di Fulvio Scaparro
(Direttore
scientifico dell’Associazione GeA-Genitori Ancora)
UN PO'
DI STORIA
Quando ho
cominciato a occuparmi di mediazione familiare, tra la fine degli anni Settanta
e i primi anni Ottanta, in Italia,
salvo pochi Autori che hanno avuto il merito di portare a nostra conoscenza
studi ed esperienze prevalentemente nordamericane, c'era poco altro. Esisteva
però, forte e diffusa in un crescente numero di operatori, magistrati,
psicologi, alcuni avvocati e, ovviamente, in tanti genitori separati, la
sensazione di una procedura di separazione oggettivamente bellicosa, capace
com'era di lasciare pesanti e duraturi strascichi di animosità, rancori,
sentimenti di ingiustizia e danni permanenti alle relazioni tra genitori e tra
genitori e figli. Nel 1979, con i giudici minorili Moro e Battistacci, con
il pediatra Nordio, la psicoanalista Renata de Benedetti Gaddini e il
neuropsichiatra infantile Caffo, avevamo fondato l'Associazione Italiana per la
Prevenzione dell'Abuso all'Infanzia. In quella sede, avevo perorato la causa
dell'introduzione di strumenti pacifici nelle cause di separazione tra genitori,
proprio per evitare il crearsi di abusi all'infanzia a causa delle guerre
familiari. Nelle mie intenzioni non c'era alcuna volontà di mettere in
discussione "la sopravvivenza stessa del sistema giuridico" ma di
denunciare le storture di quel sistema, storture alle quali assistevamo ogni
giorno come giudici, avvocati, psicologi e genitori. Quelle storture sono
rimaste. Ce n'è memoria in migliaia di fascicoli processuali, ce n'è
testimonianza nella vita di migliaia di bambini e genitori, ce n'è esperienza
nel nostro lavoro di avvocati, psicologi e magistrati: questo non è allarmismo
ma un doloroso dato di fatto. Ridurre la questione ad uno scontro tra chi vuole
degiurisdizionalizzare del tutto il diritto di famiglia e chi questa prospettiva
rifiuta, non mi convince del tutto, tanto più quando in questo scontro finisce
con l'andar di mezzo la mediazione familiare che gli uni vorrebbero sostitutiva
dell'intervento legale e gli altri vorrebbero modesta ancella del sistema legale
stesso.
La
mediazione familiare, almeno nelle intenzioni di alcuni di noi, non è né
sostitutiva del sistema legale né sua ancella. La mediazione familiare è un
intervento che ottiene migliori risultati quando è il frutto di un’integrazione
tra le competenze del mediatore e quelle dei legali delle parti.
RISCOPRIRE LE
RESPONSABILITA'
Considero
la mediazione uno strumento di pace essenziale per mantenere viva ed efficiente
una democrazia, soprattutto perché fa appello alle componenti adulte e
responsabili delle parti coinvolte. Per quanto riguarda la mediazione in ambito
familiare, occorre premettere alcune considerazioni.
La
sopravvalutazione della famiglia come patria comune, la 'voce del sangue', i
doveri di lealtà familiare, finiscono con il trasformare la famiglia nel luogo
del 'dovere', delle relazioni imposte e burocratizzate, dei ruoli fissi e
immutabili come maschere nel tempo. Molto spesso la parola
'responsabilità' evoca immagini plumbee: sacrifici, rinunce, limitazioni di
libertà e via soffrendo. In realtà, molti padri e molte madri potranno
confermare che la nascita di una figlia o di un figlio li arricchisce, aggiunge
senso alla loro esistenza e consente di immaginare un futuro al di là dei
limiti temporali della loro vita. A proposito di responsabilità, nessuno
ragionevolmente può considerare responsabile di alcunché un neonato: la sua
totale dipendenza dagli adulti gli preclude ogni possibilità di scelta. Quella
medesima totale dipendenza fa sì che una totale responsabilità ricada sugli
adulti dai quali dipende il suo sviluppo fisico e psicologico e, più in
generale, su tutti quegli adulti che con lui stabiliscono relazioni. Nel corso
dello sviluppo il bambino conquista nuove autonomie, riduce la dipendenza
iniziale, altre dipendenze si creano, si riducono e scompaiono, sempre più
sarà un individuo che sceglie, che è responsabile, che sul bisogno d'amore
cercherà di innestare una scelta d'amore.
