timone Il Mercante in Rete
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Marketing e comunicazione nell'internet


Numero 51 – 18 ottobre 2000

 

 


loghino.gif (1071 byte) 1. Editoriale: I “baroni ladroni”
(la storia è vecchia)


L’origine dei robber baron si perde nella notte dei tempi. Pare che risalga al medioevo, quando feudatari terrieri raccoglievano dogane e gabelle. Combattuti non solo da occasionali (e leggendari) Robin Hood ma soprattutto da organizzazioni sistematiche e con forti convinzioni filosofiche, come i Templari. Non mi sembra casuale che la definizione sia ritornata di attualità a proposito di alcune situazioni che riguardano le tecnologie di oggi e la cosiddetta “nuova economia”. L’ha citata, per esempio, l’attorney general Janet Reno nel corso dell’azione legale contro la Microsoft.

Ma quella citazione non è un caso isolato. Di “baroni ladroni” si parla abbastanza spesso negli Stati Uniti. C’è perfino un videogioco che si chiama 1830: Railroads and Robber Barons.

In tempi moderni la definizione robber baron fu adottata nel 1934 da un economista americano, Matthew Josephson; e poi fu ripresa da parecchi altri autori (compresi alcuni libri recenti sull’argomento). Il problema, che si era posto alla fine del Settecento e poi di nuovo con lo sviluppo delle ferrovie, e anche in questo secolo in occasione di parecchie spericolate (e truffaldine) operazioni in borsa, è abbastanza complesso; ma si può riassumere in una domanda. Certi personaggi che hanno accumulato immense fortune sono “capitani d’industria” (cioè egoisti ma utili alla crescita generale del benessere) o sono “baroni ladroni”, cioè grassatori che hanno arricchito se stessi ma rovinato l’economia degli Stati Uniti e del mondo, sfruttato spietatamente un gran numero di persone dentro e fuori i confini del loro paese, insomma malfattori le cui imprese si sono risolte in un grave danno per tutti?

In alcune situazioni, la risposta è facile. Per esempio erano tipici “ladroni” Jim Fisk e Jay Gould, che nel 1869 cercarono di impadronirsi di tutto l’oro degli Stati Uniti. Non ci riuscirono, e così si buttarono a speculare sulle azioni delle ferrovie; quando gli azionisti si accorsero che erano vendute molto al di sopra del loro valore, le compagnie ferroviarie andarono in fallimento; ma i due furfanti erano scappati con un cospicuo “malloppo”. E come loro tanti altri che, in tanti periodi diversi – anche recenti – hanno imbrogliato tutti (il mercato, gli investitori, gli azionisti) lasciando in giro titoli che non hanno più alcun valore se non come pezzi di carta che forse possono interessare qualche collezionista o antiquario.

In altri casi, invece, c’è ancora dissenso fra gli storici e gli studiosi su quanto “ladrone” o quanto “utile imprenditore” sia stato questo o quel multimiliardario del passato. E su quelli di oggi... i dissensi sono ovviamente ancora più forti, anche per la non poca influenza esercitata dagli interessi in gioco. Con una preoccupante tendenza del sistema informativo dominante a servire gli interessi più potenti e ad attenuare e smussare (se non soffocare del tutto) ogni voce di critica o di dissenso.

Lascio agli storici dell’economia il compito di giudicare i baroni del passato; e “ai posteri l’ardua sentenza” di valutare l’esito delle speculazioni di oggi. (Mi sembra che alcune, abbastanza facilmente identificabili, abbiano già fatto danni gravi e continuino a farne; ma ciò che mi interessa in questo articolo è cercare di capire la natura del fenomeno più che valutare i comportamenti di questa o quella impresa).

