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Storia di Spigno Monferrato
Episodio dei farabutti
(N.d.r. - Come potrà constatare il lettore, il manoscritto non ci racconta la storia in modo lineare, ma procede quasi a flash back, quasi che lo scrittore, arrivando ai nodi cruciali del racconto, senta il bisogno di introdurre informazioni esplicative per far meglio comprendere la situazione. Così, per rendere più agevole la lettura abbiamo inserito nel testo dei collegamenti ipertestuali che consentono di “saltare” gli “approfondimenti” (che abbiamo evidenziato con il corsivo) sui personaggi per seguire la trama dei fatti. Ciò nonostante il dattiloscritto, che abbiamo voluto riportare fedelmente, a nostro avviso non rispetta la cronologia dei fatti come sono realmente avvenuti, (se ne renderà conto il lettore attento alle date) per cui aiutandoci con altre fonti abbiamo risostruito sinteticamente la cronologia dei fatti sotto descritti in un'altra pagina.)

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1 >=> L'anno 1583 il 7 Gennaio nasceva in Verona Federico Asinari da Marco Antonio e da Clementina Sclopis. Giunto all'età di sette anni, il padre lo affidò alle cure di un percettore. Sotto la guida di tale maestro Federico rilevò un ingegno non comune e un inclinazione verso materie positive e le lingue. All'età di 18 anni, il padre lo mandò alla scuola Militare di Modena. Il fratello minore Attilio fu mandato in un collegio a Milano per intraprendere la carriera giudiziaria. Federico a 21 anni uscì dalla scuola Militare col grado di sottotenente e dopo sei mesi fu aggregato al reggimento Aosta Cavalleria, di stanza a Savigliano. In quell'anno scoppiarono i moti insurrezionali in Savoia contro i francesi. Federico fu inviato colà da Vittorio Amedeo IV e si distinse molto nell'assalto della fortezza di San Giovanni di Musiana, dove fu ferito al malleolo del piede sinistro. Gli venne conferita una medaglia al valor militare. In quell'epoca era vacante il feudo di Spigno, divisione di Genova, circondario di Savona.

Il padre desideroso di dare una buona posizione al figlio ricorse alla Regia Camera di Milano, da cui ottenne in breve tempo il feudo di Spigno a favore del figlio Federico. L'anno seguente recatosi in Asti per rivedere un suo compagno d'armi di nome Giuseppe Alfiere e introdotto in alcune delle principali famiglie della città, conobbe una certa Deferraris Eleonora, una giovane di nobile famiglia, di rara bellezza e di provata virtù. Dopo 3 mesi col consenso dei genitori, fu celebrato il matrimonio in Asti nella chiesa di San Secondo, coll'intervento del Governatore di Milano ed il Ministro di Finanza, Signor Cuttiera di Torino.

Trascorso un mese dal suo matrimonio, si recò col governatore di Milano a Spigno, dove fu investito ufficialmente del Marchesato tra grandi feste della popolazione.

Il primo anno si dimostrò persona dabbene, ma ben presto tralignò e divenne perfido, avaro, rapace. Correva l'anno bisestile 1612. Il Marchese aveva tutto disposto per distruggere l'intero paese di Spigno.

I nostri paesani, che allora erano valorosi ed esercitati nel maneggio delle armi, si opponevano al Marchese in quanto costui con angherie, estorsioni e leggi di ferro opprimeva questo popolo. Per questo decise di sterminare il paese con tutti gli abitanti, principalmente i suoi nemici che osavano resistere ai suoi insani comandi.

Per poter meglio riuscire a man salva, raccolse dai paesi vicini una truppa di mascalzoni; gente micidiale. Pose al loro comando un certo Ortensio Viazzi, della borgata Corento di Rocchetta di Spigno e di notte tempo li introdusse nel suo palazzo, tenendoli nascosti in sotterranei, legnaie, cantine, aspettando tempo propizio per eseguire l'empio progetto.  >>==>>

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Federico era [alto di] in statura, ben fatto, tarchiato, occhi grossi sporgenti fuor dell'orbita, naso aquilino, mento aguzzo con rari peli rossicci, spenzolante il labbro inferiore, di colore olivastro che metteva ribrezzo a guardarlo. Chi lo guardava da vicino era costretto a volgersi altrove o abbassare gli occhi.
Le sembianze erano uguali a quelle di un mulatto. Perfido, burbero, rapace, avaro da paragonarsi ad un nuovo Caligola.
Odiava il paese, notte e giorno studiava il modo di poter mettere una museruola alla bocca dei poveri spignesi.

