Inferni e paradisi (fiscali)

Giancarlo Livraghi – luglio 2012

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(migliore come testo stampabile)

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Queste osservazioni sono un ulteriore “supplemento” alla serie iniziata con C’era una volta il mercato nell’agosto 2011 – con aggiunte e approfondimenti in ottobre e novembre, oltre a vari altri sviluppi su temi connessi, come per esempio Uomini e topi dicembre 2011 L’arte perversa del piagnisteo dicembre 2011 Stupidocrazia finanziaria gennaio 2012 Stupidità e perversità dell’informazione giugno e luglio 2012 I danni mostruosi della burocrazia luglio 2012.

“Paradisi fiscali” è un errore di traduzione (haven “rifugio” è diverso da heaven “paradiso”).
Ma, in questo caso, il termine è adatto al ragionamento.
 

L’argomento è inesauribile – per la sua intricata complessità e per la continua aggiunta di nuove deformazioni. È impossibile seguirne tutto il perverso intrico. Ma alcune “rivelazioni” meritano di essere citate.

Mentre continuano a imperversare le molteplici (e contraddittorie) profezie di sventura, con servile acquiescenza a ogni bizzarria e perversità della speculazione, un fatto ovvio da molti anni, ma ostinatamente ignorato, è “improvvisamente” rilevato il 23 luglio 2012 nei due più importanti quotidiani italiani. Nel Corriere della Sera un articolo di Danilo Taino Il tesoro nascosto nei paradisi fiscali vale quanto il pil di Usa e Giappone. In la Repubblica Roberto Mania Ecco come i super ricchi del pianeta sottraggono al fisco 21 mila miliardi.

Tutti e due riferiscono i risultati di uno studio condotto da James Henry per conto di TJN Taxjustice Network “organizzazione britannica antievasione”.

Che il problema ci sia – e abbia dimensioni enormi – è evidente da molti anni. Ma questo sembra il primo (e finora l’unico) tentativo di definirne numericamente la quantità. Secondo Taxjustice Network ci sono, nel mondo, dieci milioni di persone (o indefinite “entità”) con soldi occultati in “paradisi fiscali”. Un grosso numero, ma poco più di un millesimo dell’umanità. E si ritiene che diecimila miliardi di dollari invisibili appartengano a 92 mila evasori – più di cento miliardi ciascuno.

Il totale del denaro così nascosto è valutato fra 21 e 32 mila miliardi di dollari (le cifre sono certamente molto “sottostimate”, perché tante altre forme di occultamento della ricchezza sfuggono a questa analisi).

Così commenta Roberto Mania. «Sono soldi sottratti al fisco, tolti agli investimenti produttivi, al lavoro: spesso frutto di riciclaggio della criminalità organizzata e del terrorismo internazionale».

Danilo Taino conclude il suo articolo con la constatazione di «una super élite di ereditieri e donne e uomini d’affari occidentali seduti allo stesso desco di nababbi del petrolio, dittatori africani, emergenti asiatici e sudamericani» (e vari altri sgradevoli commensali). O, un po’ più estesamente, «una “élite globale” che controlla oltre l’80% della ricchezza liquida del pianeta».

La ridda delle cifre (se questi dati non cadranno troppo presto nel dimenticatoio) potrebbe continuare. Chissà se qualcuno proporrà numeri ancora più sconcertanti – o forse meno enormi (benché, con i dati finora disponibili, il fenomeno sia largamente sottovalutato). Comunque un mostruoso fatto è chiaro. Il paradiso di pochi è l’inferno di tutti gli altri.

È stranamente ingenua la domanda che si pongono alcuni economisti. Perché quelle immense quantità di denaro restano inerti invece di essere investite? La risposta è vergognosamente ovvia. Non sono affatto “inerti”.

Continuano a crescere, senza impegno né fatica, a riparo dai rischi e dalla visibilità dell’economia reale. Perché sono “messe a frutto” nei giochi della speculazione selvaggia. Con la complicità dei manipolatori, che sanno bene come arricchirsi offrendo facili profitti nell’oscurità della finanza nascosta – tenendosi anche loro nel circuito privilegiato dell’evasione.

Non occorre neppure che tutto l’immenso imbroglio sia un complotto organizzato. È sufficiente che sia, almeno in parte, una “naturale migrazione” verso campi facilmente fertili e comodamente lontani da occhi indiscreti.

Ciò che occorre è un impegno metodico, ostinato, concreto per esplorare le buie caverne dell’evasione. Non è così difficile come può sembrare.

