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Antichi e moderni

Chiesa e teatro. La "privativa" dei palchi. Antonio Bibiena. L'isolamento dell'edificio. Polemiche e polemisti. Algarotti. Il "Saggio sopra l'opera in musica". Inizi del realismo. La semplificazione degli ornamenti. Leggi moderne.

Nella vicenda bolognese si manifesta ormai con evidenza il ruolo civile assegnato agli spettacoli e all'architettura che li ospita dall'ideologia illuminista. Il clima culturale e politico della città emiliana è completamente diverso da quello torinese e napoletano. Assenti le aspirazioni, tipiche di quest'ultimo, al confronto politico con le altre capitali europee, il tema delle grandi misure diventa qui una tendenza data per necessaria in un teatro moderno. La rottura fra il vecchio e il nuovo è clamorosa.

Bologna, sede di una antica università e di una vivace attività intellettuale, godeva, come seconda città dello Stato della Chiesa, di una situazione di particolare libertà ed autonomia. Un papa bolognese come Benedetto XIV Lambertini era sollecito nel promuovere opere pubbliche nella città d'origine. Dal punto di vista degli studi musicali la città era illustrata dalla figura di padre Giovanni Battista Martini, il maggiore teorico europeo della seconda metà del '700.

La chiesa era meno ostile al teatro di quello che i suoi critici del XIX secolo volevano far credere. Dopo l'incendio del Formagliari, nel 1750, "anno santo" durante il quale l'attività teatrale viene sospesa, un gruppo di nobili sottopone l'ipotesi del nuovo teatro a Benedetto XIV che, dopo lunga riflessione, l'approva. Fin dall'inizio l'impresa ha spiccati connotati civili. Il nuovo teatro è il primo ad essere costruito da un' amministrazione municipale (il "Reggimento" bolognese). Perché gli altri teatri d'opera passino alla proprietà comunale bisognerà attendere la seconda metà dell' Ottocento, e perché sia un comune a farne costruire uno ex-novo occorrerà arrivare al Massimo di Palermo, nel 1863. Il teatro "comunitativo" nasce per iniziativa di un gruppo di "cittadini", sia pure aristocratici. A differenza, ad esempio, del S. Carlo di Napoli (1737) e del Regio di Torino (1740), sorti come espressioni dirette della volontà di un sovrano, e architettonicamente inseriti nel contesto della sua reggia, esso viene pensato fin dall'inizio come servizio pubblico situato in un edificio autonomo. Né la situazione del nuovo teatro era paragonabile a quella dei teatri bolognesi già esistenti, tutti legati, anche fisicamente, a questa o a quella casata.

Il sistema di finanziamento adottato prevede la partecipazione del pubblico in una forma particolare del diritto di palco, la "privativa". L'unico atto ufficiale richiesto dal "Reggimento" all'amministrazione pontificia rimane la voltura del "legato Hercolani", i cui redditi erano impiegati fino ad allora in "premi di giostra", in favore dell'erezione del nuovo teatro, e nient'altro. Nella formula dell' assegnamento di alcuni palchi al Rappresentante del Governo "sino a che vi fossero Legati o loro successori e non più oltre" si può perfino trovare qualcosa di provocatorio. Per far fronte alle ultime spese di realizzazione si mise poi in vendita il diritto "privativo dell'uso, e perpetua Prelazione de' Palchi del Nuovo eretto Teatro Pubblico", una variante dell'istituzione, tutta italiana, del diritto di palco, che non intaccava però il principio della proprietà comunale. Il Reggimento sceglie, per il progetto, uno dei più famosi architetti teatrali dell'epoca: Antonio Galli Bibiena, erede della gloriosa tradizione di una famiglia di scenografi e architetti assidui delle corti di mezza Europa, da Vienna a Berlino, da Lisbona a Napoli, "uomini di sì vaste e magnifiche idee, che (...) sembrano nati per il servigio di Re e Imperatori", raccontano i contemporanei, "e sol la potenza de' Sovrani potea dare esecuzione alle loro idee...". La contraddizione di un progetto intimamente moderno affidato ad una figura così profondamente legata all' ancien régime non tarderà a venire al pettine.