Al contrario la consorte, donna Eleonora, era [anch’essa] di alta statura, ma snella, con vita stretta, due occhi neri vivaci, mani gentili e piccole, di carnagione bianca come la neve, ma la faccia rosseggiante come una rosa, di animo gentile, graziosa nel conversare.
Dopo 14 mesi diede alla luce un maschietto e Federico si recò a Savona per invitare il Vescovo Mons. Pittaluga al battesimo, che fu celebrato a suon di campane e gli fu imposto il nome dell'avolo Marco Antonio e dell'avola Clemente.

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2 >=>   Solevano i nostri terrazzoni di Spigno [ Gli abitanti di Spigno usavano] fare una gran festa il 21 Gennaio annualmente, di S.Fabiano e di S.Sebastiano ( che in seguito venne trasportato il 23 S.Emerziana ) e sollenizzavano tal giorno con una devota processione, in riconoscenza onorevole del santo che nell'anno 1405 aveva preservato il paese da una terribile peste contagiosa.
La processione doveva passare d’innanzi al suo palazzo; percorrere la via principale che attraversava il paese, per recarsi nuovamente alla chiesa parrocchiale.
In processione venivano portate tutte le statue esistenti, stendardi, un gran gonfalone, di seta rossa, col cuore di Gesù, crocifissi e croci; le statue venivano portate a braccia.
Il parroco sotto elegante baldacchino, procedeva lentamente sopra uno strato di tela, portando la reliquia del Santo, consistente in alcuni piccoli frammenti d’ossa, cantando l’inno dei S. martiri; tutti i sacerdoti dipendenti la Vicaria erano invitati dalla Curia Vescovile a partecipare.
Con tutto ciò il progetto del Marchese, era che passando lentamente, la processione sotto il suo palazzo, di appostare i suoi sgherri alle porte, alle finestre ai balconi e serrando gli uomini disordinati, vestiti dell’abito della Ven. Confraternita dei Disciplinati, (attaccare) con lo sparo dei moschetti e pistole; (quindi) sguarnire le sciabole e far strage di coloro che non fossero uccisi, od offesi dalle palle, ed in cotal guisa massacrare tutti indistintamente.

(Tra le due versioni rintracciate, lasciamo quella più significativa e pittoresca, in un italiano, ci sembra, più antico.)

La processione usciva dalla chiesa alle ore 8, e rientrava pressapoco alle 10.
L'empio sacrilego disegno per accidente, o piuttosto per volontà di Dio, venne scoperto a tempo, da un povero prigioniero di Malvicino, certo Tonino Saraceno che da 4 anni languiva, in quella tetra carcere, scavata nel vivo sasso, senza colpa alcuna, e senza neppur esser giudicato o processato, ma semplicemente per capriccio di Federico.
Un giorno verso mezzanotte essendo sveglio per fame, sdraiato sul fetido giaciglio, udì un insolito rumore di passi solleciti e concitati, un andare e venire, discorrere e parlare sotto voce. Alzatosi in piedi tese l'orecchio da un tal buco dell'inferriata, ed origliando intese parlare due sgherri, che segretamente dicevansi, che il loro padrone era risoluto e deciso domani mattina, verso le ore 8, passando la processione d'innanzi al palazzo di mettersi tutti in ordine di battaglia, e distruggere codesta infame popolazione di Spigno; dicevansi: "6 cannoni ferrati a 3 cerchi, son già pronti caricati a mitraglia, noi siamo in numero di 450 e più, 60 circa sono nascosti ed appollaiati nei sotterranei di questo palazzo ch'io lo so preciso, avendoli di notte introdotti, il rimanente batte ancora la campagna, ma all'ora indicata si troveranno in testa e in coda e chi di fianco alla contrada, tutti armati come cani, con ciò la vittoria sarà del nostro padrone."

