come colpi per regolare il tiro dell’artiglieria, traccianti che individuano il bersaglio e lo chiudono nella sua postazione prima di centrarlo.

Con la cartella da disegno-scuola-media si difende il volto, si butta dietro un’auto proprio davanti ai giardinetti. E comincia a restituire al mittente le mattonelle che gli arrivano vicino. Colpi veri, con la coscienza di dover far male, senza pietà, se ne vuole uscire.

Quando si volta indietro per controllare come si sono disposti gli altri, quelli del branco che ha scelto come suo, vede solo il piazzale vuoto. Con la coda dell’occhio percepisce gli ultimi due o tre che di corsa voltano l’angolo a valle del glorioso liceo-ginnasio, padre di eroi della Resistenza. I fascisti non si lanciano neppure all’inseguimento. Piuttosto, cercano di capire da dove arrivino le pietre che si vedono piovere addosso.

“Alex, sei fritto”, pensa. Si rialza per arrendersi. Ma, quelli non gli fanno caso. Un tredicenne che sembra ancora un bimbo. Allora, scivola via con fare noncurante, segue il percorso degli altri. Ma non riesce a trovare il gruppo. Possibile si sia disperso così in fretta ?  Comincia a correre. Una signora da una finestra gli grida : “Giuvinò, fuje, fuje ca te vattono...L’amice tuoje se so’ chiavate int’o commissariato addret’a chiazza !”.

Ma come ? Allora, “compagni andiamo “ voleva dire “andiamo a rintanarci tutti negli uffici della polizia” alle spalle della scuola ? La polizia “fascista”, tutrice dell’ordine che volevano abbattere. Ritirata strategica ? Tattica per non compromettere il grande obiettivo strategico ? 

>”Canto dei Sanfedisti” (Nuova Compagnia del Canto Popolare)

“Allo suono d’a grancascia viva lu popolo vascio, allu suono d’e campanelli so’ risorti li puverielli…”

Alex guarda l’orologio. Le due e dieci. Profumo di maccheroni in salsa di pelati. In genere, a quell’ora era già a casa. Passo veloce verso la fermata, 25 minuti di autobus se e quando arriva, attesa anche di un’ora, trattamento uguale per tutti i diseredati della città, studenti, lavoratori e morti di fame, vite a perdere nella geografia del potere.

Anche il mercato popolare, ospitato nel recinto posteriore della scuola, ex abbeveratoio e maneggio delle stalle borboniche, è semi deserto, come non lo ha mai visto. Senso di estraneità, solitudine, angoscia.  Sono le quattordici e dieci, nel languido sole di una primavera precoce. E la rivoluzione è già finita.

>”Arrivano i buoni” (Edoardo Bennato)

“Arrivano i buoni, e dicono basta a tutte le ingiustizie che finora hanno afflitto l'umanità...Arrivano i buoni, arrivano arrivano, finalmente una nuova era comincerà...…”


Marked Tree

(Northeast Arkansas)

17 ott. 1996

Mezzodì

 

>I’m gonna move to Kansas City (Robert McCollum/Robert Nighthawk - canta Junior Wells)

“I’m gonna move to Kansas City, Honey, where they don’t love you...”

Il suono del cellulare affogato nella borsa di Elvira (pronunciato Elvaira) non promette niente di buono. Siamo ormai a Marked Tree, dove la 14 incrocia la Statale 63 che ci porterà a Memphis, ingresso nel Tennessee. Nessuno ha più voglia per il momento di andare a Kansas City, prossima tappa prevista, patria del candidato presidenziale sfidante, un brocco repubblicano ultra settantenne.

Sentimenti e musica hanno fatto virare la storia verso emozioni diverse. Che si aggiungono e si impastano con rinascita del Sud, disoccupazione e nuovi posti di lavoro, riforma del Welfare, informatica, lavoro a distanza col computer promesso dal presidente per i figli del XXI Secolo e tutti gli altri argomenti con i quali, pur di non restare inchiodato in redazione dietro ad un computer, ho convinto la mia tv che era un buon affare spedirmi in giro dall’Arkansas alla Florida, dalla Georgia a New York, da Chicago a Detroit, fino a San Francisco a realizzare storie americane.