La
famiglia è dunque anche questo: un luogo in cui apprendere a convivere con il
conflitto, con le differenze, dove imparare che la fertilità - quanto cioè di
più vicino alla felicità l'essere umano possa conquistare in questo mondo - è
possibile nella relazione tra diversi, che l'identità si conquista con il
confronto e anche con l'opposizione, che non c'è nulla da temere nel
riconoscersi differenti.
RAFFORZARE LA
COMPONENTE ADULTA
La
mia esperienza di lavoro con genitori in guerra mi ha insegnato che
responsabilità, democrazia, accettazione del diverso, diventano 'belle parole'
quando la vita ci mette alle strette. E un'idea, cantava Gaber anni fa,
"finché resta un'idea, è soltanto un'idea, una semplice astrazione"
che rende ancora più frustrante la nostra impotenza a uscire dal vicolo cieco
della prova di forza.
L'EMERGENZA
FAMILIARE
Vediamo,
in estrema sintesi, come la mediazione familiare può essere utilizzata
efficacemente, valorizzando le componenti adulte dei genitori, nelle separazioni
altamente conflittuali (cioè in presenza di interruzione del dialogo tra
genitori e quando ogni altra forma di comunicazione è, di fatto, veicolo di
ostilità).
1. La famiglia 'intatta'
Semplificando
al massimo una situazione complessa come quella familiare proviamo a isolare
un'ipotetica 'famiglia intatta', un'unità di affetti e di interessi economici
che si riconosca come tale e condivida dunque un comune progetto di sviluppo.
Una famiglia intatta è normalmente conflittuale essendo composta da diversi
(per sesso, età, esperienze di vita, cultura, sogni, desideri). Non mancano
tensioni e bisticci, ma non manca nemmeno la ricerca del recupero e del
mantenimento di un flusso equilibrato di relazioni tra i diversi componenti del
gruppo familiare.
2. La famiglia 'spezzata'
Quando le
relazioni tra padre e madre si guastano al punto da non riconoscersi più in un
progetto familiare comune, il conflitto tende a irrigidirsi
e a trasformarsi in guerra (vittoria o sconfitta, amico o nemico, mors
tua vita mea). Il forte squilibrio conseguente all'interruzione di relazioni
costruttive e normalmente conflittuali tra padre e madre pone un indebito
sovraccarico sui figli.
3. La mediazione familiare come
intervento di emergenza
Qui può
intervenire la mediazione familiare, che si presenta come intervento di
emergenza tanto più efficace
quanto più è tempestivo oltre che, com'è ovvio, messo in atto da operatori
competenti. Nella formazione dei mediatori familiari, faccio spesso riferimento
alla mia esperienza nel campo della protezione civile. Si immagini, ad esempio,
la piena di un fiume che ha travolto un ponte interrompendo le comunicazioni tra
le due sponde e creando gravissime difficoltà ad un'ampia area densamente
popolata. Sappiamo bene che l'uomo ha spesso pesanti responsabilità nei
disastri naturali: in questo caso possiamo ipotizzare che l'incuria per
l'ambiente naturale, lo sfruttamento dissennato delle rive del fiume, il
disboscamento delle montagne e tanto altro ancora (fino ai difetti di
progettazione e costruzione del ponte) siano all'origine del disastro. Tutto
questo dovrà essere certamente affrontato al più presto senza guardare in
faccia a nessuno ma, nell'immediato, si impone un intervento di emergenza per
ridurre gli effetti del disastro. Un buon servizio di protezione civile
interverrà con la massima tempestività per ristabilire le comunicazioni
interrotte (poniamo, con un ponte di barche), soccorrere le popolazioni colpite
e metterle al più presto in condizioni psicologiche ed economiche tali da
essere protagoniste della ricostruzione . Non è suo compito indagare sulle
cause e sulle responsabilità civili e penali del disastro, perseguire e punire
i colpevoli, curare le vittime al di là del pronto soccorso o degli interventi
di emergenza. E' quello che si propone un intervento di mediazione
familiare: creare un ponte provvisorio tra madre e padre e attivare le loro
risorse per ricostruire su basi solide e durature le loro relazioni
post-separazione alleggerendo in tal modo il sovraccarico che grava sui figli
per la guerra tra genitori.
