Il potere della stupidità
Kali

Il (dis)senno di poi


Giancarlo Livraghi – febbraio 2009


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Riempirebbe molte pagine un elenco, anche sommario, delle cose che sarebbe stato facile risolvere (o evitare) se qualcuno ci avesse badato prima – e che oggi ci si affanna a cercare di rimediare, spesso in modo sbagliato.

Di esempi è piena la storia – ma, come tanti hanno constatato, è raro che sia magistra vitae. Queste sono alcune citazioni fra le molte possibili (in ordine alfabetico, per evitare ogni gerarchia).

Gustave Flaubert: «La nostra ignoranza della storia ci induce alle falsità dei nostri giorni».

Friedrich Hegel: «Ciò che insegnano l’esperienza e la storia è che popoli e governi non hanno mai imparato dalla storia».

Aldous Huxley: «Che gli uomini non imparano molto dalle lezioni della storia è la più importante lezione della storia».

George Santayana: «Chi non impara dalla storia è condannato a ripeterla».

George Bernard Shaw: «Impariamo dalla storia che non impariamo nulla dalla storia».

Eccetera. Il fatto è noto e ripetuto, nei secoli e nei millenni. Ma è ostinata la capacità umana di non ricordare e di non imparare dall’esperienza.

Nulla è mai esattamente uguale a ciò che possiamo imparare dalla storia di mille anni fa o da un episodio di ieri. Ma è sconcertante la capacità umana di ripetere gli stessi errori – o di perseverare in un percorso che molti, evidenti segnali rivelano sbagliato.


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Mi limito qui ad alcuni esempi. Mescolando, intenzionalmente, cose “piccole” (ma non irrilevanti) con alcuni dei più gravi problemi che ci affliggono. Perché la morale è sempre la stessa: non solo rimediare “col senno di poi” è più difficile, ma spesso le soluzioni sono inadeguate, confuse o radicate negli stessi errori che erano all’origine del problema. (Vedi Errare humanum, capitolo 29 di Il potere della stupidità).

C’è, per esempio, un articolo di Isidoro Trovato pubblicato su due pagine dal Corriere della Sera il 25 novembre 2008 (ma non si tratta di un solo giornale, perché anche altri hanno diffuso, con superficiale evidenza, la stessa pseudo-notizia). Sembra che sia una “novità” la diffusione dello spam.

Va riconosciuto all’autore dell’articolo sul Corriere il merito di citare il fatto che lo spam esiste da trent’anni. Ma ciò che sfugge (a lui come a gran parte dell’opinione dominante) è che non solo in tutti questi anni è stato fatto poco o nulla per risolvere il problema, ma si è in tanti modi incoraggiata la sua crescita – dando immeritato credito a chi se ne serve, promuovendolo solennemente come e-mail marketing, diffondendo e vendendo indirizzari falsamente “selettivi”, organizzando e commerciando perverse e malfunzionanti “profilazioni”, eccetera.

Non è il caso di ripetere qui ciò che sto scrivendo da più di dieci anni sull’argomento (un esempio fra tanti è il capitolo 44 di L’umanità dell’internet, un altro è Spam e scam) ma il fatto è che il problema sarebbe risolto, o molto ridotto, da anni se non fosse stato ignorato – e, peggio ancora, incoraggiato sotto le mentite spoglie di un presunto metodo di marketing.

A proposito di “profilazioni”, sono giuste le preoccupazioni sulla spesso violata privacy, ma è meno noto il fatto che non funzionano quasi mai. Se a qualcuno capita per caso di esplorare un sito (online o non) che si occupa di bitorzoli, e se in quell’occasione qualcuno riesce a “catturare” la sua mailbox o il suo numero di telefono, rischia di essere inondato per anni da proposte di trattamenti dermatologici mentre non ha alcun interesse per quell’argomento. Se poi l’informazione finisce in mano a qualche mercante di indirizzi, la confusione si moltiplica in modi sempre più bizzarri e incoerenti. L’epidemia, come è noto, è diffusa da decenni nell’uso del telefono – e ora ha invaso, oltre all’internet, anche i cellulari, compreso lo spam per sms.