Abbiamo scherzato sul programma della serata. Il cameraman vuole arrivare a Nashville, 203 miglia più in là. Dice che nella cittadina della musica Country conosce un localino niente male, dove c’è uno che suona “Brother juke-box” come piace a lui, con voce vellutata e cadenza da cow-boy tonto. E poi, che c’è una ragazzina della Florida che ha il mio stesso cognome, una stupenda moretta chiamata Shana, nonni italiani mezzi liguri e mezzi calabresi, un astro nascente che “professa country e amore”, dice Mario. “Zucchero e acqua fresca”, correggo ironico.

>”Heaven Bound” (Shana Petrone)

“If your love was a fire, I’d be going up in flames. If your love was the wind, I’d be a hurricane. If your love was a river, I’d be going down. If your love was a mountain, baby, I’d be Heaven bound.  

(continua)

 


                                                  Per andare a "Non sono mica il bassista di passaggio"


ROMANZO NAPOLETANO

ovvero:

LA RIVOLUZIONE DEL 1999

Nel 1986, Alex Jurlaro concepì un romanzo ambientato nella Napoli della corruzione politica che, riletto oggi, ha del profetico. Dal popolo emerge un personaggio che, quasi per un caso fortuito, prende in mano la città e la regione, restituendo all'una e all'altra l'identità storica e culturale...Pensare a Bassolino è troppo facile. Riproponiamo qui l'inizio del romanzo.