Il fatto è che in tutto questo non c’è nulla di nuovo; e quindi è sbagliato descrivere quel genere di operazioni come “nuova economia”. La (falsa) novità diventa una scappatoia. I difensori dei “baroni ladroni” di oggi sostengono una tesi semplice quanto falsa. Ciò che stanno facendo serve per “costruire il futuro” e quindi è sbagliato ostacolarli. Nessuna verifica è possibile; il loro comportamento non può e non deve essere giudicato. Tutti i criteri di una sana economia (e ogni tentativo di contrastare monopoli, cartelli, contratti “leonini”, violazioni della privacy e dei diritti dei cittadini, eccetera) devono essere sospesi perché la “nuova economia” è diversa dalla “vecchia”. Quindi se il pubblico (negli Stati Uniti) è truffato e derubato, poco importa, perché l’economia cresce e il “reddito medio” aumenta. Se il resto del mondo (compresa l’Europa) finisce assoggettato e sfruttato come le repubbliche delle banane, è un prezzo che dobbiamo pagare per i benefici della “globalizzazione”. E se era giusto (nella “vecchia economia”) smembrare organizzazioni monopolistiche (o in tanti altri modi favorire una vera concorrenza) nella “nuova” tutto questo non ha più alcun significato. Questa tesi è priva di qualsiasi ragionevole fondamento; e comunque inaccettabile.

Devo confessare che sono abbastanza scettico sulle qualità intrinseche di una disciplina come l’economia, che non è certo una “scienza esatta” e si è dimostrata, anche in passato, poco capace di capire il comportamento umano e le evoluzioni sociali. E anche le norme e le leggi che governano la “libera concorrenza” e la trasparenza dei mercati sono tutt’altro che perfette. Ma ciò non significa che sia sensata l’abdicazione di ogni analisi e di ogni verifica.

Le speculazioni, le manovre, i monopoli e i privilegi non sono la network economy (che se fosse lasciata libera di esprimere la sua vera natura somiglierebbe molto di più alle libere strade aperte dai Templari che agli arcigni castellani esattori di gabelle). Sono cose molto vecchie – e vanno trattate come tali. Anzi, semmai, con un po’ più di severità e di capacità reattiva; perché se le nuove tecnologie e i nuovi sistemi rimangono sotto il controllo di pochi interessi, e troppo concentrati, è inevitabile che si dia campo (come stiamo constatando) alle forme più selvagge e traditrici di speculazione e di sfruttamento; e che si rischi di instaurare un sistema di oligarchie e privilegi tale da far impallidire gli aspetti peggiori delle baronie medioevali o delle angherie dei robber baron di cinquanta, cento o duecento anni fa. Nemmeno nel 1830 (o qualche anno dopo... la Napoli-Portici fu inaugurata nel 1839 e la Milano-Monza nel 1840) era stato consentito a qualcuno di avere il monopolio mondiale dei binari o delle locomotive – e contemporaneamente di impadronirsi dei sistemi di informazione.

 

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loghino.gif (1071 byte) 2. L’era web è tramontata? (George Colony)


Cinque mesi fa avevo citato un interessante articolo di George Colony (chairman and CEO di Forrester Research) sulle debolezze delle Dot Com. I fatti gli hanno dato ampiamente ragione (e, come sa bene chiunque segua un po’ da vicino le vicende nostrane, ci sono casi italiani ancora più squallidi). Resta da capire come si possano conciliare queste osservazioni con il contributo che Forrester Research ha dato a molte proiezioni esagerate e acriticamente ottimistiche sul “commercio elettronico” (o almeno così riferite dai “grandi mezzi di informazione”). Ma lasciamo da parte quella contraddizione (forse solo apparente) e badiamo alla sostanza di osservazioni che mi sembrano fra le più acute e intelligenti sul controverso tema dell’e-business.

Il 12 ottobre George Colony ha pubblicato un nuovo articolo, X internetThe web will fade, in cui pone un problema interessante. Potremmo essere vicini alla fine dell’“era web”. Mentre l’era dell’internet è appena nata.

L’articolo comincia così.