La dinastia bibienesca, che risale all'inizio del Seicento, sembra appunto il doppio teatrale delle case regnanti. La sua moderna notorietà si appoggia alla pubblicazione di una raccolta di Varie opere di prospettiva, di Ferdinando e di sei tomi di Architetture e prospettive, ideate da Giuseppe, repertori di straordinarie architetture disegnate. In essi, e sopratutto nel distacco, che l'invenzione bibienesca scenografica della "scena per angolo" rende cospicuo, fra lo spazio del pubblico e quello dell'illusione, e nel primo apparire in quest'ultimo di frammenti "storici", statue e architetture realmente esistenti, è possibile per un occhio di oggi intravedere gli embrioni di alcune tematiche che caratterizzeranno il clima culturale dei secoli seguenti, caratterizzato dalla contrapposizione della sala ad una scena che si presenta sempre più come la rappresentazione di un mondo "vero", o almeno credibile. L'avvento del cinema, che rappresenta una realtà completamente "altra" rispetto a quella della sala, si può considerare il suo punto d'arrivo.

I Bibiena erano legati all'Accademia Clementina, una delle principali istituzioni artistiche del capoluogo emiliano, dove Ferdinando aveva insegnato. Antonio era nato a Parma nel 1697. Al servizio, dal 1721, di Maria Teresa d'Austria, aveva svolto una molteplice attività di architetto e scenografo in diverse città dell'impero. Rientrato in Italia, la sua fama gli frutta incarichi per la progettazione di numerosi teatri: quello dei Rinnovati nel Palazzo Pubblico di Siena, quelli di Pistoia e di Colle, la ristrutturazione della Pergola di Firenze. Come architetto teatrale si propone anche al re di Napoli. In questa occasione un fiduciario del Borbone, concludendo un giudizio positivo sulle sue capacità, ne scrive così, in una lettera citata da Croce: "... se alcuno vuol abboccarsi con Bibiena e dal discorso di lui formare idea e concetto del suo valore, non potrebbe che riputarlo mediocre uomo assai nella stessa sua professione, tanto è infelice di termini e d'espressioni".

Per individuare la migliore soluzione urbanistica ed architettonica venne bandito un concorso. Pare che la proposta, vincente contro altre quindici, di erigere il nuovo teatro sul Guasto di Strada S. Donato, dove si vedevano i resti dell'antica dimora rinascimentale dei Bentivoglio (saccheggiata nel 1507 per un mese intero dal popolo in furore dopo la vittoria di Papa Giulio II e dei francesi su Giovanni II Bentivoglio) venisse proprio dal Bibiena. L'area era in posizione fortunata, nei confronti delle sedi delle altre attività intellettuali sulle quali si andava orientando l'evoluzione urbanistica della città: il palazzo dell'Istituto delle Scienze, le Accademie, la Biblioteca. La posizione decentrata scelta per il nuovo teatro bolognese segnala l'inizio di un allontanamento dal centro cittadino delle sedi teatrali di nuova costruzione. L'erezione di un teatro rappresenterà sempre più spesso, d'ora in avanti, un episodio cospicuo, capace di illuminare originali strategie urbanistiche.

La sensibilità diffusa in città attorno all'impresa si manifesta con l'accendersi di un vivace dibattito, non appena il progetto del Bibiena si mostra in pubblico. Il nuovo teatro, luogo pubblico e "banale" (cioè di tutti e di nessuno) per eccellenza, privo, a differenza -ancora- del S. Carlo, di identificazione con un potere politico preciso, è l'occasione di sperimentare tutto il vigore polemico delle parti in causa, o che almeno si presumono tali. E già sullo splendido modello di legno (che ancora ci resta) l'idea originale è fatta segno alle critiche, scoccate in tutte le forme, dal sonetto al memoriale, dalla folta schiera degli avversari. Le autorità ufficiali sono indotte ad aprire loro una breccia con la promulgazione del seguente bando: "Chiunque avesse opposizione fondata e ragionevole da fare al modello del nuovo teatro esposto al pubblico nella Residenza di Munizione, potrà esibire il suo sentimento in iscritti e riporlo nella cassetta degli Avvisi de' Dazi (...) che sarà esaminata". Bibiena se ne adonta e la polemica divampa, portata all'incandescenza dall' animosità delle fazioni, toccando presto punte gravi di volgarità e arrivando agli insulti e alle minacce fisiche, sia pure in rima. Il povero architetto, dialetticamente non molto agguerrito, è ridotto "in verissimo pericolo d'impazzire". I suoi partigiani sussurrano agli "Eccelsi Padri (...) la segreta raggion (...) doversi tutta riconoscere da alcuni Politici Motivi...". Siamo veramente agli inizi dell'architettura teatrale moderna.

