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il paradosso dei contenuti (1): tre modelli

alberto berretti

Vi è un aspetto paradossale quando si parla di "contenuti" in rete. Innanzitutto il solo fatto che se ne parli con tanta frequenza da circa un anno a questa parte nasconde una imbarazzante realtà: se è da così poco che si parla di contenuti per internet, fino ad oggi che cosa si è messo in rete? Ma a parte una facile ironia, veniamo al dunque:

(1) nessuno vuole pagare per l'accesso ai contenuti via internet;
(2) senza contenuti nessuno è interessato ad accedere ad internet, e quindi internet medesima si esaurirebbe subito;
(3) i contenuti di buon livello, tali da motivare l'utenza domestica ad accorrere verso internet ed il mondo web in massa, sono molto costosi.

Questo paradosso e l'assenza, a quasi dieci anni dal boom di internet come fenomeno di massa, di un modo di far soldi chiaro, diretto ed esplicito, è la causa di una buona parte della cosiddetta "crisi della new economy". Tra gli esempi, impietosamente pubblicizzati dalla stampa finanziaria mondiale, possiamo citare alcuni casi celebri, come quello di Pop.com, una società dietro cui stavano grossi calibri come la DreamWorks di Stephen Spielberg e David Geffen, che non ha nemmeno lanciato il sito a causa del costo eccessivo di contenuti di buon livello (del loro livello) rispetto alle prospettive dei ricavi. Va da sé che ben poca offerta di contenuti avranno gli utenti se chi li fornisce - via internet o per qualsiasi altra via, anche telepatica - non ha modo per pagarli, e guadagnarci un margine.

Tre modelli: l'autostrada, la televisione e il libro

In genere i meccanismi grazie ai quali qualche guadagno può essere realizzato sono di tre tipi. Si tenga conto che si tratta di una ovvia semplificazione della realtà, che inevitabilmente è piú complessa e ricca di sfumature: ma le semplificazioni della realtà, se prese per quello che sono e nulla di piú, hanno spesso un grande valore euristico.

Il primo, che chiameremo il modello autostradale, consiste nella partnership con i fornitori di accesso alla rete: i contenuti attraggono utenti, che pagano per entrare in internet (direttamente, mediante abbonamento, o indirettamente, tramite la bolletta del telefono), ed il fornitore d'accesso paga - dovrebbe pagare? - chi produce e realizza i contenuti per il maggior traffico di utenti che questi aiuta a creare. Quando si dice che "internet è gratis", che su internet si trova "tutto gratis", in realtà si intende che il modello autostradale è al lavoro, e si paga tutto sulla bolletta del telefono.

Il secondo meccanismo è il modello televisivo: i contenuti, di nuovo, attraggono utenti, che vengono esposti a pubblicità e promozioni di vario tipo: tipicamente si sottopone l'utente ad un bombardamento di "banner" nelle pagine web, ovvero immagini pubblicitarie, spesso fastidiosamente intermittenti o animate allo scopo di attrarre l'attenzione di un utente che le detesta e che tipicamente evita persino di guardarle. Chi realizza contenuti si fa pagare dagli inserzionisti sulla base di quanti utenti è stato capace di attrarre - da cui la necessità di misurare gli accessi al proprio sito e di certificare il dato.

Infine il terzo meccanismo è il modello editoriale: si paga per accedere ai contenuti in quanto tali, ad es. mediante un abbonamento o il pagamento diretto di piccole somme (ad es. con carta di credito), esattamente come si paga per comprare un giornale o un libro.

Oggi sono diffusi tutti e tre i modelli, in modi ed in ambiti demografici molto diversi. Tipicamente, i tre modelli sono grosso modo in ordine crescente di qualità dei contenuti: i contenuti gratuiti, di basso costo (e basso valore), e senza troppa pubblicità possono veicolare grandi masse di utenza e quindi far pagare, nell'insieme, sostanziose tariffe telefoniche. Quando invece una certa fonte di contenuti diventa lo strumento di lavoro di una professione (ad es. il Wall Street Journal on line per chi si occupa di affari, o l'archivio dell'American Mathematical Society per un matematico) il modello editoriale è al lavoro, ed i contenuti si pagano - talvolta anche grosse somme.