In questo momento siamo in un posto strano. Il fetore dolciastro delle carcasse delle Dot Com aleggia nel mondo della borsa e del venture capital. La bolla d’aria sull’e-commerce che gonfiava Forbes, Fortune, Business Week, gli analisti di Wall Street, la CNBC – e altre fonti finanziate dalla pubblicità o dai guadagni sulle transazioni – si è sgonfiata.
Allora è finita? L’internet era una moda passeggera?
No. Ma stiamo entrando in una nuova era. Abbiamo fatto un po’ di ginnastica preparatoria per la internet economy. C’è stato parecchio ansimare e sbuffare, ma la partita non è ancora cominciata.
Molti credono che l’internet e la web siano la stessa cosa. Non lo sono. L’internet è come un filo che collega te e me e altri 300 milioni di persone nel mondo. La web è un software che io metto al mio capo del filo, e tu al tuo, per poter scambiare informazioni.
Mentre l’internet (la rete di fili) si evolve gradualmente, il software che si appoggia sul filo può cambiare in fretta. Prima della web, c’erano altri software che si attaccavano all’internet. Wais, gopher e usenet erano i sistemi dominanti; e c’erano imprese che facevano commercio elettronico usando quei tipi di software. Poi vennero Tim Berners-Lee e Marc Andreessen (gli inventori della web) e tutti i vecchi sistemi caddero in ombra.
Molti fra i meno esperti pensano che la web definirà il panorama per molto tempo. Un dirigente dell’editoria che ho incontrato recentemente ha espresso questo pensiero: «Oh, ho capito. Siamo nel 1952 e la web è come la televisione. La partita si giocherà per 20 o 30 anni e ci sarà una ABC della web, e una CBS, e una NBC, eccetera».
(ABC, CBS e NBC sono le grandi reti televisive negli Stati Uniti – n.d.t.).
Non è così. Arriverà un’altra tecnologia ed eclisserà la web, come quella aveva eclissato news, gopher eccetera. E il giorno del giudizio arriverà molto presto – nei prossimi due o tre anni, non fra 25.

Da questo punto in avanti il mio modo di pensare si allontana da quello di George Colony. La sua tesi è che l’attuale sistema (web) in cui si scambiano “pagine” sarà sostituito da un altro in cui si scambieranno “file eseguibili”. E che, in sostanza, da un ambiente in cui la rete è percepita come uno strumento soprattutto di lettura si ritorni a un sistema in cui predominano lo scambio e la collaborazione. Questa è un’ipotesi interessante, ma non so se l’evoluzione debba necessariamente basarsi su un cambiamento di software; né se l’uscita dall’impero web debba avvenire per sostituzione di una tecnologia dominante con un’altra.

Anche oggi “non tutto è web”. La posta elettronica, per esempio, è un sistema del tutto diverso (anche se alcuni novellini possono percepirla come un “sottosistema” della web). Il trasferimento dei file, anche se “apparentemente” una funzione web, si svolge con il protocollo FTP che è più anziano di quindici anni. Un testo può essere letto in HTTP (soluzione adatta per il sistema web) o presentato in altri formati più adatti alla stampa e alla lettura su carta. Eccetera...

L’importante è capire che, come giustamente sottolinea George Colony, l’internet non è “tutta web” e può funzionare anche in altri modi. E usare, secondo il caso, software e tecnologie più adatte.

L’importante è uscire dall’attuale mentalità “web centrica” e dalla falsa percezione che essere in rete voglia dire solo (o soprattutto) “avere un sito web” (e che usare la rete voglia dire “andare per siti”). Riscoprire i valori dello scambio, dell’interazione, della collaborazione, della condivisione di esperienza, della co-gestione di attività di ogni specie, che sono i più importanti.

Per la stragrande maggioranza delle imprese (e anche delle persone che sono entrate in rete quando l’apparenza web aveva preso il sopravvento) i valori più importanti dell’internet sono ancora da scoprire.

Il nuovo sistema, dice Colony, sarà meno server centric (cioè basato su siti o nodi di riferimento) e più peer-to-peer (cioè nutrito dagli scambi fra persone). Il che è, almeno in parte, un ritorno alle origini della rete. Osserva anche che gli sviluppi del futuro non verranno dalle grandi software house di oggi, né dalle grandi operazioni centralizzate, ma (come è accaduto per l’internet e per la world wide web) dalla ricerca pura, dal mondo accademico e dall’opensource.

