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"La moltitudine richiama dei riguardi"

La "recuperata libertà". Il S.Domenico. Tagliafichi e Barabino. Verso il primato. La distruzione del teatro. Il progetto di Carlo Scarpa. Aldo Rossi. Paolo Portoghesi e il "teatro del mondo". Dialettica dell'Illuminismo. Sprachlos und kalt. La naturale vocazione del potere all'arbitrio.

Genova, anno primo "della ricuperata libertà". La Convenzione di Mombello ha appena segnato la fine della Repubblica. Genova rappresenta uno sfogo al mare strategicamente decisivo per la Francia bonapartista e le decisioni che la riguardano vengono prese direttamente a Parigi. Come ovunque i beni ecclesiastici sono considerati patrimonio della collettività, ora individuata nel nuovo governo, e destinati in gran parte sostenere gli oneri di un "necessarissimo aumento di truppa" e "due milioni 400 mila lire da pagarsi alla Francia". Molti edifici degli ordini religiosi sono venduti o diventano sede di uffici.

Gli "Avvisi" del 1798 annunciano la repressione di un'insurrezione popolare di stampo reazionario. Il tribunale, le carceri e la commissione militare da poco installati, nel vecchio "grande e magnifico" complesso di S.Domenico, già sede del Sant'Uffizio nel XIII secolo. "I Capi, i Rei autori del scellerato complotto, gl'Ipocriti, i maliziosi, i Seduttori, che arrivano ancora a nascondersi, devono essere denunciati, perseguitati e puniti(...). La moltitudine richiama dei riguardi".

L'installazione del tribunale è il primo passo di una progressivo abbandono della chiesa da parte dei religiosi che -perfettamente in linea col secolo- operano una spoliazione e presumibilmente una vendita "preventiva" degli arredi, così da consegnare al Direttorio Esecutivo un edificio completamente vuoto, dal quale sono stati asportate perfino le campane e i marmi delle cappelle. Il processo di degrado così iniziato ridurrà rapidamente il più importante complesso conventuale genovese in stato di grave fatiscenza.

Placare il malcontento popolare è una delle motivazioni della prima proposta, che risale all'epoca dell'occupazione francese, di erigere un grande teatro nel sito del S.Domenico. Il progetto, di Andrea E. Tagliafichi, comprendente un giardino all'inglese e facciate di imponente monumentalità, viene inviato a Parigi nel 1810. Tagliafichi si ispira al Grand Thèâtre di Bordeaux, costruito da Victor Louis fra il 1773 e il 1780, esempio noto per magnificenza e futuro modello dell'Opéra di Parigi di Charles Garnier. Fin dall'inizio il nuovo teatro genovese, come già il S.Carlo, punta al conseguimento di un primato quantitativo. Alla disposizione, francese, neoclassica e ideologica, del pubblico in grandi gradonate concentriche, Tagliafichi preferisce il tradizionale impianto a palchetti, anche perchè esso avrebbe consentito la pratica solita della vendita dei palchi per finanziare la costruzione.

Su questo tracciato potrà muoversi circa quindici anni dopo Carlo Barabino, responsabile del piano urbanistico di Genova, attuato sotto il regno di Carlo Felice, e del progetto del nuovo teatro che ne porterà il nome. La vecchia città, ancora stretta fra le sue mura, è solcata da nuove strade che rendono più funzionali le comunicazioni con il porto. L'erezione del teatro viene a sostituire un primo progetto di sistemazione a portici dell'area del S.Domenico, del quale lo stesso Barabino stava ormai curando la definitiva demolizione. La soluzione adottata per il finanziamento dell'impresa vede la casa regnante svolgere un ruolo di protagonista, nei confronti dei palchettisti, costretti in secondo piano; fatto questo fonte di dissapori non appena la gestione del teatro passerà al comune.