La diffusione esclusivamente in ambiti limitati e specialistici del modello editoriale è con tutta probabilità un indice di immaturità di internet. Gli altri due modelli, infatti, sono in un certo senso "facili" da realizzare, ma si basano su metafore mutuate da altri mezzi di comunicazione, e quindi lasciano il tempo che trovano, o sono addirittura sostanzialmente fuorvianti come la metafora televisiva.

È evidente che il "modello autostradale" funziona bene quando il problema è far crescere l'utenza. Gli utenti, infatti, pagano già una bolletta telefonica e nascondere là dentro i costi d'accesso ai contenuti è un buon modo per farli sembrare gratuiti: i margini degli operatori telefonici sono in genere sufficientemente elevati che è possibile eroderne una parte per pagarli. Grazie al modello autostradale anche gli esitanti sono saliti in carrozza ed hanno stipulato il loro bravo abbonamento "gratuito" ad internet, magari solo per provare due o tre volte, o per un paio di collegamenti sporadici al mese. L'utente è stato bombardato da cd-rom contenenti kit di abbonamento allegati a riviste, quotidiani, videocassette, che ben presto sono diventati eleganti sottobicchieri hi-tech.

Ma il giochetto funziona fino ad un certo punto: gli utenti capiscono che gli abbonamenti "gratuiti" alla rete si traducono in bollette telefoniche salate e chi fa un uso maturo ed evoluto della rete cerca presto altre soluzioni, magari basate su forme di abbonamento con tariffa indipendente dall'uso (le famose flat rate). I fornitori di contenuti vengono penalizzati dall'essere sostanzialmente le cenerentole della situazione, a rimorchio degli operatori telefonici che fanno la parte del leone, con la crescente consapevolezza di essere in realtà coloro che rendono interessante la rete agli utenti. In assenza di contenuti di buon livello, si assiste ad una crisi: "internet è una schifezza", pensa l'utente mediamente acculturato, e l'intellettuale opinionista lo scrive sul giornale. Gli unici a guadagnarci sono, al solito, gli operatori telefonici, e questo a lungo andare nuoce allo sviluppo della rete. Per una critica del modello televisivo

Non è che le cose vadano meglio con il "modello televisivo". Internet non è la televisione, anzi nemmeno gli assomiglia - ci ritorneremo in un'altra occasione -. Ne dovrebbe seguire in modo abbastanza automatico che non è pensando ad internet, ad un sito web, o quant'altro come ad una specie di supersistema televisivo da centomila canali che si possa costruire qualcosa che funzioni. Ma analizziamo con maggior cura le disavventure della pubblicità in rete.

Innanzitutto i fatti, nudi e crudi: secondo i dati di una inchiesta di Astra-Intermatrix commissionata dall'UPA (Unione Pubblicitaria Italiana) e presentata il 2 marzo 2001, gli investimenti pubblicitari in Italia nel 2000 sono arrivati ad oltre 18 mila miliardi di lire in totale, di cui oltre 8500 miliardi spesi in pubblicità televisiva, oltre 5.800 in pubblicità sulla stampa, oltre 1.300 in pubblicità esterna (cartellonistica etc.), quasi 1.000 in pubblicità radiofonica ed oltre 100 miliardi in pubblicità cinematografica (gli spot che vi fanno vedere al cinema prima dell'inizio del film). L'aumento del totale rispetto al 1999 è stato consistente, e cioè del 12,7 percento, mentre l'aumento previsto nel 2001 sarà del 6,7 per cento: c'è un assestamento, ma il settore continua a crescere. E la pubblicità via internet a che punto sta? E' passata dal 1999 al 2000 da 48 a 141 miliardi, che è pure un aumento consistente (circa il 300 per cento) ma si tratta di cifre ridicole rispetto anche solo alla pubblicità cinematografica o radiofonica (non parliamo poi di quella televisiva!). Non solo: ma la maggior parte (la metà? difficile dirlo...) di questa cifra è una partita di giro, e cioè la pubblicità del "Corriere della Repubblica" sul portale del gruppo editoriale padre o viceversa. Siamo comunque allo 0,8 per cento della spesa pubblicitaria complessiva, pur prendendo per reale la cifra di 141 miliardi, ben al di sotto anche della "insignificante" pubblicità cinematografica di cui molti di noi si sono anche dimenticati l'esistenza.