Credo che, come sempre, sia più un problema di cultura umana che di tecnologie. Credo anche che prevedere le soluzioni del futuro sia molto difficile, se non impossibile. Ma l’osservazione fondamentale che sta dietro il ragionamento di George Colony mi sembra rilevante. La vera e forte natura dell’internet si evolve gradualmente. L’attuale orientamento verso siti e “portali” è una parentesi ormai vecchia, che tende a imitare il modello dei mezzi tradizionali (costruire sistemi web come se fossero reti televisive). Il futuro della rete si basa su una riscoperta delle sue origini e su uno sviluppo delle sue straordinarie possibilità di rapporti umani, scambio, interattività e collaborazione. La storia vera dell’internet deve ancora cominciare – nell’economia come in quella grande parte della cultura e della società che non erano online prima della temporanea, e ormai superata, “era web”. Il che significa che molti protagonisti di oggi appartengono al passato, e che i leader di domani potrebbero essere persone finora sconosciute e organizzazioni di cui non si è ancora scoperta l’importanza – o che devono ancora nascere. In questo territorio mutevole e inesplorato la cosa più importante è badare poco alle apparenze, non seguire le mode, evitare l’imitazione e puntare su ciò che non cambierà: la struttura di base della rete e il valore dei rapporti umani.



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loghino.gif (1071 
byte) 3. Il “male oscuro” della nuova economia
(Eugenio Scalfari)


Su Repubblica del 15 ottobre è uscito un editoriale di Eugenio Scalfari: Il lato oscuro della new economy. Positivo è il fatto che ci si renda conto di una crisi del sistema. Ma scoraggiante il modo in cui viene interpretata. Questa non è solo l’opinione di un giornalista famoso e molto influente. È anche la testimonianza di un imprenditore che ha investito in attività editoriali online – e che è palesemente deluso dei risultati.

Come il loro “analogo” americano citato da George Colony, sembra che gli imprenditori dell’editoria italiana abbiano fatto un ragionamento semplice quanto sbagliato. L’internet è come la televisione. Si concentrerà in pochi grandi sistemi (che si chiamino “portali” o con un altro termine di moda non è importante). Diventerà una macchina potentissima di raccolta pubblicitaria. Se noi, editori della carta stampata, abbiamo perso l’autobus della televisione dobbiamo prendere questo prima che sia troppo tardi. Se noi, dominatori del mercato televisivo, non occupiamo questo territorio potremmo perdere un’area importante di potere e di guadagno.

Né gli uni, né gli altri hanno capito che cos’è l’internet. Sono confusi e smarriti. Si chiedono perché le loro entrate nei mezzi tradizionali sono in forte aumento (in buona parte grazie agli investimenti di nuove aree di concorrenza, come quella delle telecomunicazioni) mentre i ricavi delle attività online sono molto più scarsi del previsto e non coprono il costo degli investimenti. E sta diventando meno facile usare la ricetta che finora sembrava la soluzione di tutti i problemi... fare un “colpo in borsa“ (o una vendita a un accaparratore) con cui rastrellare molto denaro. Così intanto si guadagna... e poi si vedrà.

Infatti le oscillazioni della borsa sono la cosa che più preoccupa Scalfari – e tanti altri che ragionano come lui. L’articolo comincia con una diagnosi che sembra sensata.