La rivoluzione colse tutti di sorpresa. A mezzogiorno gli insorti, ancora ignari di essere tali, si presentarono in piazza del Municipio innalzando gli striscioni cui tutti erano abituati oramai da anni: disoccupati organizzati, mamme coraggio contro la droga, vicoli in lotta per la spazzatura, collettivo sfrattati dai containers post-terremoto, cooperativa ex-detenuti. Un fritto misto di assatanati, non più di ottocento persone di ogni età guidate da uomo sulla quarantina, basso e pienotto, che nel suo giaccone in pelle nera, mani sprofondate nelle tasche, procedeva con il passo deciso di chi sta per mettere le cose in chiaro una volta e per tutte. Nel traffico congestionato del lunedì, abbandonata la corsia preferenziale di autobus e tram che costeggia il porto, il piccolo corteo sbucò da via Marina e si assiepò nei giardinetti che circondano l'imponente castello sbucciato dalle palle di cannone di altri tempi. Per qualche minuto sembrò che tutto fosse tornato normale. Sotto il sole degli ultimi giorni di febbraio, nel via vai dei ragazzini, marinai americani in franchigia, paciosi bighelloni in attesa di nulla, venditori e studenti a zonzo, la macchia di dimostranti scomparve com'era venuta, inghiottita dai prati brulicanti. Il conciliabolo durò poco, ma fu intenso. Il capopopolo, soprannominato 'O Caino, ebbe appena il tempo di fumare nervosamente una sigaretta, mentre ascoltava le voci concitate di coloro che lo avevano seguito. Poi, rituffò le mani nel giaccone e biascicò tra i denti: "Jammo". 'O Caino non sopportava tutto quel disinteresse intorno alla manifestazione che guidava. Non avevano incontrato neppure una camionetta della polizia, i vigili urbani non avevano avuto difficoltà nel far avanzare i suoi dimostranti senza intoppi, gli automobilisti e la gente ammassata alle fermate dei mezzi pubblici li avevano osservati come per passare il tempo, senza neppure troppa curiosità. Disoccupato da una decina d'anni, da quando la funicolare di Mergellina era stata dotata di un dispositivo robotizzato, 'O Caino era alla sua prima manifestazione di piazza. Mantenuto dalla moglie, impiegata in un grande magazzino, aveva trascorso il tempo a crescere gli ultimi due figli, ora adolescenti, e ad alimentare la sua passione: seguire i politici in ogni loro atto, senza mai muoversi da casa. Con il carattere di quei tifosi introversi che non si agitano mai, me che non perdono mai una battuta di ciò che accade nel mondo del pallone, 'O Caino teneva sotto controllo ogni avvenimento, ogni dettaglio, ogni spostamento nel mondo del Palazzo. I notiziari radio e tv erano i suoi alimenti preferiti, conditi con l'unico giornale che riusciva ad acquistare, ogni giorno uno diverso. Teneva appunti molto sintetici su personaggi, avvenimenti, appuntamenti di governo, parlamento, giunte e consigli. Era anche stato costretto a leggere una quantità di libri per affinare la comprensione della realtà politica. Una specie di fissazione che oramai tutti in famiglia accettavano come si accetta un collezionista di francobolli o un modellista con le loro occupazioni maniacali ma inoffensive. Il corteo mosse verso il Municipio. Davanti al palazzo, gli uscieri parlottavano incuranti del traffico di persone che entravano e uscivano dagli uffici comunali. I dimostranti si disposero sul marciapiede di fronte all'ingresso, striscioni in alto, ma in silenzio. Così aveva suggerito di comportarsi 'O Caino. Ben presto la situazione diventò tesa per i dimostranti. E solo per loro. Nessuno si curò minimamente della protesta. Nessuno diede uno sguardo neppure a quell'uomo basso e grassoccio che fumava nervosamente un'ennesima sigaretta sfondando con le mani le tasche del giaccone. Prima le donne, poi i più anziani, cominciarono un po' tutti a trovarsi stupidi lì in mezzo ; le scritte che inalberavano cominciarono a sembrare ai loro occhi stupide e infantili. Qualcuno gridò anche degli slogan, come per accendere l'aria. Ma zittì subito, nel modo in cui lascia morire la propria voce chi si scopre inopportuno o esagerato. Fu ascoltando le prime frasi di commiato, con giustificazioni d'occasione, che 'O Caino diede uno sbuffo, tirò da un lato il mozzicone, misurò con uno sguardo l'alto portone verde e dichiarò secco : "Aspettatemi qui, io vado". Il gruppo si rinserrò compatto, tra lo stupito e l'ammirato, e guardò il suo capo avviarsi con passo risoluto verso l'ingresso. Anche chi era lì lì per tagliare la corda si rimise in riga e si dissolse quell'aria di attesa inutile e imbarazzante. Alcuni si sentirono quasi traditori per aver mancato di fiducia e si rammaricarono per non aver compreso la strategia che 'O Caino stava ora portando a compimento con nervi saldi e dignità da leone. In realtà, l'improvvisato leader non sapeva bene ciò che stava facendo. O, meglio, procedendo verso uscieri e vigili urbani che presidiavano l'ingresso, era in quello stato di assoluta concentrazione in cui, pur non conoscendo la meta, si avverte perfettamente che la si raggiungerà. Valutava bene 'O Caino che non sapeva per niente cosa vi fosse al di là del portone. Un orecchiante