Questi sono i fatti. Poi c'è la teoria: internet è un buon mezzo per la comunicazione pubblicitaria? Non è una domanda a cui è facile dare una risposta, ma se per "comunicazione pubblicitaria" si intende qualcosa di simile alla televisione, oppure l'attuale, frequente incarnazione della pubblicità on line sotto la forma di "banner", la mitica striscetta lampeggiante che appare all'inizio delle pagine web proponendoci acquisti sensazionali cliccandoci sopra, allora la risposta è relativamente facile: no.

Ci sono innanzitutto i dati nudi e crudi, di nuovo. Stavolta è piú difficile averli, ma da indagini statistiche a campione condotte tra utenti internet in Italia (e sul significato di tali indagini a campione torneremo piú avanti) il cosiddetto "click-through rate", e cioè la percentuale di utenti che "cliccano" sul banner recependo quindi il messaggio pubblicitario rispetto alla totalità di coloro che lo hanno visto, si esprime con percentuali omeopatiche: spesso dell'ordine dell'1 per mille, possono arrivare nei casi fortunati all'1 per cento o forse al 2 per cento. Resta ovviamente la perplessità sul significato di statistiche su eventi cosí improbabili, ma il dato di fondo è chiaro: sono eventi improbabili, ovvero quasi nessuno clicca sui banner.

Una possibile obiezione è che in fondo non è importante che il banner venga cliccato: basta che l'utente sia stato "esposto" al "messaggio", e dopo aver visto il banner di un dentifricio, o di un detersivo, quando si recherà al supermercato per fare la spesa costui sarà portato a comprare la marca pubblicizzata con maggiore probabilità. Risposta n. 1: alzi la mano chi ci crede (allora, contiamo le mani...). Risposta n. 2, un po' piú articolata: in realtà gli utenti nemmeno guardano i banner pubblicitari. Ovviamente è difficile dimostrare questa affermazione con statistiche quantitative, ma si può tenere conto di almeno un paio di fatti. Il primo: esistono alcuni browser web "indipendenti", cioè non prodotti dalle "major" del software (Microsoft e Netscape) che permettono di filtrare i banner pubblicitari, ovvero di cancellare la pubblicità dalle pagine web che un utente visita: non sono prodotti usatissimi, ma il fatto che qualche programmatore si sia messo a scrivere software del genere, anzi il solo fatto che sia possibile scriverlo, denota la debolezza dell'idea di utilizzare i banner come veicolo di comunicazione pubblicitaria. Infine, sono stati fatti degli studi su come gli utenti interagiscono con le pagine web: cosa guardano prima, su cosa l'occhio si posa con maggiore frequenza, ecc.; per quanto la validità di questi test ovviamente lascia il tempo che trova (l'utente tipicamente deve avere la testa imbracata in un attrezzo che misura la posizione della pupilla rispetto allo schermo, o altre amenità simili) la risposta sembra essere univoca: gli utenti aborriscono le decorazioni grafiche inutili allo scopo per cui visitano una certa pagina web, in primis i banner pubblicitari.

Tipicamente l'adozione del modello televisivo come modello di riferimento per l'utilizzo di internet negli affari porta con sé la necessità di un meccanismo di valutazione e di certificazione indipendente dell'"audience" di un sito, analogamente a quanto viene fatto per la televisione con l'Auditel: si parla di "Audiweb", fioriscono società che tramite "panel", ovvero tramite un campione limitato di utenti, ripartiscono le fette della (relativamente piccola) torta degli utenti internet. Il numero che viene sbandierato in genere è il cosiddetto reach, definito come la percentuale degli "utenti internet italiani" che nell'arco di un mese hanno visitato almeno una volta il sito in questione. Non abbiamo paura di affermare che per quanto riguarda l'Audiweb si tratta di tentativi destinati a fallire, e in generale si tratta per lo piú di numeri di ben scarso significato statistico.