Gli scossoni delle borse hanno messo fine già da alcuni mesi alla lunga stagione rialzista. La fase del ribasso, o quanto meno di vistose oscillazioni nel corso dei titoli, ha penalizzato quasi tutti i valori ma ha concentrato i suoi effetti soprattutto sui titoli della “new economy”, quelli direttamente legati alla rete internet e alle sue varie applicazioni.
Questo comparto era quello che nella fase del grande rialzo aveva realizzato plusvalenze da capogiro puntando più su una scommessa di futuro che sulla valutazione attuale degli asset di quelle società. Non stupisce perciò il fatto che sia proprio questo settore ad aver registrato fin dalla scorsa primavera un andamento più negativo e perdite di valore più alte rispetto a tutti gli altri del mercato finanziario. E tuttavia operatori, grandi e piccoli azionisti, risparmiatori, economisti, banchieri, hanno capito che qualche cosa di più profondo è accaduto, qualche cosa che va molto al di là delle consuete inversioni del ciclo borsistico, molto al di là di un semplice e salutare ridimensionamento di valori e di capitalizzazioni cresciute troppo in fretta e senza alcun rapporto con le reali prospettive dell’economia informatica.
Gli operatori più attenti, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico, avevano da tempo avvertito il pubblico che la “fiesta on line” non poteva durare a lungo e che le severe leggi del mercato avrebbero duramente falcidiato la massa delle iniziative che si erano avventurate senza prudenza sulle libere praterie dell’internet. «Fate attenzione a rischiare avventatamente capitali e risorse umane alla conquista di supposti Eldoradi – avevano detto – perché la delusione sarà dura, pochi sopravviveranno alla selezione, i profitti verranno tra quattro o cinque anni e premieranno soltanto chi avrà avuto la capacità di lanciare prodotti validi e la possibilità di investire ingenti risorse in attesa che i frutti maturino». Ma questi avvertimenti erano rimasti inascoltati.

Sorge spontanea una malignità... perché sui nostri giornali, e in particolare su Repubblica, di queste osservazioni degli “operatori più attenti” c’è scarsissima traccia, mentre imperversano le esagerazioni sulle “facili fortune” in rete mescolate con fantasie pseudo-tecnologiche e vari terrorismi su qualche virus più o meno immaginario o altre sballate demonologie? Ma lasciamo da parte questo aspetto della vicenda e ritorniamo al tema.

Dopo questa premessa, Scalfari commette un madornale errore.

Adesso finalmente il terreno reale sul quale va piantato l’albero della “new economy” risulta chiaro a tutti: la sola vera aspettativa di profitto è costituita dalla pubblicità commerciale, tutte le altre ipotesi sono cadute.

Spero di non dover ripetere ciò che ho già scritto tante volte, e che i migliori autori internazionali sull’argomento hanno ampiamente spiegato. Questo modo di ragionare non è altro che il trasferimento di logiche vecchie sull’internet, considerata come se fosse soltanto “un altro mezzo pubblicitario”. E una delle cause principali dell’incapacità delle imprese (inondate di proposte e soluzioni inadatte alle loro esigenze) di capire come possono davvero usare la rete per fare autentica innovazione e migliorare la loro competitività

Il resto dell’articolo è in gran parte un’elaborazione di questa falsa premessa. Il problema è che il mondo dell’editoria (e di conseguenza dell’informazione giornalistica e televisiva) è quasi tutto condizionato da prospettive di questa specie.

Ma prima di concludere sento lo sgradito dovere di rilevare un’altra balordaggine. Che (di nuovo) non è l’errore di una persona ma un sintomo dell’ignoranza dominante nella nostra nomenklatura culturale.

L’itinerante, l’uomo-folla, l’uomo-solitudine e l’uomo tecnologico determinano un salto antropologico rispetto all’umanità che ha popolato gli ultimi due secoli. Il disoccupato strutturale e il servo-manovale determinano a loro volta un salto economico-sociale. Quanto al solco della disuguaglianza, siamo anche qui in presenza di un salto qualitativo (all’indietro): la distanza tra chi detiene il sapere e partecipa alla distribuzione del profitto e chi vende la propria forza lavoro di manovale in condizioni di drammatica inferiorità; negoziale ha stravolto e più ancora stravolgerà; il mercato del lavoro.

Anche in questo caso si tratta di un’opinione diffusa – e profondamente sbagliata. Quella desolante condizione umana è il prodotto dell’epoca tardo-industriale, delle concentrazioni che tolgono senso e valore al concetto di “mercato”, di tecnologie farraginose e altri ostacoli che tengono nove decimi dell’umanità fuori dalla rete, dei grandi mezzi centralizzati e omogeneizzati. Della televisione (che Eugenio Scalfari ha sempre odiato) e della stampa che di quel genere di cultura è diventata serva e strumento (problema di cui Scalfari si è accorto, come rivela un interessante dibattito di un anno fa; ma ha onestamente ammesso di non saper trovare la soluzione). Se gli spietati centralizzatori della “cultura web” riuscissero ad addomesticare l’internet e a ridurla a una brutta copia dei mezzi tradizionali, forse fra qualche anno raccoglierebbero abbastanza soldi con la pubblicità per tenere in piedi le versioni online delle loro “testate” tradizionali (che intanto stanno perdendo vitalità e vigore, umiliate dai miasmi delle delusioni finanziarie). Ma se così fosse avrebbero distrutto, o gravemente menomato, lo strumento migliore di cui disponiamo per uscire dalla prigione e far nascere davvero una nuova stagione di rapporti umani – e un’autentica “nuova economia”.



