L’umanità dell’internet
(le vie della rete sono infinite)

omini

di Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it



Capitolo 41
Come ridurre il computer all’obbedienza


Si è già detto nel capitolo 35 dei malanni delle tecnologie. Non c’è posto in questo libro per descrivere tutti quei piccoli accorgimenti che possono rendere più “vivibile” il non facile rapporto con il software – cioè con i sistemi e i programmi che usiamo per far funzionare un compputer o per collegarci alla rete. Ma alcuni concetti (che in molti manuali tecnici non si trovano) possono, spero, essere utili. Prima di tutto, occorre “assumere un ruolo attivo”. Non accettare passivamente il software così come ci viene proposto, ma chiederci se corrisponde alle nostre esigenze o se è meglio cambiare qualcosa. Questo può essere un po’ impegnativo e richiede un po’ di attenzione, ma è un buon investimento di tempo: perché semplifica e facilita ciò che faremo dopo, per mesi o anni, in modo più agevole e funzionale.

Quando si installa un software, non è quasi mai consigliabile scegliere l’installazione “completa”. In quel modo si “caricano” molte funzioni inutili, che ingombrano (e rallentano) inutilmente le risorse del computer e possono creare conflitti e complicazioni. È meglio scegliere l’installazione più “leggera” possibile (potremo sempre poi aggiungere altre cose se e quando ne sentiremo il bisogno). O, meglio ancora, un’installazione selettiva (scegliendo una per una le funzioni che ci servono) con l’aiuto, se necessario, di una persona esperta – che non abbia solo competenze tecniche ma anche la capacità umana di capire che cosa ci serve.

Un’altra cautela è evitare gli “aggiornamenti”. Se abbiamo un software che funziona, non serve sostituirlo con una versione più recente, se non abbiamo motivi precisi e verificati per volerlo fare. Le “innovazioni” non offrono quasi mai alcun reale vantaggio e spesso peggiorano le cose: perché appesantiscono la memoria dei nostri computer con funzioni sovrabbondanti e inutili e perché è diffusa fra i produttori di software la pessima abitudine di mettere sul mercato “nuove edizioni” non collaudate e piene di bug (cioè difetti, problemi e guasti).

Questo fenomeno è descritto nell’articolo di Gerry McGovern che ho citato nel capitolo 28. Quando si parla di questi problemi si pensa abitualmente alla Microsoft, che ne è la principale responsabile – anche perché ha il 90 per cento del mercato. Ma cadono nello stesso errore anche molti dei suoi concorrenti. Per esempio... sono abituato a usare, come browser, Netscape. Per fortuna mi sono fermato alla versione 4.2 (e in realtà non ne avevo alcun bisogno, perché le versioni precedenti erano meno ingombranti e facevano tutto ciò che mi serve). Persone esperte, che hanno provato le versioni successive (specialmente la 6) mi dicono che sono un disastro.

La trappola degli aggiornamenti sta anche nella “incompatibilità forzata”. Il venditore di software (l’esempio più evidente è quello della Microsoft, che approfitta anche così della sua “posizione dominante”) fa in modo che un testo scritto con la “nuova versione” sia incompatibile con la “vecchia”. Così cerca di costringerci a comprare nuovi software a prezzi allucinanti e con un sovraccarico di funzioni inutili.

Per esempio la suite “office” costa più di un milione (o 500 euro, come diremo fra un anno) quando è noto che il suo “costo industriale” non supera i cinque dollari – e sono disponibili software gratuiti che fanno le stesse cose.

In attesa che una tendenza generale verso la semplicità e la funzionalità riesca a prevalere – e anche quando non siamo in condizione di “convertirci” radicalmente a sistemi più aperti e compatibili, oltre che molto meno costosi – possiamo difenderci in vari modi. Cercando di convincere i nostri corrispondenti a non somministrarci materiali inutilmente “incompatibili”. Cercando di “aggiornare” il più tardi possibile (quando la congerie di errori e difetti che si trova nei “nuovi” software si sarà un po’ ridotta, e il prezzo sarà sceso). O usando uno di quei semplici “lettori”, disponibili gratuitamente, che ci permettono di leggere anche le cose scritte con le versioni più “recenti”.

Se un software è “preinstallato” o comunque già attivo sul computer, la soluzione migliore non è quasi mai “lasciarlo com’è”. Alcune delle scelte che i software offrono by default (cioè sono “predefinite” e rimangono così se non le cambiamo) possono andar bene; ma altre non sono le più adatte per la maggior parte delle persone.

Abbiamo visto nei capitoli 8, 28 e 35 come i programmatori siano culturalmente incapaci di concepire le funzioni dal punto di vista di chi le dovrà usare. E ci sono anche impostazioni che sono intenzionalmente concepite in modo da favorire gli interessi del fornitore di software, che possono essere in totale contrasto con quelli di chi lo acquista.

Comunque, è impossibile che le scelte standard siano valide “per tutti”. È molto meglio che ciascuno le definisca “su misura” secondo le sue esigenze e preferenze.

Vedremo nel capitolo 48 come è opportuno ridefinire le “opzioni” in un sistema di gestione della posta. Per fare un altro esempio, vediamo il caso di un altro software usato da quasi tutti: un word processor. Concettualmente questa è una delle più grandi risorse nell’uso pratico e quotidiano del computer: un miglioramento straordinario rispetto alle tradizionali “macchine per scrivere”.