La
mediazione familiare è un intervento limitato nel tempo di straordinaria
importanza come lo sono gli interventi di protezione civile. Tende a trasformare
il vissuto di fine-del-mondo spesso presente nei protagonisti di una separazione
bellicosa in vissuto di fine-di-un-mondo, apre cioè prospettive costruttive per
il post-separazione, riattiva risorse individuali e comuni a entrambi i genitori
e rimette in moto processi vitali che rischiano di spegnersi nella logica di
muro contro muro. I figli non hanno bisogno di un genitore vittorioso e di uno
sconfitto, ma - salvo eccezionali casi di indegnità o di forza maggiore - di
entrambi i genitori che continuano ad essere corresponsabili dei loro figli
anche dopo la cessazione della relazione coniugale.
COSA NON E' LA
MEDIAZIONE FAMILIARE
Partiamo
da una delle definizioni correnti di mediazione familiare:
“La
Mediazione Familiare (MF) è un percorso per la riorganizzazione
delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al
divorzio: il mediatore familiare, sollecitato dalle parti, nella garanzia del
segreto professionale e in autonomia dall' ambito giudiziario, si adopera
affinché i partner elaborino in prima persona un programma di separazione
soddisfacente per sè e per i figli, in cui possano esercitare la comune
responsabilità genitoriale.”
E’ mia
opinione che questa definizione debba essere integrata con l’aggiunta di
questa precisazione:
“Il
mediatore ha l’obiettivo di promuovere e facilitare l’autonoma negoziazione
tra le parti per agevolare il raggiungimento di accordi condivisi e durevoli. I
genitori potranno così sperimentare un metodo di composizione dei conflitti che
potrà essere riutilizzato nel futuro”.
Ritengo
opportuno che la mediazione familiare mantenga la sua caratteristica di
intervento di emergenza e non venga confusa con altri interventi pur
apprezzabili ma con premesse e obiettivi ben diversi. In particolare, la
mediazione familiare:
-
non è psicoterapia, anche se un buon intervento
di mediazione familiare può avere effetti terapeutici, come di solito avviene
quando si riceve un aiuto efficace nei momenti di grave crisi.
-
non è 'soluzione' di conflitti . Malgrado una
diffusa opinione, la mediazione familiare non è un mezzo per 'risolvere' i
conflitti né per stabilire chi ha ragione. Essa punta invece a mettere le
parti in condizione di uscire da situazioni di impasse che le vede bloccate in
stallo, ad evitare o ridurre gli effetti di un conflitto distruttivo
-
è indipendente dal sistema giudiziario. In
particolare, anticipo qui il mio dissenso sulle
proposte di 'mediazione coatta', cioè imposta dal giudice ai genitori:
perché se una mediazione vuole davvero condurre a una reale assunzione di
responsabilità, non potrà non svolgersi all'insegna del massimo rispetto
della libertà propria e altrui. Benché contrario alla 'mediazione coatta',
sono invece molto favorevole a prevedere per legge la possibilità di usare
questo strumento di pace, la definizione del profilo professionale del
mediatore familiare e gli standard minimi della sua formazione. Almeno finché
la materia della separazione e del divorzio sarà di loro competenza, mi
auguro che i magistrati esigano una buona volta che sul loro tavolo arrivino
proposte per il periodo post-separazione elaborate in comune dai genitori.