Il povero Tonio all'udire quel discorso rabbrividì, e pensava tra sé: "Povero me, son qui innocente, in questa oscura tana, sarò dimenticato, converrà che beva la morte a sorsi, con gli atroci spasimi del digiuno". Quindi per ispirazione della Vergine implorata ricorse ad uno stratagemma e finse che fieri dolori di ventre l'avevano colto; perciò spasimando ad alta voce implorava la confessione. Udito quei lamenti il custode che dormiva nel corridoio vicino, aprì lo sportello e gli chiese cosa aveva, cosa si sentiva.
"Aiuto per carità di me misero, mi sento morire, per l’amore dei vostri poveri morti, chiamatemi un confessore."
Il custode portossi nella camera del suo superiore, narrandogli ogni cosa; questi come persona di palazzo, portossi nella camera da letto del Marchese e le disse, come un prigioniero trovavasi in fin di vita e chiedeva confessione.

Non si può capire come Federico, di carattere pessimo, perverso e senza religione, sia accondisceso a compiacere un detenuto. "Chiamate subito un confessore" disse. Lestamente il custode prese una lanterna e si portò sotto le finestre del parroco ed a gran voce lo chiamò.

Svegliatosi l'ottimo parroco, Perrone Don Gustavo di Cessole, affacciossi alla finestra, ed il custode le disse che un prigioniero domandava confessione. Il zelante sacerdote, udendo un opera da compiere appartenente al suo ministero, frettoloso si vestì ed accompagnato dal custode, portando seco la sacra Pisside ed il vaso dell'Olio Santo, s'avviarono al palazzo vicino.

Introdotto nella prigione, il custode si ritirò; allora il povero Tonio alzossi, ed accostata la bocca all'orecchio del parroco, invece di dirle i suoi peccati, le svelò tutto l'empio progetto del Marchese, udito poco prima da due sgherri; oltre a ciò d'aver veduto coi propri occhi da un buco passeggiare per la galleria, ombre nere e spaventose, con armi in mano, d'aver pur udito, d'aspettare mentre la processione passa d'innanzi al palazzo, per tingere di rosso le cappe bianche.

Scoperto così enorme trama uscì il parroco dalla prigione come se avesse amministrato il santo Viatico, ed il custode accompagnatolo nuovamente sino alla porta della Canonica, lo ringraziò e gli diede la buona notte. >>==>>

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Federico considerando il suo palazzo, questi non presentava all'uopo un asilo di sicurezza resistente ad un serra serra, per potersi da esso difendere, ed incapace di custodirvi una truppa di uomini, almeno di un cento. Perciò progettò con la consorte far fabbricare un gran castello, ad uso fortezza, sul colle della Novera, per potervisi rifugiare colla famiglia, nel caso di una sommossa, d'una ribellione.

In fretta spedì un messaggio a cavallo a Torino, dall'ingegner capo del genio militare Maggiore Tomatis. Questi, dopo tre giorni a cavallo, seguito dal suo aiutante giungeva a Spigno. Sollecito con Federico portaronsi sul luogo, e dopo d'aver preso le dovute misure, ne faceva il tipo, che lo presentò al Marchese e consorte.

Piacque ad entrambi, avendolo trovato abbastanza ampio con ampie sale, solide prigioni e scuderie. Capo importante mancava l'acqua, e per primo lavoro, fece scavare un profondissimo pozzo di 350 metri di profondità, sino al livello della Bormida, dove alfine si trovò una freschissima ed abbondante acqua, che col mezzo di congegni impiantati dall’Ingegnere. mandava l'acqua in tutte le camere, nel giardino e nelle scuderie. Quindi ne affidò la costruzione all'Ing. del Genio Civile Sig. Niccolini di Savona. In fretta pubblicò manifesti in tutti i canti del paese e borgate, coi quali precettava una metà delle persone al lavoro per ogni famiglia, sia uomini come donne.
Le prestazioni erano senza retribuzione. Chi avesse mancato all'appello aveva tre mesi di carcere, e la confisca dei suoi beni.