Ma... la mania di “aggiungere funzioni” per poter giustificare gli “aggiornamenti” ha portato a complicare tutti i software, compresi i sistemi di scrittura, oltre ogni reale utilità. Per esempio le versioni più recenti di word for windows hanno un sistema che “sottolinea” automaticamente gli “errori di ortografia”. Questo significa che compare una sgradevole “marcatura” non solo di eventuali errori, ma anche di nomi di persone, parole straniere, o qualsiasi termine che il “dizionario” contenuto nel software non riconosce. Qualcuno, forse, può trovarlo utile; per molti (me compreso) è solo un fastidio. Ma è sorprendente constatare quante persone, che trovano fastidioso questo sistema, non sanno quanto sia facile “disabilitare” quell’opzione; conservando, naturalmente, la possibilità di fare un “controllo ortografico” ogni volta che lo si desidera.

Il “controllo ortografico” è uno dei modi più semplici per constatare quanto sia sostanzialmente stupido un computer – o meglio il software che usiamo per farlo funzionare. La macchina non capisce ciò che stiamo scrivendo. Ogni volta che controlliamo una parola, percorre con enorme velocità tutto il “dizionario” che contiene; se in quel dizionario la parola non c’è, la considera un errore. Questo significa che molti “refusi” possono sfuggire (se scriviamo “sera” invece di “pera” o viceversa non può sapere che è un errore) e che molte cose corrette sono segnalati come “errori”.

C’è anche un altro “automatismo stupido” che corregge “per forza” quelle parole che un programmatori considera “errori abituali”. Per esempio io ho l’abitudine di usare software in inglese... quando ebbi la malaugurata idea di “aggiornare” un word processor (la “vecchia” versione che avevo era più che sufficiente) mi trovai davanti al fatto che non potevo scrivere una “i” da sola senza vedermela trasformata in una “I” maiuscola. Benché io sia abbastanza pratico di questo genere di software, mi ci volle qualche minuto per capire come potevo eliminare quella stupida funzione.

Ma i programmatori, che con l’intenzione di “aiutarci” ci trattano da stupidi e ci complicano la vita, hanno aggiunto un’altra funzione: il “correttore sintattico” (o “stilistico”). Forse può essere utile a chi sa poco e male l’italiano, o a ognuno di noi se scriviamo in una lingua che conosciamo poco (e se abbiamo un software che riconosce quella lingua). Ma per chi sa scrivere è una dannazione, perché tratta come “errore” ogni forma non banale di scrittura, e tenta di correggerla. Anche in questo caso, la soluzione è semplice: “disattivare” la funzione e usarla solo se e quando ne sentiamo la necessità.

Un’altra funzione da “disattivare” è il cosiddetto fast save, o “salvataggio veloce”. Non ci dà alcun percettibile vantaggio di “velocità” , e invece aumenta enormemente l’accumulo di “porcheria invisibile”, cioè di testo che viene conservato nel file ma che non vediamo con il word processor. Questo può creare molti inconvenienti, fra cui uno di cui riparleremo a proposito di “posta elettronica” (vedi il capitolo 48).

Anche per chi non ha alcuna inclinazione o curiosità tecnica, può valer la pena, almeno una volta nella vita, di usare un semplice “visore di testo” per capire quanto materiale “invisibile” si nasconde in qualcosa che è stato scritto con un word processor, in un testo che si presenta in html, o in qualsiasi altro “formato”. Per esempio il testo di questo capitolo, comprese le note, contiene mille parole e un po’ meno di 6.000 caratteri; in word for windows il suo ingombro è di 18.000 byte (cioè caratteri). Se non avessi eliminato il “salvataggio veloce” potrebbe essere molto di più.. Se lo trasformo in “puro testo” e lo “comprimo” si riduce a 2.600 (a proposito di “zip” e compressione vedi il capitolo 48).

Si potrebbero fare mille altri esempi... ma il concetto generale è semplice. Non fidarsi degli “automatismi”. Non installare o attivare funzioni se non ci sono utili o necessarie, e “disattivare” o modificare tutte quelle che non ci servono. Uno dei motivi per cui installo sempre meno volentieri software nuovi o “aggiornamenti” è che ogni volta devo perdere una certa quantità di tempo per eliminare o cambiare funzioni che non mi servono o mi danno fastidio.

L’importante è non darsi mai per vinti. Non “accettare” le stranezze e le stupidità del software, ma fare tutto il possibile per ridurlo all’obbedienza.







A questo proposito c’è una vignetta che non compare nel libro stampato. Come quelle nei capitoli 36, 40 e 44 è la traduzione di un cartoon di Illiad (J. D. Frazer) – pubblicato il 7 settembre 2001.


A.I.

Il concetto di “A.I.” (artificial intelligence) è spesso oggetto di dibattito – e anche di meritata ironia. Ma qui si mette in evidenza un altro fenomeno: l’arroganza che spesso si manifesta nel software e una tendenza un po’ troppo diffusa fra i tecnici (o tecnocrati) a voler stupire e assoggettare le persone anziché porre le tecnologie al loro servizio. Cosa tutt’altro che “intelligente”.

Turing tested significa verificato in base ai criteri della “macchina di Turing”. Vedi la cronologia nell’appendice 1 (1937).






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