L'occasione è propizia per l'impegno intellettuale del conte Francesco Algarotti, un veneziano di recente patriziato che aveva studiato a Bologna e da allora, spostatosi a Parigi, che aveva iniziato un'opera di divulgazione toccando, con il dilettantismo tipico degli intellettuali dell'epoca, i più diversi campi. In queste peregrinazioni il teatro occupava un posto centrale. Nella lettera pubblicata come premessa al suo fortunatissimo Newtonianismo per le dame, del 1739, spiega come aveva "procurato di domar, per così dire, il newtonianismo, e di aggradevol rendere la sua austerità", paragonando l'interesse che si poteva trarre da una simile esposizione del pensiero scientifico, a quella "che in una composizione di Teatro prender si suole".

Nel Saggio sopra l'opera in musica, pubblicato per la prima volta nel 1755, egli affronta direttamente il tema teatrale. Durante la costruzione del nuovo teatro Algarotti soggiornerà a Bologna. E dunque si può ritenere che il capitolo "dell'architettura", aggiunto all'edizione del 1763 ne costituisca il commento da parte di una delle migliori penne italiane dell'epoca. Per le vicende evolutive della sala teatrale "all'italiana" questo scritto di una cinquantina di pagine costituisce una pietra miliare. "Stimano i più che molto faccia alla bellezza del teatro la vastità sua. E certo li magni edifizi hanno di che sorprendere insieme e dilettar l'uomo; se non che anche quivi, come ogni altra cosa, è da osservarsi una certa regola e misura. La grandezza del Foro, dice ancora Vitruvio, si deve fare proporzionata alla quantità del popolo, acciocchè o non riesca la capacità di esso ristretta riguardo al bisogno, o pure per la scarsezza del popolo il Foro non paia disabitato e solitario".

Fin dall'inizio è in evidenza il problema delle grandi dimensioni dei nuovi edifici. Vent'anni dopo il S. Carlo, questa tendenza è descritta come un dato di fatto e non solleva più le perplessità dei frequentatori abituali degli spazi raccolti della società barocca. Nella soluzione data ai problemi che ne derivano si manifesta un nuovo orientamento del gusto e un problema dell'epoca. E' in conseguenza della eccessiva vastità delle sale che, secondo Algarotti, i prosceni si allungano in esse, per permettere alle voci di raggiungere i palchi con sufficiente intensità. Ma "gli attori hanno necessariamente a starsi al di là della imboccatura del teatro, dentro alle scene, lungi dall'occhio dello spettatore; hanno da far parte anch'essi del dolce inganno", altrimenti "se ne toglie via l'effetto, distaccando gli attori dal rimanente della decorazione, e trasportandoli di fra le scene nel bel mezzo della platea, la qual cosa non può farsi, che non mostrino il fianco, e non voltino anche le spalle a buona parte dell'udienza". Siamo ormai ben lontani dalle raccomandazioni agli attori di Leone De' Sommi, trattatista fiorito alla metà del Cinquecento che sosteneva che: "... è bene il ridursi a ragionare più in mezzo e più in ripa al proscenico che sia possibile, sì per accostarsi il più che si può agli uditori, come per iscostarsi più sia possibile dalle prospettive delle scene, poiché accostandolesi perdono del loro naturale, et il molto discostarsene par poco ai veditori, come benissimo l'esperienza ci mostra". Per la sensibilità moderna di Algarotti, questo discostarsi dalle scene appare invece "una sconciatura grandissima".