Il concetto fondamentale, di nuovo, è che internet non è la televisione. Nel caso della televisione abbiamo un numero limitato di canali (otto appartenenti ai maggiori network nazionali piú qualche altro canale diffuso in parecchie zone del territorio italiano) ed una vastissima popolazione di utenti della TV, di cui sono ben note la consistenza numerica e le caratteristiche demografiche: è pertanto assai facile selezionare un campione di utenti che sia significativo e rispettoso della composizione demografica dell'utenza televisiva italiana. Nel caso di internet invece abbiamo un numero vastissimo di siti da monitorare, con una popolazione di utenti internet di cui né la consistenza numerica precisa né tanto meno la composizione demografica è ben nota: un campione di qualche migliaio di persone pertanto genera dati completamente privi di significato statistico, se non forse per i dati relativi ai maggiori portali (i primi cinque o sei), per i quali, forse, hanno qualche senso.

Ma il problema del valore statistico di questi dati è minore rispetto ad un problema di sostanza: è importante per un sito, da qualsiasi punto di vista, anche da quello pubblicitario, avere un reach elevato? Sorvoliamo sui casi limite, come la pagina web che viene visitata automaticamente da Microsoft Internet Explorer ogni volta che il programma viene lanciato per verificare se ci sono aggiornamenti software da scaricare, e che ovviamente è tra le piú visitate della rete anche se praticamente nessuno se ne accorge. Sorvoliamo anche sul fatto che i fatidici CDROM per "installare internet" che troviamo dappertutto tipicamente personalizzano il browser utilizzando il portale del provider come home page, aumentando cosí artificialmente il reach di detti portali indipendentemente dall'effettivo gradimento da parte degli utenti. Proviamo a ragionare diversamente. State visitando un portale generico di un grande provider perché vi serve il motore di ricerca o perché dovete cercare un numero di telefono, guardate o no i banner pubblicitari? li cliccate? nemmeno per sogno, vi interessa il numero di telefono, la cosa da cercare, non la pubblicità generica inserita nel portale. Ora state invece visitando un sito che è vicino ai vostri interessi: ad es. siete fanatici per il computer Macintosh della Apple e state visitando siti come macfixit.com o macintouch.com, ricchi di informazioni sulle ultime novità di casa Apple; nelle pagine c'è il banner che pubblicizza un software o una periferica per Macintosh: vi interessa, l'occhio ci si ferma sopra, forse cliccate, magari solo per sapere di cosa si tratta. Ora, il reach di siti di quest'ultimo tipo è stellarmente inferiore ai megaportali, ma la pubblicità mirata in essi ha infinitamente piú valore della pubblicità sparata alla cieca nel sito "generalista".

È quindi possibile utilizzare internet come strumento di comunicazione pubblicitaria: basta utilizzarla, umilmente, come se fosse internet e non l'ennesimo canale televisivo. Non insistiamo oltre su questo tema, in quanto ci porterebbe fuori dal seminato, e rimandiamo il lettore interessato ad es. al sito di G. Livraghi (http://gandalf.it/).

Nel prossimo intervento analizzeremo piú in dettaglio i problemi del modello editoriale in presenza di contenuti in forma digitale: strategie ed esperienze editoriali.

Alberto Berretti berretti@berretti.org


il paradosso dei contenuti (1): tre modelli

Vi è un aspetto paradossale quando si parla di "contenuti" in rete. Innanzitutto il solo fatto che se ne parli con tanta frequenza da circa un anno a questa parte nasconde una imbarazzante realtà: se è da così poco che si parla di contenuti per internet, fino ad oggi che cosa si è messo in rete?


>il paradosso dei contenuti (2): strategie ed esperienze editoriali

Il modello editoriale sembra essere, sulla carta, il piú appropriato: si paga per quello che interessa e si vuole leggere, senza avere pubblicità tra i piedi. Eppure si fa strada con difficoltà sulla rete internet. Eppure la maggior parte degli esperti, come ad es. Gerry McGovern, considera i contenuti a pagamento come il futuro della rete.


chiuderà la serie:
>il paradosso dei contenuti (3)



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