-
non è un arbitrato ma, soprattutto, non è
consulenza legale, finanziaria, psicopedagogica o comunque 'tecnica'. Il
mediatore non è un consulente al quale rivolgere domande per ottenere
risposte sui problemi che affliggono e/o dividono i genitori. Il mediatore è
invece un facilitatore, un animatore (o rianimatore) della comunicazione tra
le parti. I problemi posti sul tappeto dai contendenti possono essere di varia
natura, e di solito aspetti affettivi, legali e finanziari sono intrecciati.
Il mediatore darà il suo contributo, aiutando le parti a lavorare
attorno a uno o più di questi problemi, ma non si sostituirà in alcun
modo ad avvocati, giudici, medici, consulenti finanziari, psicologi e
psicoterapeuti.
Non
è facile fare il mediatore familiare. Un buon mediatore familiare si adopererà
quindi per mantenere adulti e
responsabili i genitori in ogni fase della mediazione. Il mediatore familiare
dovrà dunque richiedere a se stesso e ai genitori con cui lavora la massima
autonomia e indipendenza perché gli accordi presi in mediazione familiare in
una materia tanto delicata come un progetto di ridefinizione delle relazioni
familiare post-separazione non può che essere il frutto di una libera e
consapevole scelta, senza vinti né vincitori, senza sopraffazioni né
umiliazioni. Appare evidente da quanto ho detto quanto sia importante la
formazione del mediatore familiare, impegnato com'è in un'area di conoscenze
che la letteratura anglosassone definisce crisis intervention. Il mediatore
familiare dovrebbe essere consapevole della propria vulnerabilità emotiva
affinché possa riconoscere, accettare e affrontare eventuali difficoltà
psicologiche personali in una materia tanto coinvolgente come una crisi
familiare. Si tratta del momento più difficile del percorso formativo. In
questa fase, imparare significa per gli operatori non solo acquisire nuove
cognizioni, ma anche mettere in gioco ruoli e identità professionali, relazioni
organizzative, atteggiamenti e sistemi culturali. La conoscenza degli agenti
stressogeni presenti nel lavoro di mediazione familiare e la capacità di
identificare le conseguenze dello stress, fornisce al mediatore familiare gli
strumenti per scoprire e controllare atteggiamenti personali e sociali non
adattivi. La percezione dello stress subìto amplifica il grado di
consapevolezza acquisibile intorno al modo di essere nel lavoro.
Porre attenzione ai risvolti psicologici dell'agire proprio e altrui
diviene un'occasione di riflessione e confronto con se stessi, un fare dentro di
sé che precede qualunque fare nella realtà esterna.
DIALOGO
(IMMAGINARIO) CON IL LEGISLATORE
Quanto
sopra esposto spiega, forse, perché io e Irene Bernardini, che con me ha
fondato l'Associazione GeA, siamo così critici nei confronti di chi propone la
mediazione familiare obbligatoria e collocata all’interno dei tribunali
Scorrendo queste proposte mi è tornata in mente l'ingiunzione paradossale:
"Siate felici! E' un ordine!" nota ai conoscitori della scuola di Palo
Alto o, più modestamente, del Bonvi di Sturmtruppen. Solo che qui l'ordine
impartito ai genitori è di "andare d'accordo". Con tanti saluti alla
mediazione familiare che finirà per diventare obbligatoria con relative
sanzioni per gli inadempienti e rischi facilmente prevedibili:
-
l'obiettivo, ovviamente condivisibile, di
tutelare i minori vittime dell'alta conflittualità tra genitori in
separazione e di garantire loro un maggiore equilibrio tra le figure
genitoriali, viene perseguito in maniera sostanzialmente coercitiva, intrusiva
e autoritaria. Senza che si mettano in atto parallelamente efficaci azioni
positive in termini di politiche sociali e culturali per le famiglie,
finalizzate a sensibilizzare e costruire dal basso una consapevolezza tra i