Al Barabino, architetto comunale, è affiancato Luigi Canonica, allora riconosciuto esperto di costruzioni teatrali. Il contributo di quest'ultimo si può ridurre alla curva a campana adottata par la sala, che Barabino, ispirandosi probabilmente al Regio di Torino aveva in un primo momento delineato ellittica. Fin dai primi disegni (Barabino ne appronterà quattro versioni) l'impianto urbanistico della costruzione, con la vera facciata sul fianco verso la piazza, contrapposta con moderno dinamismo compositivo all'asse longitudinale, è chiaramente individuato. L'adozione dell'ordine dorico e di forme semplici ed esplicite inserisce questo edificio, sia pure con qualche pesantezza, nella grande stagione neoclassica ormai al tramonto. Argomentando sulla rappresentatività della costruzione, Barabino ottiene la messa in opera di materiali nobili, come marmo di Carrara in luogo di stucco per le colonne. "Il Carlo Felice "... può dirsi in grandezza il primo dopo (i teatri) di Napoli e di Milano, e tra i più sontuosi nel fabbricato esterno; il primo assoluto per la squisitezza dei marmi in tutti i suoi ornamenti architettonici che l'adornano", afferma Paolo Landriani nel 1830. Un primato "nazionale", sia pur parziale, è raggiunto. Più in là i numeri e la forma del Carlo Felice saranno addotti come termini di paragone da altri teatri aspiranti a primeggiare.

Indubbio è il primato cittadino. Quando il teatro viene inaugurato, il 7 aprile 1828, con l'opera Bianca e Fernando, musica di Vincenzo Bellini, libretto di Domenico Gilardoni (poi rimpiazzato da quello di Felice Romani), gli altri teatri cittadini appaiono "indegni non tanto di ospitare le compagnie liriche e di prosa, ma di accogliere principi e re". Il potere politico moderno, simbolico e impersonale, ha bisogno per manifestarsi di una sede istituzionale. In tutti gli altri teatri, salvo forse il "Falcone", acquistato dai Savoia nel 1824 insieme a palazzo Durazzo, i sovrani sono ormai troppo simili a cittadini qualunque.

Dal punto di vista drammaturgico, la nuova sede avrà scarse conseguenze sui cartelloni lirici, costretti in ristrettezze dalle scarse doti assegnate. "Gli spettacoli diventeranno più dignitosi per l'ingrandimento dell'orchestra e per dovizia di decorazioni. Il repertorio resterà il medesimo", racconta Edilio Frassoni. Verdi, che vivrà a Genova per una quarantina d'anni, non riceverà mai commesse dal massimo teatro della città.

A differenza della regola generale dei frequenti riarredi, il Carlo Felice non subirà trasformazioni di rilievo, salvo una ridipintura del plafone, nel 1892, che però verrà ripristinato nei lavori del 1935, quando si realizzò una balconata in luogo della quarta fila di palchi.

I bombardamenti della seconda guerra mondiale furono particolarmente pesanti per Genova. Tutti i teatri furono distrutti. Il Carlo Felice fu colpito da tre incursioni. Di fronte all'urgenza della ricostruzione il problema della mancanza di sedi teatrali passò in secondo piano nell'immediato dopoguerra e si ovviò con spazi d'occasione. Si tratta del resto di un fenomeno osservabile a livello nazionale: quella del Carlo Felice è solo una -certo la più cospicua- delle molte ricostruzioni mancate di teatri distrutti dalla guerra. Il patrimonio edilizio teatrale del nostro paese rimaneva, anche dopo queste distruzioni, rilevantissimo e nettamente sovradimensionato rispetto ad una vita artistica nettamente spiazzata dal boom cinematografico. Nel dopoguerra molti sipari cadranno per l'ultima volta, per lasciare i loro luoghi, solitamente centrali ed appetibili, liberi per attività economiche più lucrose dello spettacolo non riprodotto. Proposte in questo senso non mancano, anche per il rudere del Carlo Felice, che però incombe per quarant'anni sulla centralissima piazza De Ferrari, come sospeso in una sorta di incantesimo.

La distruzione del teatro era stata solo parziale: la sala era bruciata, ma altre cospicue parti dell'edificio erano rimaste in piedi, tanto che si continuò a svolgere in esso una ridotta attività musicale. Le esitazioni sulla ricostruzione e la definitiva chiusura ne aggravarono progressivamente le condizioni. I progetti presentati al primo concorso, bandito dall'amministrazione comunale nel 1946, poi ritirato e ripresentato nel 1849, rimangono senza alcun effetto. L'intenzione è quella di recuperare quanto è rimasto in piedi dell'involucro esterno del teatro di Barabino, integrandolo in una costruzione moderna, sulla scorta delle critiche ripetute all'inadeguatezza della vecchia struttura. Rimane, nei bandi di questi concorsi, la preesistente capienza del vecchio teatro, 2500 posti, auspicata ancora maggiore nella seconda formulazione. L'impostazione dei progetti configura con evidenza gli orientamenti compositivi dell'epoca: grandi platee e gallerie, niente palchetti, palcoscenici di dimensioni ridotte. Vince, nel 1950, il progetto di Pasquale Chessa. Ma è destinato a dare origine a una lunga vicenda di contestazioni e varianti che terminerà una decina di anni dopo in tribunale e in pratica con un nulla di fatto.