Nel modellino bibienesco lo sviluppo in profondità del proscenio e della vasta struttura architettonica accoglieva due ingressi alla scena indipendenti dal boccascena vero e proprio. Hospitalia e versurae -secondo il De Architectura di Vitruvio, riconosciuto testo di classicità dal Rinascimento e al quale l'architettura barocca non aveva smesso di rifarsi- erano aperture nella scena accessorie della valva regia principale. L'inquadratura del proscenio intendeva prolungarsi, senza soluzioni di continuità evidenti, nella scenografia, entrando ambiguamente a farne parte e sopratutto senza porre, fra luogo della fruizione luogo dell'illusione, alcun taglio netto. Proprio questo taglio -il primo di una lunga serie- è invece il programma degli illuministi.

A fronte delle rotture con il passato si tenta di costituire una nuova unità. Nello spazio riservato al pubblico, un segno tipico della nuova mentalità è la tendenza alla semplificazione degli ornamenti. Algarotti:

"Vuolsi ancora dall'interno del teatro sbandire quella maniera di ornati, tanto alla moda in Italia, che rappresentano ordini in architettura; pedanteria, che abbiamo redata dal secolo del Cinquecento, in cui né scrivania facevasi, né armadio senza porre in opera tutti gli ordini del Coliseo. Non è questo il luogo per una così fatta decorazione".
La differenza fra la gente dei palchi e quella della platea era enfatizzata dalla sovrapposizione degli ordini, mutuata dall'architettura classica, e da imponenti scale graziosamente inflesse, che menavano al parterre come avrebbero potuto portare ad una corte o ad un giardino, dove i servitori sostavano, principalmente in attesa di ordini e richiami dai palchi dei rispettivi padroni, che concedevano loro di assistere ai propri divertimenti, uno dei quali poteva essere far scorribande nei luoghi "bassi". Gli stessi musicisti, i cantanti e le ballerine appartenevano a questo ceto servile. Non solo sul palcoscenico il conte d' Almaviva poteva incontrare Susanna e Don Giovanni ghermire Zerlina. Occupanti dei vecchi parterre erano inoltre i militari. I primi borghesi, notai, medici, avvocati, commercianti, ecc., potevano penetrare in questo ambiente attraverso i palchi dei nobili, per liberalità di questi ultimi, o in platea, pagando all'impresario, un borghese come loro, un "diritto di porta" e senza doversi sentire obbligati ad alcuno. Per i più sensibili di loro, quel bugnato e quelle scale che li separavano dai palchetti, dove risplendevano il privilegio e l'arbitrio dell'aristocrazia, e dai quali cadevano sguardi sussiegosi, ma non di rado anche sputi ed avanzi di cibo, dovevano avere il sapore di un baluardo sociale, quasi di una prigione. Con la voga moderna di unificare lo stile della sala vediamo iniziare la lenta riscossa della gente del parterre, che si trasformerà così in platea. Alla fine del secolo essa sarà paragonabile, e per molti addirittura preferibile a quella dei palchi.

Infine Bibiena dovrà piegarsi alle "osservazioni" degli Accademici Clementini incaricati di giudicare il progetto. Essi addurranno motivi economici e molto del disegno originario sarà trasformato o non realizzato affatto: "...mille comodi di camere, di gabinetti, di atrii, per musiche, per giuochi, per persone che avessero bisogno di ritirarsi, e che so io, le quali aggiunte riquadravano la mole, e formavano una grandissima e maestosa fabbrica. A tutto fu dato di penna...". In generale il progetto risultò impoverito. Le modifiche ebbero solo in parte il senso ideologico auspicato da Algarotti, e per il resto quello (non meno moderno) di un complessivo snaturamento del progetto. Si manifestano così in alcune scelte aspetti conservatori e tradizionalisti, come nell'indicazione dell'uso del legno, ritenuto più "musicale", per l'architettura interna della sala, in luogo della pietra suggerita Bibiena per difendere il teatro dai frequenti incendi, come aveva già fatto alla Pergola. Venne "spennacchiata" anche la facciata, immaginata da Bibiena simile a quella di un palazzo. I lavori lavori rimangono inconclusi e l'architetto "si dimostra malcontento per non essere stato in tutte le parti eseguito il suo disegno, a motivo della spesa maggiore che vi sarebbe occorsa; ond'egli ne ritiene il modello per sua cautela".