cittadini, la cultura della cogenitorialità e della responsabilità nei
confronti dei figli, ogni atto legislativo che intimi
di seguire la via della condivisione ai genitori in conflitto rischia
di generare ulteriori contrasti a danno dei figli e degli stessi
genitori
-
aumenta così il rischio della burocratizzazione
delle relazioni affettive, della ulteriore deresponsabilizzazione,
infantilizzazione, passivizzazione e patologizzazione degli adulti, messi
sotto la tutela di una pletora di giudici, avvocati, assistenti sociali,
psicologi, pedagogisti e sedicenti mediatori, da cui i genitori dovrebbero
passare e ripassare per confezionare il loro affidamento congiunto
obbligatorio. Esattamente il contrario di quello che serve a un bambino: poter
contare su genitori autonomi e responsabili. Esattamente il contrario di
quanto una buona mediazione dovrebbe cercare di ottenere
-
chiunque abbia un minimo di esperienza di
mediazione familiare sa che il problema non sono tanto gli accordi o i
provvedimenti, ma l'effettiva esecuzione e la durata nel tempo delle misure
prese e prescritte. Per questo occorrerebbe consenso e un margine di intesa
reale e autentica tra le parti. E' esperienza comune che un affidamento
congiunto imposto e subìto, si traduce in uno stillicidio quotidiano di
microconflittualità, nella paralisi decisionale o nel trionfo della legge del
più forte tra i genitori
-
l'invio d'ufficio della coppia genitoriale in
conflitto a servizi variamente
denominati al fine di costruire l'affidamento congiunto è il passaggio più
ambiguo e gravido di pericolosi equivoci. L'obbligatorietà del percorso
prescritto, l'obbligatorietà per gli operatori di relazionarne al giudice
l'esito, in un caso addirittura la collocazione dell'équipe presso il
Tribunale o il Giudice Tutelare, priva questo passaggio di ogni seria
potenzialità di elaborazione del conflitto.
-
Continuo a pensare che il processo decisionale
dovrebbe vedere protagonisti, dunque responsabili, i due genitori che, se
opportuno, dovrebbero essere aiutati a dialogare da un mediatore competente il
cui intervento integra e facilita il compito degli avvocati e dei magistrati.
Il mediatore assicura ai due genitori uno spazio di dialogo, la sua competenza
nel facilitare il dialogo stesso, si astiene dall'entrare nel merito dei temi
in discussione, mantiene un'assoluta riservatezza nei confronti di chiunque su
quanto avviene in mediazione, ma è interesse dei genitori stessi che quanto
da loro liberamente deciso in mediazione non sia privato delle garanzie che
solo il sistema legale, attraverso i loro avvocati e il magistrato, può
assicurare com'è noto, alcune proposte sulla mediazione familiare sono
ispirate e sostenute dalle associazioni di padri separati. Ad alcune di queste
associazioni va riconosciuto il merito di aver fatto di tutto per recuperare
valore e legittimazione al ruolo paterno e aver contrastato efficacemente
alcuni pregiudizi anti-paterni correnti nelle aule giudiziarie. Personalmente
ho fatto del suo meglio per sostenere i padri in questa giusta battaglia. Va
però detto che si corre il rischio, non voluto dalle migliori di queste
associazioni, di introdurre un punto di vista troppo maschile, nel senso
deteriore del termine, quando si invoca l'intervento della legge, dei giudici,
dei servizi sociali e degli psicologi per riparare un danno che ha ben più
profonde radici nel costume e nelle trasformazioni della famiglia. Non si
rischia così facendo di dare vita a nuove lobbies, poniamo quella - che
sarebbe potentissima - delle 'madri separate', finendo così con il
trasformare un conflitto potenzialmente fertile in una guerra di potere tra i
sessi, con conseguenze deleterie per gli interessi dei figli e degli stessi
genitori?