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loghino.gif (1071 
byte) 4. L’inganno del “grande fratello”
(Umberto Eco)


Sull’Espresso del 12 ottobre (lo stesso numero che in un servizio “di copertina” si dedicava alla demonizzazione dell’internet) è uscita un Bustina di Minerva in cui, ancora una volta, Umberto Eco dimostra di essere uno dei pochi maitre à penser italiani capaci di fare osservazioni intelligenti e sensate sull’evoluzione dei sistemi di comunicazione.

Le osservazioni di Umberto Eco partono da quel programma televisivo di cui tanto si parla (e che personalmente trovo noioso e squallido... ma quello è un altro discorso) per arrivare a un argomento molto diverso. Con un tono divertente e ironico, pone un problema serio. Il tema è così importante che questa “bustina” merita di essere citata per intero.

A fine settembre si è svolto a Venezia un convegno internazionale sulla “privacy”: le discussioni sono state sfiorate più volte dall’ombra del Grande Fratello. Ma Stefano Rodotà, garante per la protezione dei dati personali, ha avvertito all’inizio che in sé questa trasmissione non viola la privacy di nessuno.
Non c’è dubbio che essa solletichi il gusto voyeuristico del telespettatore, che gode nel vedere alcuni individui posti in una situazione innaturale, i quali debbono fingere cordialità reciproca mentre stanno, di fatto, scannandosi a vicenda. Ma le gente è cattiva, e ha sempre goduto nel vedere i cristiani sbranati dai leoni, i gladiatori che entravano nell’arena sapendo che la loro sopravvivenza dipendeva dalla morte del compagno, ha pagato per spiare al Luna Park la deformità delle donne cannone, al circo i nani presi a calci dall’Augusto, o sulla pubblica piazza l’esecuzione di un condannato. Se così stanno le cose, il Grande Fratello è più morale perché non solo non muore nessuno, e i partecipanti rischiano solo qualche scompenso psicologico – non più grave di quello che li ha portati ad affrontare la trasmissione. È che i cristiani avrebbero preferito stare a pregare nelle catacombe, il pretoriano sarebbe stato più felice se fosse stato Petronio Arbitro, il nano se avesse avuto il fisico di Rambo, la donna cannone se fosse stata Brigitte Bardot, il condannato a morte se avesse ricevuto la grazia. Invece i concorrenti del Grande Fratello partecipano volontariamente e sarebbero stati disposti perfino a pagare pur di ottenere quel che per loro è un valore primario: vale a dire la pubblica esposizione e la notorietà.
L’aspetto diseducativo del Grande Fratello sta altrove, e proprio nel titolo che qualcuno ha escogitato per questo gioco. Forse molti telespettatori non sanno che quella del Big Brother è una allegoria inventata da Orwell nel suo “1984”: il Grande Fratello era un dittatore (il cui nome evocava il Piccolo Padre, cioè Stalin) il quale da solo (o con una ristretta Nomenklatura) era in grado di spiare tutti i suoi sudditi, minuto per minuto, ovunque si trovassero. Situazione atroce, che ricorda il Panopticom di Bentham, dove i carcerieri possono spiare i carcerati, i quali invece non possono sapere se e quando sono spiati.
Col Grande Fratello di Orwell pochissimi spiavano tutti. Con quello televisivo, invece, tutti possono spiare pochissimi. Così che ci abitueremo a pensare al Grande Fratello come qualcosa di molto democratico e sommamente piacevole. Nel fare questo però ci dimenticheremo che alle nostre spalle, mentre guardiamo la trasmissione, c’è invece il vero Grande Fratello, quello di cui si occupano i convegni sulla privacy, fatto di vari gruppi di potere che controllano quando entriamo in un sito sull’internet, quando paghiamo con la carta di credito in un hotel, quando comperiamo qualcosa per posta, quando ci viene diagnosticata una malattia all’ospedale, e persino quando circoliamo in un supermercato monitorati da una tv a circuito chiuso. Si sa che, se queste pratiche non verranno rigorosamente controllate, si potrebbe accumulare alle spalle di ciascuno di noi una impressionante somma di dati che ci renderebbero totalmente trasparenti, sottraendoci ogni intimità e riservatezza.
Mentre guardiamo il Grande Fratello alla tv siamo in fondo come quel coniuge che, leggermente imbarazzato perché sta consumando un flirt innocente in un baretto, non sa che l’altro coniuge sta nel frattempo cornificandolo in modo ben più consistente. Il titolo “Il grande fratello” ci aiuta così a non sapere, o a scordare, che in quello stesso momento qualcuno sta ridendo alle nostre spalle.

