Danni e stupidità
della volgarità

Giancarlo Livraghi – novembre 2012

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Non si tratta solo di “turpiloquio” – ma anche quello, nella sua banalità, è un problema. Quasi nessuno, ormai, si scandalizza per un linguaggio gremito di escrementi, orifizi e organi sessuali. Sarebbe solo una brutta abitudine se non fosse uno dei tanti travestimenti della stupidità.

La cosa non è nuova. Ce ne sono tracce (nelle parole e nei gesti) fin dalle origini di tutte le culture umane. Ma oggi ha una tale diffusione da aver perso ogni significato. Così è diventata causa e conseguenza, sintomo e strumento, di una cronica incapacità di pensare. Si strilla, si piange, si insulta, si stronca e si minaccia (o si applaude) senza aver capito di che cosa si sta parlando.

Non ho la minima intenzione di proporre alcuna forma di “buonismo”. La critica è necessaria, la polemica è legittima, le storture sono tante e non sono tollerabili. Ma i problemi non si risolvono rifugiandosi nella volgarità.

Non mi sogno di pensare che si possa diventare più civili solo eliminando le “parolacce” – o almeno evitando di usarle troppo spesso. Ma un linguaggio meno becero potrebbe aiutare a capire invece di trastullarsi con le puerilità.

Comunque, il problema è molto più esteso (e preoccupante) di qualsiasi degrado del vocabolario. Si può essere villani, anche osceni, con ogni genere di linguaggio. Basta vedere quante manipolazioni e sciocchezze si annidano nelle astrusità della burocrazia, nel gergo della politica, nelle disquisizioni accademiche e nelle pretenziose dissertazioni pseudoscientifiche.

In senso contrario, si può essere incisivi, pungenti, se necessario anche aggressivi, senza scadere nella volgarità. Un tocco bene assestato di ironia, o un commento di pacata chiarezza, può essere molto più efficace della affrettata improvvisazione di un urlo o un insulto.

Certo, è meno facile. Ma non guasta mai, prima di avventurarsi in una polemica, aver avuto il tempo e la voglia di pensare. C’è il rischio che gli sciocchi non capiscano, ma è più utile il dibattito con chi ha sale in zucca.

Arrabbiarsi è inevitabile. Anch’io, come tutti, talvolta sono nauseato dal comportamento di qualcuno (e molto più spesso dalle imperversanti panzane di quella che ho definito ingormazione – in un testo che ha avuto una particolare abbondanza di consensi).

Capita che, parlando con me stesso o con le persone più vicine, anch’io mi lasci scappare qualche esclamazione poco elegante. Ma evito di scriverle. Non per timore di essere scandaloso, né per “galateo” o buone maniere, ma perché annebbierebbero la mia intenzione di esprimermi con chiarezza.

Sarebbe sbagliato dare tutta la colpa alla televisione, ma purtroppo è davvero (in particolare in Italia) una continua fonte di pessimi esempi – che contagiano anche la stampa e gli altri sistemi di cosiddetta informazione.

L’urlo e l’insulto invece del dialogo. La deprimente banalizzazione del sesso. La continua glorificazione del pettegolezzo. L’insidiosa ipocrisia dei piagnistei. La faciloneria del consenso e la superficialità del dissenso. Lo scatenato predominio dell’apparire a scapito di ogni percezione dell’essere. La perenne e falsa scusa che la stupidità sia necessaria per “avere ascolto”.

Ovviamente qualsiasi forma di censura sarebbe inaccettabile (già ce n’è troppa, per l’evidente influenza di facilmente identificabili centri di potere). Ma non ci sarebbe alcun sacrificio di libertà nella consapevole ricerca di uno stile meno volgare e di maggiore rispetto per l’intelligenza di spettatori, ascoltatori e lettori.

Già cinquant’anni fa lo diceva chiaramente Theodor Adorno. «L’industria culturale non si adatta alle reazioni del suo pubblico quanto le falsifica». Da allora la situazione è peggiorata, anche per la concentrazione (non solo in Italia) di gran parte della “industria culturale” in poche e discutibili mani.

Non è necessario ripetere qui ciò che ho scritto in Il circolo vizioso della stupidità (capitolo 18 di Il potere della stupidità). Il concetto si può riassumere in una riga: più si trattano gli altri da stupidi, più stupidi si diventa.

Non è neppure il caso di insistere troppo sulle responsabilità dei mass media. Ci sono, ma non bastano a definire il problema. La soluzione dipende da tutti noi. La volgarità non è così diffusa e dominante come sembra. La cortesia, la buona volontà, il rispetto reciproco sono in ombra, ma non estinti.

Se non sappiamo coltivare queste fertili piantine, non è lamentandoci della villania altrui che possiamo liberarci del malanno.

Spesso la gentilezza non è ricambiata. Molti villanzoni sono incurabili. Ma se riusciamo a non cadere nella tentazione di essere altrettanto rozzi e volgari otteniamo, come minimo, il risultato di non moltiplicare il ciclo.