Era esagerato affermare, come qualcuno diceva cinque anni fa (e altri hanno ripetuto più recentemente) che lo spam avrebbe provocato la “morte dell’e-mail” – che nonostante quel malanno, e alcune cattive abitudini, continua a funzionare e a crescere. Ma purtroppo non è vero (almeno per ora) che lo spam si sia suicidato, come qualcuno sperava un anno fa.

C’è un modo per farlo sparire, o almeno ridurne la diffusione. Fare in modo che meno gente ci caschi. Nonostante qualche occasionale allarme, è debole, inadeguata e male organizzata l’informazione sui modi, sostanzialmente semplici, per non assecondare le truffe, le invadenze e le insidie di chi vuole “incanalare” la comunicazione dove più gli conviene.

Intanto rispuntano bizzarri annunci funebri sulla morte dell’e-mail. Come quelli di chi pensa che sarà fagocitata dai cosiddetti social network (che non sono una novità, esistono fin dalle origini della rete). È inutile badare a quelle prefiche. Come altri modi di comunicare, la “posta elettronica” non sta morendo e continua a crescere. Dobbiamo solo imparare a usarla meglio. E questo vale per tutti – anche per le persone più esperte. Uno dei fatti fondamentali nella comunicazione è che non si finisce mai di imparare.


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Un altro articolo uscito alla fine dell’anno scorso porta all’improvvisa “scoperta” di un problema che è evidente da anni. La Repubblica, 6 dicembre 2008. Il testo di Michele Smargiassi è chiaro e coerente. Non è più vero, osserva, che “il cliente ha sempre ragione”. È in precipitoso declino un principio fondamentale del marketing: ciò che conta non è la singola vendita, è la fiducia del cliente.

Chi lo sa, e lo mette in pratica, ha strategie vincenti nel breve e nel lungo periodo. Chi lo dimentica (alcuni predicano che è questa la “nuova dottrina”) si sta infilando in un vicolo cieco e fatica molto a invertire la marcia quando si accorge, tardivamente, di non avere più una via di uscita.

Il cosiddetto customer care, pseudo disciplina proclamata da anni come se fosse una novità (mentre è la base di ogni sano sviluppo d’impresa in tutta la storia dell’economia) si è tradotto in un’orrida congerie di automatismi, outsourcing e formalità che hanno l’effetto contrario. Quella balorda dottrina continua a essere insegnata e praticata benché, fin dai primi tentativi di automatizzarla, sia evidente il suo fallimento.

È tutto stupidamente reale – e ben spiegato in quell’articolo. Ma c’è un grosso errore, radicato nelle fonti su cui il giornalista si è basato. Dicono che il fenomeno è nuovo – ed è una conseguenza della crisi economica. È vero il contrario. La degenerazione è in corso da parecchi anni.

È una conseguenza (e poi, nel circolo vizioso, anche una causa) di una crisi profonda del concetto di impresa – e di organizzazione sociale – di cui riparlerò più avanti. I soloni della falsa innovazione e le maniacalità di breve periodo hanno minato le fondamenta del buon senso. Su alcuni aspetti di questo problema vedi La stupidità e la fretta, Il tentato suicidio del marketing e Il circolo vizioso della stupidità.

Le soluzioni? Non c’è alcuna proposta ragionevole. Se ci fossero e prendessero il problema per la coda, invece di cercarne l’origine, sarebbero palliativi non solo inefficaci, ma anche pericolosi perché nascondendo i sintomi favorirebbero il peggioramento del male. E con questo ci avviciniamo a un esempio di portata molto più ampia: la mal capita e peggio gestita crisi economica in cui ci troviamo.


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L’origine del problema sta in un fenomeno che era evidente trent’anni fa, è continuamente peggiorato e ora è esploso in una stranamente imprevista crisi mondiale. È la finanza speculativa.