come lui, anche se del Palazzo conosce tutto, non c'è mai entrato. Ma questa coscienza, per quanto chiara, fluttuava inoffensiva in uno strato retrostante della sua mente, senza dare preoccupazione alla forza che lo tirava ad agire così. Imboccò l'ascensore in fondo all'immenso atrio, come per tuffarsi in un rifugio momentaneo che lo allontanasse dallo smarrimento. Nel giro di pochi passi, si era sentito tagliato fuori dal mondo che viveva oltre il portone, tuffato in un calderone senza senso di suoni, spazi e persone. Lo scalone sulla destra lo aveva atterrito col formicare di chi sale e chi scende. Cosa avrebbe chiesto ? "Dov'è il sindaco, sono qui per mettere in chiaro una questione...". E, a chi ? Con quali esitazioni o gesti e voce di sussiego ? A far la parte dello sfrontato aggressivo, era sicuro che lo avrebbero buttato fuori in un attimo e con poco riguardo. Bello scorno, davanti a quella gente che lo aveva seguito. Non era nel suo stile e nel suo temperamento subire una simile vergogna. E, tanto meno era disposto a chiedere sommessamente che gli si facesse la cortesia di ascoltare le sue povere istanze che l'eccellentissimo primo cittadino si degnasse... Macché ! 'O Caino al solo pensiero sentiva ribollire una vampa d'ira. Con tutte le ragioni che aveva da cantare a quei trafficoni menefreghisti, altro che domandar la grazia di essere ammesso a presentare la supplica. Cos'altro ne avrebbe ricavato se non qualche mortificata promessa, l'impegno delle autorità a far meglio, un invito alla pazienza, magari anche alla solidarietà sociale. Insomma, si era trovato senza poter andare né avanti né indietro, con un turbine di emozioni che gli impediva di studiare la mossa giusta. Ed era così entrato nell'ascensore insieme con gli altri visitatori del Palazzo. Fu la sua fortuna. Mentre la cabina saliva lemme verso un piano imprecisato, uno dei presenti, che sembrava un avvocato appartenuto ad un passato di faticosa dignità, chiese ad un giovanottone tirato a lucido : "E allora, quand'è che torna il nostro sindaco ?" "E chi lo sa, gli affari di partito, lei mi insegna, sono lunghi e spinosi, e il potere sempre dalla Capitale discende, ognuno ha i suoi capi...", risposte il rampollo, con l'atteggiamento di chi la sa lunga e con la voce strascicata e querula del parassita di corte. Per 'o Caino fu una doppia sferzata che gli restituì all'istante pressione sanguigna e chiarezza mentale. Ma come, il sindaco non era al proprio posto con tutto il casino in cui annegava la città. Come se tutto procedesse per il verso giusto, era andato a curare i propri interessi di bottega a Roma, lasciando la poltrona vuota a tempo indeterminato. E, alla durezza della scoperta, che lo fece sentire un imbecille illuso, il capopopolo aggiunse un fremito di stizza nel vedere e nel sentire quel bellimbusto saccente che con tanta prosopopea sbandierava la ferale notizia come se si trattasse di una situazione normale, come se quello del sindaco fosse un comportamento naturale e desiderabile, come se l'unica realtà fosse che le cariche esistono per dar lustro e potere a chi le ha e qualche privilegio a chi gli ronza attorno. "Ah sì -pensò 'o Caino, trattenendo malvolentieri una scarica di imprecazioni- e mò vi faccio vedere io. Chi va a Roma perde la poltrona. Com'è vero che mi chiamo come mi chiamo". Entrare nella stanza del sindaco non fu difficile. Il corridoio era vuoto, l'usciere latitante. 'O Caino esitò più volte, distratto da quell'ambiente che gli ricordava tanto la scuola elementare pubblica di quand'era bambino. Chissà, si chiese, chi sceglie i colori deprimenti per le pareti, chi stabilisce, e con quali studi, le miscele di tinte per ottenere gli ocra squallido-lucente, le linee marrone a mezz'altezza, i grigi obitorio. Cercò di immaginare dove fossero prodotte le mattonelline miserelle dei pavimenti, a macchioline bianche, che pulite o sporche danno sempre l'impressione di un ambulatorio militare. E dove si possono comprare i numeretti inchiodati in cima alle porte, quelle piastrine bianche con la cifra dipinta in caratteri da amanuense che sembrano poveri prodotti da reclusi. Gli sembrò che da un momento all'altro potesse saltare fuori il preside tira ceffoni che alle elementari lo terrorizzava addossandogli colpe nefande, con l'aria di chi pensa "so bene io che carogne siete voi piccoli mostriciattoli". Ebbe la sensazione che la propria avversione per l'arroganza del potere potesse essere nata allora, tra le mura della scuola. E che la forza per combatterla l'avesse trovata qualche anno più tardi, rincontrando preside e maestri arcigni, vedendo che quanto più erano stati protervi con lui e con i suoi compagni, soprattutto con i più vulnerabili, tanto più li aveva poi scoperti figure di poco valore, omuncoli meschini. "Quanta ignoranza dietro l'arroganza e quanti danni alla gente -concluse- se accade così in tutte le esperienze umane, è necessario sottrarsi alle ingiustizie per guadagnare dignità e coraggio per sé e per gli altri". Pensando questo, abbassò la maniglia della porta con su scritto: "Il sindaco". Ed entrò.