Ho un solo punto di disaccordo con questa analisi, ed è un dettaglio sintattico: l’uso del futuro o del condizionale. Come il “1984” di George Orwell non era una previsione fantascientifica, ma una descrizione di ciò che accadeva nel 1948, anche il “grande fratello” che ci spia e ci controlla non è qualcosa che potrebbe succedere domani, ma un problema che abbiamo già – e da molti anni. Siamo tutti “schedati”, sorvegliati e spiati – fin dalla nascita. E i poteri di ogni specie non si accontentano; vorrebbero ancora più strumenti di controllo, ancora più capacità di invasione della nostra vita privata.

Una cosa che pochi sanno (forse neppure Umberto Eco) è che ogni anno al convegno internazionale CFP (Computers, Freedom and Privacy) vengono assegnati gli Orwell Award: a quelle organizzazioni (pubbliche o private) che sono più colpevoli di incarnare il ruolo del Grande Fratello. La difesa della libertà e della riservatezza di tutti noi è un tema in cui siamo ancora troppo poco impegnati e su cui occorrerebbe una mobilitazione (e una continua attenzione) molto più cosciente e incisiva.



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loghino.gif (1071 byte) 5. Writing that works (Kenneth Roman)


Il motivo per cui segnalo questo libro non è solo il fatto che, nella nuova edizione appena pubblicata, sono stati aggiunti alcuni consigli utili per la posta elettronica e la comunicazione in rete. Writing That Works di Kenneth Roman e Joel Raphaelson è un “classico” sull’arte di scrivere – per chi non ha ambizioni letterarie ma vuole comunicare efficacemente per motivi di lavoro. Una cosa che è sempre stata importante e lo diventa ancora di più con l’estensione della corrispondenza che si realizza nella rete.


libro

qui

si trova un’immagine più precisa della copertina
(ma più ingombrante – 45 k)


La prima edizione era uscita nel 1981 e aveva avuto un notevole successo, che è continuato negli anni seguenti (questo libro è stato adottato, fra l’altro, come testo di riferimento in alcune grandi imprese internazionali). È stato aggiornato e rinnovato nel 1992 e ora di nuovo in questa terza edizione, pubblicata nell’agosto 2000.

Tratta tutti gli aspetti dello “scrivere efficace” nei rapporti di lavoro. Non solo la corrispondenza ma anche relazioni, piani, progetti, presentazioni, memorandum, appunti, domande e risposte. Con disciplina, metodo e chiarezza.

Tradurrre questo libro in italiano sarebbe un’impresa difficile, perché andrebbe in parte riscritto per tener conto delle differenze lessicali. Ma proprio il fatto che è in inglese lo rende doppiamente utile. Perché ci sono molti suggerimenti validi in qualsiasi lingua; e perché aiuta a esprimersi meglio e più efficacemente nella comunicazione internazionale. Un manuale pratico, chiaro, sintetico, pieno di osservazioni utili e verificate dall’esperienza. Una guida concreta sui modi migliori per farsi capire, spiegare, informare, convincere e comunicare in modo efficace.

 

 

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