Non ho la presunzione di avventurarmi nell’astruso e confuso oceano di chiacchiere su questo argomento. Ma c’è un fatto molto ovvio e stranamente trascurato. La finanza selvaggia, artificiale, avventuriera, c’è sempre stata – ma qualcosa è cambiato negli anni ottanta del secolo scorso.

Quella che prima, anche se diffusa, era considerata un’anomalia divenne la regola. Trionfante e trionfale, lodata e ammirata, venerata come un nuovo culto mistico. Era cominciato un grosso cambiamento non solo nel funzionamento del mercato azionario, ma in generale nel concetto di impresa.

L’economia reale andava in eclissi. La speculazione sembrava poter produrre, all’infinito, ricchezza sempre crescente, senza alcun rapporto con beni concreti o servizi utili. Come diceva Kenneth Boulding «chi crede che una crescita esponenziale possa andare avanti per sempre o è un matto o è un economista». Eppure tutta l’opinione dominante, non solo gli specialisti della manipolazione finanziaria, ha creduto (o finto di credere) in quella balzana e perversa favola.

Un immenso castello di carte (false) cresceva sempre più alto e sempre più rischioso. Era evidente che, in un modo o in un altro, sarebbe crollato.

Ora la frana travolge anche il mondo reale. Sotto le macerie, oltre all’economia di tutto il pianeta, c’è la sofferenza umana di chi perde il lavoro, la casa, la qualità della vita o le speranze per sé e per la sua famiglia.

Ci vorranno alcuni anni per capire se avremo imparato la lezione o se, passata la buriana, cadremo in una trappola altrettanto catastrofica. Se non saremo capaci di usare almeno il “senno di poi”, sarà un altro trionfo del potere della stupidità.


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Un altro esempio di enorme portata è il problema del clima e dell’energia. Si è cominciato col definirlo male.

Il problema è il prezzo del petrolio? Cioè si investe in altre fonti di energia solo se quel prezzo sale? Si è visto che il prezzo sale e scende in base a ogni sorta di manovre e di avventure speculative – mentre il problema, nella sua realtà, non può fare altro che peggiorare. La necessità di sostituire i combustibili fossili con risorse meno rozze si basa su esigenze molto più profonde, che da decenni si stanno aggravando, comprese enormi e crescenti complicazioni geopolitiche.

Il problema è il “riscaldamento globale”? Non c’è concordia fra gli scienziati sull’esistenza del fenomeno – o, se esiste, su quali possano essere le cause. (Ed è necessario che non ci sia, perché è dovere della scienza dubitare di se stessa).

Queste incertezze confondono le idee a chi vuole occuparsi dell’ambiente – e favoriscono chi cerca pretesti per non fare o per rimandare. Ci sono molti altri, e seri, motivi per risolvere un problema che si sta aggravando da almeno un secolo e che da alcuni decenni ha assunto dimensioni spaventose.

Non abbiamo la macchina del tempo per andare a rimediare gli infiniti, grandi e piccoli, errori commessi. Ma potremmo almeno gestire il senno di poi in modo meno dissennato. Essere meno distratti nell’osservare i chiari segnali dei problemi che ci affliggeranno se saremo così stupidi da lasciarli crescere. E anche cogliere le possibilità di soluzioni che ci sono, ma non stiamo sufficientemente applicando.


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Sarebbe sciocco, o ingenuo, tentare di concludere arbitrariamente con una visione positiva. Ma piangere sul latte versato serve solo ad aumentare l’umidità. È una realtà nei fatti che molti problemi, anche di domani, si possono risolvere cambiando prospettiva. Meno piagnistei, meno scaricabarile, meno confuse polemiche, più attenzione a ciò che sappiamo o che possiamo, con un po’ di impegno, scoprire.

“Del doman non v’è certezza”, ma ciò non vuol dire che ci dobbiamo perdere in feste e balocchi in attesa della fine del mondo. C’è molto che si può fare ora per evitare che in un non remoto domani sia troppo desolante il senno di poi. Può essere molto impegnativo, ma è tutt’altro che deprimente o noioso.




A questo proposito vedi anche
Il paradosso dell’abbondanza



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