C’è anche un’insidia: la falsa cortesia. L’arroganza di chi si mette in cattedra e impartisce stucchevoli lezioncine. Le bugiarderie dei salamelecchi e della finta cordialità. Non meno insultanti delle villanie aggressive.

Accade spesso che la volgarità, esplicita o travestita, sia provocata da ambiguità e idee confuse. Di chi ne usa troppa, è meglio diffidare.



Post scriptum
Da una prospettiva diversa

Dicembre 2012

Ovviamente la volgarità non è solo un problema italiano. Ma i modi in cui si manifesta (e in cui è percepita) cambiano nella diversità delle culture. Perciò mi è utile tradurre qui alcune osservazioni di un autore americano (con esperienza in varie parti del mondo) in un nuovo e interessante libro sulla “gestione disfunzionale” e i “perversi ambienti di lavoro” che ne derivano.
 

book


 
William Bouffard definisce il comportamento rude – un aggettivo non esattamente traducibile in italiano, più simile a “villano” che a “volgare”, comunque forte e chiaro – ben identificato nelle sue osservazioni.

Così spiega il problema nel primo capitolo del suo libro.

«Poiché il mondo è pieno di persone sgradevoli, disumane e incivili, non solo nell’ambiente di lavoro ma dovunque, che fare? Non si può solo subire e porgere l’altra guancia, si tende a reagire nello stesso modo e così questa perversa catena di eventi si sviluppa e si intensifica continuamente».

«Sono arrivato alla conclusione che questo modo di pensare della [egocentrica] “generazione io” non ha alcuna probabilità di esaurirsi presto. Il motivo è che non è affatto generazionale, attraversa tutte le età, etnie e demografie; tutte le categorie di impresa e le impronte culturali. Perciò dobbiamo affrontare il mondo com’è – pieno di persone insensibili che badano solo al proprio egoismo, incuranti dei disastri che provocano nella loro scia».

«C’è una cosa, tuttavia, che possiamo fare: capire i comportamenti di questa genia per poterla combattere con altrettanta aggressività».

Non è detto che la migliore risposta alla violenza sia una reazione ugualmente furiosa. Ma prima di ritornare su questo tema vediamo come continua il ragionamento di Bill Bouffard.

Ciò premesso, se vogliamo sperare che il mondo possa cambiare da villano e incivile a beneducato e gentile, è importante capire qual è la forza portante della villania. Credo che la risposta sia semplice. È la stupidità».

Infatti è proprio così. E occorre anche capire che l’arroganza, la volgarità, la prepotenza, la violenza, la brutalità non sono segni di forza – ancora meno di autorevolezza. Sono sintomi preoccupanti di insicurezza e stupidità. Definibili anche come disagio psichico, patologia mentale.

C’è un’interessante (e tutt’altro che casuale) “convergenza” fra le osservazioni di Bouffard e i miei ragionamenti sulla stupidità. Come, per esempio, nella sua definizione della disfunzione gestionale come “sociopatia”.

«Un sociopatico è incapace di sentire empatia, colpa o rimorso per il modo in cui tratta le persone. Altri tratti caratteristici sono narcisismo ed egomania. Per un vero sociopatico i rapporti di lavoro sono solo un gioco. I sociopatici vedono le persone come oggetti (strumenti) da manipolare – e il loro comportamento narcisistico provoca disastri per tutte le persone con cui lavorano, specialmente quelle che lavorano per loro».

(Ovviamente c’è sociopatia non solo nell’ambiente di lavoro, ma anche più estesamente in ogni genere di rapporti umani).

È una malattia contagiosa. Il concetto non è esattamente lo stesso, ma c’è un’evidente somiglianza fra questa “sociopatia” e la grave “psicopatia” rilevata nel caso, particolarmente pernicioso, degli speculatori finanziari.

(Due testi su questo argomento. È una malattia mentale
in C’era una volta il mercatoEmpatia in Uomini e topi).
 

Il mondo non è un manicomio, non tutta l’umanità è impazzita. Ma è estremamente pericoloso sottovalutare il problema. Risolverlo non è facile, ma non è impossibile. Per cominciare, nel caso dell’Italia, occorre togliere di mezzo la sciocca abitudine dell’autocommiserazione.

L’ho detto e scritto molte volte, ma non mi stanco di ripeterlo. È stupida l’arroganza di paesi, culture, categorie o mestieri che si illudono di essere “superiori”. Ma lo è altrettanto avere un complesso di inferiorità e rifugiarsi negli sterili sfoghi del piagnisteo. L’autocritica è un valore, ma l’autodenigrazione è un’idiozia.

Il problema non è italiano. È mondiale – e come tale va capito. Ogni serio tentativo di risolverlo (o almeno attenuarlo) deve valicare i confini delle nazioni, delle culture, dei provincialismi e dei piccoli egoismi parrocchiali.

Comunque (e dovunque) c’è un’altra malattia, che si chiama depressione. Non ne soffrono i sociopatici, ma le loro vittime. Riuscire a liberarle dalla prepotenza dei villanzoni sarebbe più efficace di ogni pillola o psicoterapia.



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