Quando
la rappresentanza degli interessi del bambino è sottratta a sua madre e a suo
padre insieme e assunta così massicciamente dalle istituzioni quel bambino
rischia di avere idealmente dalla sua parte giudici, avvocati, magari un
curatore speciale, assistenti sociali, psicologi, pedagogisti, forze
dell'ordine, ma di aver perso ciò che più conta: l'autonomia e l'autorevolezza
dei suoi genitori. La mia esperienza di mediatore familiare, di componente
privato della Corte d'Appello, Sezione Minori e Famiglia, di giudice onorario
del tribunale per i Minorenni e di consulente tecnico di ufficio del Tribunale,
mi insegna che più il conflitto tra genitori si espone alla valutazione esterna
e istituzionale, anche se il giudizio si maschera da relazione d'aiuto, più
esso si radicalizza e si avvelena, e più la percezione dei figli come bene
comune, impallidisce e si dilegua.
DUE
DOMANDE
-
L’attuale istituto dell'affidamento -
effettivamente inadeguato, almeno nella sua applicazione - riposa sul concetto
di potestà parentale e di esercizio esclusivo o congiunto della stessa:
perché non spostare l'attenzione dall'idea di potestà-potere-possesso al
concetto di comune responsabilità genitoriale, meglio definita nei diritti e
nei doveri che comporta?
-
E' possibile introdurre nella procedura dei
dispositivi che incentivino e premino la ricerca e il rispetto da parte dei
genitori di accordi equilibrati e condivisi, rinunciando all'automatismo e
alla coattività, attivando nel contempo, a livello di politiche sociali e
culturali, interventi a sostegno della genitorialità e della responsabilità
di cura?
Terza
domanda su Re Salomone e l'udienza presidenziale
Non è il
caso che tutti noi, magistrati, avvocati, cittadini, riflettiamo sulle
opportunità che potrebbe offrire un'udienza presidenziale ben condotta? Io
credo che un giudice autorevole ed esperto potrebbe riempire di contenuti e
prospettive pacifiche e costruttive il rito della comparizione presidenziale. Un
tale giudice è ancora ascoltato con attenzione e rispetto e potrebbe
prospettare ai genitori e ai loro avvocati i vantaggi derivanti dal far
pervenire sul suo tavolo, prima che si avvii il procedimento davanti al giudice
istruttore, una proposta di regolamentazione delle relazioni post-separazione
elaborata in comune da padre e madre. Questo, ovviamente, è ben altra cosa
rispetto al rituale invito alla conciliazione, punta alla responsabilizzazione
dei genitori e avrebbe come ulteriore effetto un alleggerimento del carico
emotivo che grava su magistrati e avvocati quando si decide in maniera
superficiale e affrettata del destino di figli e genitori. All'inizio degli anni
Ottanta, avevo promosso un incontro tra magistrati, avvocati e psicologi sul
tema 'La difficile convivenza: cultura giuridica e cultura psicologica a
confronto in tema di tutela dell'infanzia e della famiglia in crisi'. In
quell'occasione avevo rammentato il noto passo dell'Antico Testamento (I Re,
Cap. 3, 16-27) che poi ho ripreso più di recente in un libro dedicato a padri e
madri:
"Un
giorno andarono dal re due prostitute e si presentarono innanzi a lui. Una delle
due disse: "Ascoltami signore! Io e questa donna abitiamo nella stessa
casa; io ho partorito mentre essa sola era in casa. Tre giorni dopo il mio
parto, anche questa donna ha partorito; noi stiamo insieme e non c'è nessun
estraneo in casa fuori di noi due. Il figlio di questa donna è morto durante la
notte, perché essa gli si era coricata sopra. Essa si è alzata nel cuore della
notte, ha preso il mio figlio dal mio fianco - la tua schiava dormiva - e se lo
è messo in seno e sul mio seno ha messo il figlio morto. Al mattino, mi sono
alzata per allattare mio figlio, ma ecco, era morto. Lo ho osservato bene; ecco,
non era il figlio che avevo partorito io". L'altra donna disse: "Non
è vero! Mio figlio è quello vivo, il tuo è quello morto". E quella al
contrario diceva: "Non è vero! Quello morto è tuo figlio, il mio è
quello vivo". Allora il re ordinò: "Prendetemi una spada!".