Oltre l’uscio gli si schiuse un ambiente stretto e lungo, un gran salone con specchi dorati, tappeti, divani in pelle rossastra, consolle con candelabri e lampadari a gocce di cristallo. In fondo, sulla sinistra, nell’angolo sotto uno dei tre finestroni, c’era l’antica scrivania imponente e intarsiata del primo cittadino, con la poltrona di comando in tutt’altro stile: moderna, anatomica, disegnata da un architetto estroso, sembrava l’unico elemento personale portato in quella stanza dal sindaco dopo l’elezione. E la stonatura di quella presenza suggeriva subito che la poltrona ne sarebbe uscita scorrendo sulle rotelle, quasi con il proprietario ancora seduto sopra, il giorno infausto della sostituzione, per cedere il posto ad un’altra poltrona a misura dell’uomo che avrebbe assunto la guida della città. Piacque questo pensiero a ‘o Caino e lo aiutò a scuotersi dal momento di intimità soave in cui era caduto scoprendo il posto nuovo e trovandosi avvolto nella penombra e nel silenzio rassicurante dello stanzone. Non c’era tempo da perdere. Tirò su una persiana come se issasse una bandiera, buttò uno sguardo alla caotica piazza di là dai vetri anti rumore e prese possesso della scrivania. Come un gatto che studia l’ambiente, si rese contro di tutti gli strumenti che aveva a disposizione. Tre telefoni, un campanello, un apparecchio radio-tv-mangianastri, cancelleria a volontà, un minifrigo con bevande, un computer con video-terminale collegato non si sa chi, timbri, carta contestazioni ufficiali. Il resto, da una foto di famiglia ai testi di legge, a varie pratiche, non gli interessava. Alzò il telefono e chiamò la moglie Concetta. Era una sua vecchia abitudine chiederle aiuto nei momenti di difficoltà. Bastava darle qualche informazione e la donna cominciava a parlare alternando frasi di formale apprensione con consigli di quella saggezza pratica e spicciola, diretta all’utile personale, della quale sembra che sia depositario esclusivo il sesso femminile. "Nella stanza del sindaco? Che pasticcio!", esordì Concetta, come se ‘o Caino le avesse detto che era andato a fuoco il ferro da stiro. Poi, proseguì concitata: "Questa è la volta buona che ti arrestano! Lo avessi almeno trovato, gliene dicevi due anche da parte mia. Ma se adesso te ne esci senza aver concluso niente, sai che figura con i tuoi amici. E poi, quando si saprà nel quartiere…Gesù mio, che scorno! Queste non sono cose che si fanno a metà". Concetta bofonchiò un istante come se stesse dando fondo a tutte le soluzioni sempre buone all’occorrenza, invocò la Madonna del Carmine, prese ancora tempo urlando a Giuseppina, la figlia maggiore, di togliere la salsa dal fornello. "E che ti debbo dire –concluse- sfrutta la situazione come puoi. Metti un po’ di cose a posto prima che ti scoprano. Se telefoni a qualcuno dalla stanza del sindaco, ti dovrà dare più ascolto che non chiamandolo da casa tua! Quando viene la polizia, inventati una scusa. Non è mica proibito non trovare una persona al posto suo e restare ad aspettarla". Per la prima volta ‘o Caino si rese conto che, da quando non lavorava più, la moglie lo trattava più maternamente, come un figlio anziché come l’uomo di casa. Questo lo aiutò ad osare di più, a tagliare i ponti con la responsabilità di avere una famiglia. Compose il numero della portineria e, all’usciere che gli rispose, intimò: "Sono il segretario del sindaco. Dite, per favore, ai dimostranti di