La prima giunta di centrosinistra, al potere dal 1961, chiama a studiare il problema uno dei migliori architetti italiani del momento, Carlo Scarpa. Nel suo primo progetto la capienza è ridotta a 1800 persone. Sicuro della sua originalità, Scarpa sembra considerare non attuale tema del "grande teatro", seguendo piuttosto il modello corrente in Europa di teatro "municipale", nel quale alla sala grande si affiancava ad una saletta di dimensioni ridotte. Il progetto sarà compromesso prima dalla richiesta di realizzare, a fianco della sala grande, non un ridotto ma una vera e propria sala per spettacoli di prosa, poi definitivamente interrotto dalla morte di Scarpa, che sopravverrà nel 1978, quasi contemporaneamente al giudizio favorevole della commissione edilizia. Nei confronti della funzionalità propriamente teatrale della struttura Scarpa manifesterà un netto disinteresse, aprendo una vivace polemica con Zavelani Rossi, incaricato della progettazone tecnica del palcoscenico, che si concretizzerà in una brusca seprazione dei rispettivi ruoli e, dopo la morte di Scarpa, nel rifiuto di Zavelani di firmare il progetto.

Il tema del "grande teatro" riaffiora due anni dopo, nel bando di un nuovo concorso, nella forma del concorso-appalto, che porterà alla realizzazione di oggi. Il bando impone ai progettisti la previsione di una struttura "tecnologicamente avanzata" per il palcoscenico, rifacendosi evidentemente ad esperienze straniere, senza però chiarire il punto decisivo della loro destinazione d'uso, se alla pratica di rappresentazioni alternate di opere diverse -usuale all'estero ma assente in Italia- o invece alla rapidità dei cambi di scena. Altrove vengono prescritti impianti tecnici dotati "della più moderna tecnologia". Anche la capienza richiesta è ai limiti massimi: 2000 posti. Nella richiesta di "assunzione nella progettazione del complesso foyer-teatro lirico, al livello di indicazione, degli elementi architettonici e geometrici del Prof. Carlo Scarpa, allegato, motivandone dettagliatamente gli eventuali scostamenti", disattesa in tutti i progetti presentati, e da alcuni contestata in modo esplicito nelle relazioni di accompagnamento, si evidenzia una mitizzazione dello spirito e della pratica progettuale del maestro veneto, uso a rielaborare continuamente i suoi progetti, senza soluzione di continuità, dalle prime idee di massima alla consegna, discutendo con le maestranze e gli artigiani ogni minimo dettaglio della realizzazione. Anche i disegni per Genova recano le tracce di questo itinerario creativo.

Vincitore risulta il progetto della impresa Mario Valle di Arenzano, che per la progettazione si è affidata a Ignazio Gardella, anziano e stimatissimo professionista genovese, già autore di un famoso progetto di teatro per Vicenza. E' Gardella a chiamare a collaborare Aldo Rossi, architetto da poco arrivato al successo sui media con un curioso "teatro del mondo" progettato per la Biennale. Rossi coinvolge a sua volta Fabio Reinardt.

Prima di allora, i risultati della ricerca di Rossi, figura-chiave del progetto genovese, erano riconosciuti e apprezzati nella cerchia ristretta dei conoscitori, alla stima dei quali Rossi deve le prime occasioni di realizzazioni significative, oggetti architettonici di una grazia fredda, silenziosa (Rossi preferisce termini tedeschi: "sprachlos und kalt"), figure semplici che costituiscono l' "alfabeto esoterico" di un linguaggio di frammenti ricomposti, autobiografico, che Rossi manipola come un "mago ostinato nel suo rifiuto di guardare nel cannocchiale galileiano", secondo l'interpretazione che ne offre il critico Manfredo Tafuri. L'isolamento della prima fase di questa ricerca sembra quasi deliberato: "Nonostante il malcostume italiano i miei progetti sono stati sempre eliminati per la loro incomprensibilità o, se volete, per la loro bruttezza", afferma Rossi nell'Autobiografia scientifica.