La forma architettonica riveste ormai un valore civico e istituzionale in senso moderno. Il bando di vendita dei palchi, del 1762, reca più volte il divieto, di "mutare sotto qualsiasi pretesto, né interiormente, né esteriormente la forma, figura, ed Architettura de' rispettivi palchi aprirli, o dilatarli...", di "apporre Grembialine, o Cascate di forma veruna anche ridotti a Festoni, o Frangie, e ciò affinché restino sempre scoperti gli esteriori Parapetti de' Palchi, né sia diformato il loro Ornato, ed Architettura, e sia libero il Teatro dagli esterni Impedimenti alle voci degli Attori". Per ridurre all'anonimato una colorata abitudine del secolo precedente si avanza un pretesto "scientifico". Vengono dunque in evidenza altri due aspetti fondamentali della modernità di questa esperienza: il primo è che i suoi risultati, forse proprio perché raggiunti a mezzo delle polemiche e dei "dibattiti" già rilevati, vengono considerati orientamenti "civili", "cittadini", e come tali non possono venire messi in discussione da un singolo, chiunque egli sia. Il secondo è che la tutela di questo valore collettivo viene richiesta all'architettura, l'arte delle modificazioni definitive del contesto civile.

Dell'impostazione originale della sala, ad onta delle modifiche imposte, si sono conservate alcune importanti caratteristiche, come la pianta a campana. La decorazione venne invece radicalmente semplificata, secondo la moda dell'epoca. I quattro ordini dei palchi vennero ridotti a due, raddoppiando i superiori ed eliminando il bugnato, eliminate le colonne binate che si alternavano alle lesene, semplificando il proscenio e in generale l'ornamento. Dopo l'inaugurazione, avvenuta nel 1763 con l'opera "Il trionfo di Clelia", libretto di Pietro Metastasio, musica di Christoph Willibald Gluck, continuarono le critiche e le modifiche. Negli anni dal 1818 al 1820 viene soppressa la balconata che percorreva la platea e aumentata la sua inclinazione verso il palcoscenico, per permettere una migliore visibilità dai posti a sedere; i parapetti e cornici dei palchi perdono la convessità iniziale e si fanno pieni e squadrati, come è possibile vederli oggi. Dal boccascena sono eliminate le 2 residue nicchie e le sculture allegoriche che contenevano. I palchi di proscenio furono uniformati agli altri, con l'inserimento di un architrave e di pesanti pilastri corinzi.

Con tali modifiche si intendeva adattare il boccascena ad una nuova "sala a colonne" che si montava in palcoscenico per le feste di Carnevale. La platea si poteva innalzare al livello del palcoscenico, con una gigantesca macchina, in modo da formare con esso un ambiente unitario. Nel 1828 venne introdotto un grande lampadario a sessanta fiamme. Lavori di ammodernamento vengono effettuati in seguito negli anni 1853-54, con ulteriori interventi stilistici, di gusto ormai tardo romantico, sulla decorazione. L'attuale soffitto venne dipinto nel 1866-67 da Luigi Busi e Luigi Samoggia. Alla fine del secolo il Comunale di Bologna è la testa di ponte del wagnerismo in Italia. Il golfo mistico venne realizzato nel 1924, subito dopo la modifica apportata alla Scala, in occasione del Nerone di Boito. Insieme ad esso viene messo in opera il sipario di sicurezza, che salverà la sala dall'incendio del 1931. La facciata odierna, progettata dall'architetto Umberto Rizzi, sarà costruita, insieme a diverse altre strutture di servizio, solo nel 1935, sovrapponendosi alla originale facciata bibienesca.


da Francesco Sforza, Grandi Teatri Italiani, Editalia, Roma, 1993