salire". "Ma come, tutti?", chiese l’usciere tra l’incredulo e il seccato. "Sì, tutti, così ce li leviamo davanti più in fretta. Sbrigatevi. Il sindaco non ha tempo da perdere…" ‘O Caino si interruppe rendendosi conto di averla sparata grossa. Tutti sapevano che il sindaco non c’era. Ebbe paura di essersi smascherato troppo in fretta. "Ah, è tornato il signor sindaco –esclamò invece l’usciere, con tono di deferenza d’occasione- E qui nessuno ci ha avvisati. Ci fanno fare sempre la figura dei fessi. Va bene, provvediamo subito!" Pochi istanti e squillò un telefono. "Parla il sindaco", rispose ‘o Caino con tono stentoreo. "Ah, eccellenza…scusate il disturbo, sono il comandante dei vigili. Ma ‘sti carognoni li dobbiamo far salire proprio tutti? Voi sapete com’è, tra mezz’ora restiamo in quattro gatti, gli uomini debbono andare a mangiare. E poi, con le pulizie stiamo male combinati. Gli addetti sono pochi, qua diventa tutto una fetenzia!" "Comandà, non vi preoccupate: fidatevi di me, questi come vengono così se ne vanno ad uno ad uno. E poi, noi abbiamo ben altri problemi. Qua c’è una mezza rivoluzione alle porte di Napoli. Si è sparsa la voce che a Roma i militari hanno preso il potere con l’aiuto della Massoneria, E il popolo vuole difendere l’indipendenza. Al Volturno hanno già fatto le barricate. Un pasticcio grosso, ma non ditelo a nessuno, per carità. Sennò facciamo la fine dei tracchi se tutti vogliono sapere che devono fare e che succede. Dobbiamo organizzarci. Ora lasciatemi telefonare al questore e al prefetto. Tenetevi a disposizione. E acqua in bocca. Ah, fatemi salire ‘sti scassacazzi!" Quella mattina del '99, all'altezza del fiume Volturno, alcune centinaia di pendolari avevano occupato come altre volte i binari della linea ferroviaria Roma-Napoli. Il passaggio dei treni era bloccato. Per una dannatissima impuntatura dei dimostranti la situazione non si era risolta, come in genere accadeva, nelle prime ore della mattinata. Il problema era quello di semprfe: per percorrere un centinaio di chilometri, i lavoratori erano costretti ad alzarsi all'alba ed ogni giorno il viaggio sui treni "locali" si trasformava in un pellegrinaggio tra soste nelle stazioni e semafori rossi in aperta campagna. I motivi erano inspiegabili. C'era chi accusava i treni "Superapidi" al cui passaggio si bloccava la linea, chi i perenni lavori in corso ("ma, allora, perché i rapidi passano"), e non mancava chi parlava di complotto. Per un errore, il cui motivo non fu mai chiarito, un treno di pendolari proprio quel giorno era stato mandato a finire su un binario morto, fuori stazione. Dopo una sosta di venti minuti, mentre i conduttori delle Ferrovie pasticciavano ricerche di soluzioni, un altro treno era stato bloccato ad un segnale rosso non distante. Tra operai, braccianti e studenti dei due treni erano volate lamentele incrociate, voci di protesta che si sorreggevano a vicenda. Qualcuno scendeva, altri aizzavano. Insomma, in breve sui binari si formarono capannelli vocianti, gruppi da cui si levavano frasi del tipo "facciamola finita", "ho perso un'altra giornata di lavoro", "tutti i giorni la stessa storia"! Nel bailamme, un ex ferroviere di Santa Maria Capo Vetere, che andava a trovare il figlio detenuto a Roma, saltò sulla locomotiva del treno fermo sul binario morto e lasciò andare lentamente la retromarcia. Seguì un parapiglia. Grida, gente che correva a riprender posto, applausi. Il