Le creazioni dell'architetto milanese esercitano sul loro pubblico attrazione irresistibile o inducono radicali rifiuti. "L'architettura é la scena fissa della vicenda dell'uomo". Il teatro genovese diventerà uno dei momenti decisivi della sua vicenda professionale. Seppure mai coinvolto direttamente nel lavoro del palcoscenico, egli adopera spesso, nelle sue scarne riflessioni teoriche, nei molti progetti, nei loro titoli e nelle "dichiarazioni d'intenti" associate alle non numerose realizzazioni, la parola "teatro " che, insieme ad alcune altre, sembra identificare una delle principali chiavi di lettura del suo lavoro. Già nel progetto per il teatro Paganini di Parma (1965) egli si era dichiarato preoccupato sopratutto dell'aspetto monumentale della costruzione: "... fabbri, decoratori, elettricisti rendono sempre fruibile un edificio. Ma per l'architettura è diverso; essa non può riferirsi a questo o a quello spettacolo; essa riguarda l'essenza stessa del teatro". Il tema ritorna nel "teatrino scientifico" (1978), una sorta di palcoscenico in miniatura contenente alcuni semplici oggetti per "esperimenti architettonici". Al teatro è dedicato il corso tenuto all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia nell'anno accademico 1978-'79. 

A Venezia, nello stesso periodo, c'è un altro notevole personaggio che coltiva ammirazione e stima per il lavoro di Rossi. E' Paolo Portoghesi, direttore del settore "Architettura" della Biennale. Critico, progettista, organizzatore ma, in questo caso, sopratutto appassionato fotografo, consapevole del ruolo decisivo che la decontestualizzazione fotografica dell'architettura gioca nell'economia del suo successo pubblico. Sa insomma quali potenze il "cannocchiale" può sprigionare, se sposato alla riproducibilità tecnica. E' un tema già presente nella riflessione di Rossi, al quale Portoghesi commissiona un "oggetto" denominato "teatro del mondo", ispirato a certe strutture galleggianti che svolgevano, nei riti festivi della Serenissima, funzioni simili a quelle di carri trionfali. Rossi elabora una struttura elementare, una specie di casa di bambole, con un tetto a punta sormontato da una banderuola, che viene montata su una zattera. Portoghesi ne effettua le prime riprese. La magia riesce rapidamente: sullo sfondo mitico e sempre diverso della città lagunare, l'inconsueto oggetto viene fotografato e riprodotto migliaia e migliaia di volte. Associato a questo "teatro" il nome di Rossi echeggia sulla stampa di tutto il mondo. L'isolamento è rotto.

Al concorso per Genova, bandito due anni dopo, Rossi arriva sull'onda di questo successo. All'indomani del giudizio che lo dichiara vincitore Bruno Zevi, senz'altro effetto che quello di generare attorno all'esecuzione una chiusura preventiva, apre una durissima polemica che urta contro il compatto consenso che ha saputo ottenere fra i responsabili questa architettura contemporanea, che sembra adagiarsi senza fratture nell'alveo di quella storica. La relazione di accompagnamento dichiara recepiti i requisiti del bando. Il progetto ne soddisfa l'impostazione conservativa. La facciata neoclassica del Barabino è stata esattamente ripristinata, con l' unica aggiunta di un lucernaio che illumina i sottostanti foyers attraverso una apertura di forma conica che ne attraversa tutti solai. L'edificio si presenta come un parallelepipedo, gigantesco (anche dopo la soppressione, fra il primo e il secondo grado del concorso, di due piani contenenti laboratori di scenografia e infrastrutture per riprese televisive) e semplicissimo, segnato da un cornicione fuori-scala, contenente alcuni spazi di lavoro e di prova oltre il livello necessario per il funzionamento del palcoscenico. I temi tipici della cultura illuminista, della quale Rossi si propone da anni erede ed interprete: la significatività civile del teatro; la sua evidenza nel contesto urbano; la polemica nei confronti dei palchetti; l'ideologia dell'eguaglianza del pubblico, mediata dalle teorizzazioni wagneriane, sono raccolti in questo teatro, incontrando la richiesta di precise intenzioni conservative dei resti del Barabino. Boullée, celebre architetto illuminista del quale Rossi aveva curato anni addietro una discussa traduzione, voleva gli edifici pubblici piantati su alti piedestalli, resi in questo modo evidenti nel contesto urbano.