Portarono una spada alla presenza del re. Quindi il re aggiunse: "Tagliate
in due il figlio vivo e datene una metà all'una e una metà all'altra". La
madre del bambino si rivolse al re, poiché le sue viscere erano commosse per
suo figlio e disse: "Signore, date a lei il bambino vivo; non
uccidetelo!". L'altra disse: "Non è né mio né tuo; dividetelo in
due!". Presa la parola il re disse: "Date alla prima il bambino vivo;
non uccidetelo. Quella è sua madre".
In
Salomone c'è dunque una saggezza che fa apparire improprio l'uso dell'aggettivo
'salomonico' per indicare, come reca un dizionario della lingua italiana, il
giudizio "che pone fine a una disputa dividendo esattamente a metà il
danno o il vantaggio che ne deriva, con imparzialità". In realtà,
Salomone ha soltanto minacciato di porre fine alla disputa in quel modo. Ha reso
giustizia con il paradosso, minacciando di adottare una soluzione assurda.
Vorrei che il giudice dell'udienza presidenziale evitasse di essere il Salomone
del dizionario che non smuove le coscienze ma minaccia di dividere esattamente a
metà, lavandosi le mani delle ragioni dei contendenti. Vorrei che il giudice
dell'udienza presidenziale, avesse invece in mente il Salomone dell'Antico
Testamento che mostra la spada perché nella contrapposizione rigida qualcosa si
muova e la contesa si manifesti in forma diversa da quella che non permette al
saggio re di capire e dunque di decidere a ragion veduta. L'assurdità di una
soluzione fifity fifty o, comunque di un ingiusto compromesso, è tale che solo
chi è accecato dal proprio interesse, dall'ira, dal rancore, dalla vendetta,
può accettarla. Salomone lo sa e aspetta. La sua è una giustizia che viene
resa in presenza di tutte le parti coinvolte, neonato compreso; si potrebbe
obiettare che questo è un modo primordiale, rozzo, furbesco, bertoldesco di
fare giustizia. Ma se i sacri testi, le fiabe, i miti, le leggende fossero da
prendere alla lettera, non sarebbero ancora vivi oggi. La Giustizia è
tradizionalmente rappresentata con la spada nella mano destra e la bilancia
nella sinistra. Almeno quando è in questione il destino della famiglia e dei
figli, sarebbe bene che la mano destra della Giustizia restasse a riposo.
Ricordava Franco Fornari che 'prendere una decisione' significa sempre
de-caedere, tagliare, scegliere una cosa e non un'altra. Quest'ultima è in
qualche modo perduta e dunque ogni scelta comporta anche una perdita, un lutto.
Per di più, la scelta diventa particolarmente luttuosa quando è impossibile
prevedere cosa avverrà in base alla decisione presa. L'incertezza sull'esito
delle proprie decisioni provoca angoscia.
In tema
di separazione e divorzio, le previsioni circa le conseguenze di una decisione e
quindi la funzione di ridurre l'ansia decisionale, sono spesso un compito che il
giudice attribuisce al perito, al consulente, al giudice onorario del Tribunale
per i Minorenni o al componente privato del Tribunale ordinario. Spesso questi
specialisti non si sottraggono al gravoso onere di fungere da aruspici, mentre
meglio farebbero se aiutassero il magistrato a comprendere i fatti oggetto del
giudizio, a usare la bilancia e non la spada. Anch'essi tentano di sfuggire
all'ansia decisionale ricorrendo alla rassicurazione dei propri riferimenti
teorici preferiti, all' 'oggettività' dei test o al conformismo di ciò 'che è
pacifico, assodato', come quando forniscono una veste 'scientifica' ai più
vieti stereotipi e pregiudizi della comune opinione in materia di relazioni
familiari e di 'interesse' del bambino. Altrettanto dicasi per l'ansia
decisionale, più che motivata, presente nei genitori in via di separazione.
Anche in questo caso esiste il rischio concreto, aggravato dalle conseguenze del
fallimento del progetto coniugale e dall'iter legale della separazione, che
altri decidano al posto dei genitori oppure che prevalga la logica della
vittoria dell'uno sull'altro.
Milano,
1999
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