macchinista titolare raggiunse la locomotiva in moto, montò al volo e tentò di strappare i comandi all'abusivo. Si temette il peggio per alcuni secondi. Il treno prendeva velocità in retromarcia. E, quando si fermò a cavallo dello scambio, mezzo sul binario morto e mezzo su quello buono, gli animi erano tanto eccitati e la situazione così propizia ad una protesta che in pochi minuti tutta la sede ferroviaria era invasa dai passeggeri. Alcuni si disposero a guardia dei treni in modo che nessuno tentasse di spostarli da dov'erano e che servissero da barricate naturali. "Non ce ne andiamo se qui non viene il ministro", fu quanto dissero alcune ore più tardi all'ufficiale dei Carabinieri che tentava ancora una volta di risolvere la situazione. I ministri, si sa, sono più sensibili dei sindaci alle elezioni in arrivo. E a Roma, al Ministero dell'Interno, la notizia parve uno schiaffo. Da febbraio a giugno il passo è breve. Gli elettori ricordano! Il capo dell'ufficio stampa, napoletano come il ministro, ebbe un'idea: "I manifestanti dicono ministro, ma non quale, Facciamo che sia quello dei trasporti. Altrimenti, che c'entra la ferrovia…?" E così, telefonarono al responsabile dei trasporti che quel giorno era con gli altri colleghi degli Stati d'Europa Unita a Bruxelles per un consulto sulle tariffe delle metropolitane. Il poveraccio la prese inizialmente a ridere. Capì la furbata di mettere in mezzo lui e tagliò corto: "Ma sì, ma sì, entro stasera varcherò il Volturno…" La battuta fu accolta da un silenzio freddo. Dall'altro capo del telefono, il ministro dell'Interno vedeva davanti a sé il comandante della Polfer, la polizia ferroviaria, che sgranava gli occhi preoccupato. "Guarda -sibilò allora con decisione nella cornetta- quegli scalmanati il Volturno non lo fanno passare più a nessuno. Conviene che ti spicci…" La frase del Volturno, fiume mitico per tracciare la demarcazione fra Sud e resto d'Italia, fu spifferata da uno dei presenti nella stanza del ministro dell'Interno ad un giornalista della radio nazionale, E questo, la sparò mezz'ora più tardi al notiziario flash, usando il gergo di chi, per fare un favore al politico che gli è amico, deve gonfiare le cose approfittando della giornata magra di avvenimenti: "La rivolta dei pendolari, scoppiata stamattina in Campania, ha aggravato la crisi nella maggioranza di governo. Poco fa, in una drammatica telefonata, il ministro dell'Interno, il democristo Serio Lava, ha chiesto al ministro del Trasporti, il comunsociale Clovis Bonsignore, di rientrare immediatamente in Italia da Bruxelles, dove Bonsignore si trova per un summit sulle metropolitane. I dimostranti protestano, infatti, per il mancato varo del nuovo Piano nazionale dei trasporti che costerà allo Stato 80mila miliardi di lire, e vogliono assicurazioni dirette dal ministro dei Trasporti che i tagli alla spesa non rinvieranno ulteriormente la costruzione di nuove linee. Bonsignore, però, ha rifiutato il suo intervento, nonostante gli sia stato rivelato che la rivolta ha raggiunto proporzioni incontenibili. Il ministro dell'Interno ha, infatti, lasciato capire che la situazione è sfuggita di mano alle forze dell'ordine ed entro stasera i ribelli avranno in pugno la zona a Sud del Volturno, usando il fiume come linea di difesa".

(continua)

(Diritti riservati su tutti i materiali © Copyright Sandro Petrone 2000)


 
 
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