Ma c'è di più. I propositi degli architetti illuministi, mediati dalla specifica competenza di Rossi e attualizzati in assenza del referente polemico che ne aveva motivato la prima formulazione, mostrano in questa occasione la loro tipica dialettica ambigua. Con la prima guerra mondiale e la rivoluzione russa il senso civile che la cultura illuminista e romantica attribuiva alle istituzioni si è radicalmente trasformato. Sulla scena politica hanno fatto la loro comparsa le "masse", di fronte alle quali si consolidano apparati statali nei quali il vecchio antagonismo fra borghesia e vecchie classi dirigenti è superato. Nei paesi socialmente e culturalmente più arretrati, in presenza di "masse" di origine prevalentemente contadina, la nuova situazione conduce a regimi totalitari, tanto ideologicamente contrapposti fra loro quanto simili nella sostanza e nell'architettura che esprimono. In passato Rossi si era detto " orgoglioso di aver sempre difeso la grande architettura del periodo stalinista". I destinatari effettivi del parallelepipedo gigantesco e del falso cornicione fuori-scala non sono certo i "cittadini" ai quali si rivolgeva la vecchia facciata del Barabino. Il problema posto dalla giustapposizione all' esatto restauro di quest'ultima della enfatizzata torre scenica può prendere forma di domande: cosa rimane del progressismo borghese? Che cosa rimane dell'ancien régime?

La semplicità che Rossi persegue nelle sue opere è spesso associata dalla critica a certe atmosfere deserte della pittura italiana degli anni '20, in cui si avverte qualcosa di doloroso, come una inutile attesa. Probabilmente quella, amara, banale e concretissima, delle generazioni di inconsapevoli partiti per la Grande Guerra. E nel mutato contesto della società di massa che ne risultò che questa architettura, sia nella sua parte restaurativa che in quella ex-novo, trova la sua giusta collocazione. Potremmo richiamare il percorso seguito in questo libro, dove l'imposizione al pubblico del totale anonimato, che culmina con l'Aida all'Arena di Verona e precede di pochi mesi la partenza per il fronte, è quasi la consacrazione "alla roversa" di un destino sacrificale. Passando all'interno, completamente rifatto, Gae Aulenti ha effettivamente avvertito qualcosa di crudele (Un punto di vista sull'architettura del teatro, in "Casabella, 1984, n. 502).

Sprachlos und kalt. I foyer sono semplici e spogli, come si addice ad una società ormai completamente democratica. L'ideologia di un pubblico di uguali evoca immediatamente la percezione del suono. Duemila poltrone, frutto di uno studio di acustica che ha dato un eccellente risultato, disposte in una grande platea, formano una sala tecnicamente adatta ad accogliere bene dei suoni. I palchetti sono aboliti e sostituiti da una grande galleria, guarnita da una balaustrata di legno di pero, imposta da esigenze acustiche, ma che finisce per complicare le visuali delle prime file di posti. E' anche una sala fredda. Una delle poche modifiche avvenute in corso d'opera, nello stesso senso di quella identica effettuata a suo tempo da Barabino per le colonne, è stata la sostuzione gli intonaci della sala con marmo bardiglio. L' arredo interno finge un "aperto" genovese, facciate di palazzi con un' ombra di bugnatura, che si estende fino al profondo boccascena fisso che segna la rigorosa separazione fra sala e scena. Si affacciano sul pubblico false finestre, con vetri bianco latte e imposte verdi aperte, e balconi con balaustre di marmo bianco. Il soffitto, certo il principale responsabile della buona acustica, è ad intonaco liscio punteggiato di luci disposte su una maglia regolare.

Abbiamo visto come i pensatori moderni trovassero, nella sovrapposizione degli ordini classici, con cui gli architetti trattavano l'interno dei teatri allo stesso modo dell'esterno dei palazzi, la rappresentazione di un insopportabile arbitrio. Tale problema ritorna nei quattro balconi, simulacri privati banalizzati e resi altamente simbolici dall'inserimento nel luogo pubblico per eccellenza, ormai completamente marmoreo, dove la tendenza all'anonimato e all'inorganico, l'associazione della impassibilità della pietra a quella delle leggi "uguali per tutti", che le idee moderne avevano introdotto nei teatri barocchi, appare arrivata a compimento. "E chi spierà dalle persiane?" si chiede maliziosamente Gae Aulenti. E chi si affaccerà dai balconi?

Predicatori, aristocratici, autorità elettive? Naturalmente nessuno della platea degli "uguali", o più esattamente dei "tutti", ai quali è posto, nel linguaggio ad essi più conforme, il problema della naturale vocazione del potere all'arbitrio. Nel luogo che già fu un carcere rivoluzionario, un teatro pietrificato può così ritornare a ricordare ai genovesi la provvisorietà dei leggi sulle quali si fonda da duecento anni il loro ordinamento.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993