Le 46 pagine dell’analisi svolta da James Henry per Taxjustice Network sono gremite di dettagli precisi. Basati su dati pubblicamente disponibili che, molto stranamente, nessuno finora aveva analizzato con sufficiente metodo e approfondimento. Ora si tratterà di vedere se gli studi continueranno. Soprattutto se (e come) si agirà praticamente per recuperare il maltolto.

Molti di quei soldi sono il frutto di attività criminali, abusi di potere, furto di denaro pubblico e altre porcherie. Perciò si tratta semplicemente di confiscarli in toto. Altri possono essere, originariamente, legittima proprietà. Ma anche questi, come minimo, dovrebbero essere tassati, con aliquote opportunamente elevate – oltre che, ovviamente, soggetti a pene finanziarie per illegale evasione. Più che di “punire”, si tratta di recuperare risorse.

Lasciamo a chi si intende di fisco e contabilità il compito di calcolare le migliaia di miliardi che si potrebbero restituire all’economia reale, investire in servizi utili, usare per alleggerire il peso esorbitante che grava sui cittadini onesti e per aiutare le troppe persone che soffrono in condizioni disperate o che (anche in paesi “ricchi”) stanno precipitando nella povertà.

Anche la più efficiente e severa pulizia immaginabile lascerebbe i più ricchi in condizioni piacevolmente “paradisiache”. Ma ciò che conta è rendere meno feroce l’inferno in cui si trovano, o rischiano di cadere, tutti gli altri.


Un altro studio di TJN rivela un problema ancora più grave.
Vedi Le dimensioni inesplorate della crescente povertà.



Una piccola stranezza. Nel planisfero di Taxjustice Network non c’è l’Italia.
 
taxjustice
Speriamo che i loro analisti fiscali siano meno distratti dei loro cartografi.



Post scriptum – agosto 2012

 
Poco più di un mese dopo la pubblicazione online di queste mie osservazioni, il 26 agosto 2012 è uscito nel New York Times un articolo di Roberto Saviano Where the Mob Keeps Its Money. Il giorno dopo in italiano, in la Repubblica, con un titolo diverso. Mafie, i padroni della crisi. Perché i boss non fanno crac.

Non mi soffermo sulla balorda e puerile goffaggine del titolista italiano, né su qualche grossolano errore nella frettolosa traduzione. È molto più interessante badare al significato di questo articolo.

Su un fatto, orribilmente importante, Roberto Saviano ha ragione: la criminalità organizzata è protagonista nell’uso di tax havens – e gongola nella “crisi” perché sa come trarre profitto dal gioco demenziale della finanza. Ma ha scritto senza conoscere le analisi di Taxjustice Network – e soprattutto senza capire come e perché il fatto si colloca in una prospettiva molto più ampia.

«È possibile – osserva Saviano – individuare il momento in cui le organizzazioni criminali italiane, russe, balcaniche, giapponesi, africane, indiane [e il narcotraffico nelle Americhe] sono diventate determinanti per la finanza internazionale. Nella seconda metà del 2008 la liquidità era il problema del sistema bancario, paralizzato dalla riluttanza a concedere prestiti. Solo le organizzazioni criminali sembravano avere enormi quantità di denaro contante da investire, da riciclare».

Non era, neppure allora, un fatto nuovo – e non era difficile capirlo. Ma, anche se ci limitiamo al modo in cui le manipolazioni finanziarie si sono evolute negli ultimi quattro anni, è sconcertante che si continui a badare così poco al loro ruolo centrale come causa della “crisi” e origine di deformazioni che continuano a peggiorarla.

La travolgente, orrida simbiosi fra finanza, crimine e corruzione non è un complotto progettato in qualche immaginaria “cabina di regia”, ma una grave patologia contagiosa. Constatare il ruolo, in questi sordidi maneggi, delle mafie di tutto il mondo è solo una tardiva scoperta dell’ovvio.

Comunque non si può rompere il circolo vizioso badando a un solo aspetto del problema. Le collusioni fra demenza finanziaria, criminalità organizzata ed evasione fiscale sono note e pubblicamente documentate da parecchi anni. Ora (grazie anche agli studi di TJN) ne conosciamo le immense dimensioni.

Questa enorme, crescente piovra non è l’unica causa della “crisi globale”. Ma tagliare qualcuno dei suoi tentacoli farebbe sgorgare abbondante denaro, da spendere in sostegno di benessere sociale e sano sviluppo economico.

Le diagnosi, per chi ha voglia di capire, sono chiare. Per le terapie occorre una nitida consapevolezza, su scala mondiale, della politica, della cultura e dell’informazione – di cui si continua a constatare l’ostinata mancanza.



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