Nel prossimo marzo si cominciarono i lavori. Settanta erano i muratori, dieci scalpellini, quattro falegnami, quattro fabbri, centocinquanta i manovali, cinquanta e più tra donne e ragazzi, a lavare e spazzar pietre, lavare rena, venti ragazzi addetti agli ordini dei lavoranti, ed a fare le commissioni che venivano ordinate; tutti andavano a mangiare a casa loro. Insomma che fra tanti sommavano un numero di trecentootto.

Sollecitando in tal guisa i lavori, l'anno venturo, sul finire di giugno i muri del castello erano al completo della loro altezza; in tutto luglio fu pur anco terminato l'ampio coperto .

I mattoni e le tegole le fece sequestrare.al Signor Carlo Antonio Bruno alla Fornace di Castoria, dove fu costretto provvederle gratuitamente.

Il 5 agosto festa della Madonna della Neve, nel campo che circonda il castello, fece disporre grandi bracche e tavole, coperte di frascami; quindi a sue spese diede un gran pranzo a tutti i lavoranti che sommavano a 400 e più. La festa durò due giorni, con musiche e balli e divertimenti d’ogni sorta. Tutto ciò per allucinare la cieca popolazione di Spigno.

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3 >=>    L'esperto Parroco, invece di andarsene a dormire, accompagnato dal Vice Parroco e dal Sacrestano, si misero tutti e tre in giro per il paese; era l'una dopo mezzanotte e bussando alle porte delle famiglie di cui la prima fu di un certo Paolo Caviglia, sulla piazza della Torre, dove sapeva che c'erano cinque robusti giovinastri, spiegando bene il tutto; li mise in giro per le campagne e borgate, affinchè avvertissero altre famiglie e avvertendo cosi i campagnoli che alle 8 dello indomani mattina, pur udendo suonare le campane a festa, nessuno avrebbe dovuto muoversi da casa; mentre il coraggioso Sacerdote bussava le rimanenti Porte, avvertendoli non muoversi, e per non sciupar tempo in tante spiegazioni diceva a tutti che un furioso temporale, stava per rovesciarsi sul paese e sugli abitanti.

Vennero le 8 del mattino ed ecco che sode un gran dondolar di campane a festa, sia dalla Chiesa Parrocchiale come dall'Oratorio, dalla Cappella di S.Giuseppe e dal Convento dei Prati di San Francesco.

Federico passeggiava furibondo sulla galleria sovrastante la Bormida in compagnia della consorte e dall'alto della galleria dove con un colpo d'occhio si spazia tutta la pianura, sino a Mombaldone, Vengore, Roccaverano, Montechiaro, Denice, Rocchetta, Vico, pose l'occhio al suo lungo cannocchiale montato su tre piedi e scopre con meraviglia ogni strada deserta come fosse un giorno feriale, mentre in giorni come questo si vedevano frotte e stormi di uomini e donne, tenendo i loro ragazzi più piccoli per mano, tutti vestiti a festa che canterellando giulivi si recavano alla devota Processione. Sbuffando le narici come il suo cavallo, con gli occhi infuocati digrignando i denti, e bestemmiando Dio e i Santi, sedette sulla sua poltrona, col capo fra le mani, pensando che probabilmente era stato tradito e scoperto. Ordinò perciò in fretta ai quattro sgherri travestiti di percorrere il paese, da una parte all'altra onde indagare di quello che stava capitando. Un'ora dopo giungevano gli sgherri e riferirono al loro padrone, che tutto il paese era sotto sopra, le porte tutte chiuse e tutti gli uomini erano sulle tre piazze e nelle contrade armati di ferri e bastoni. Urlando come un toro, stringendo la mano alla consorte, bacia i suoi due figli, e chiamando trenta dei suoi sgherri ordina di aprire le prigioni e di rilasciare in libertà tutti i detenuti che erano in numero di 46, tra i quali l'ottimo Dottor Piolotti. Calandosi dalla galleria del castello abbandonarono tutti quanti il paese. >>==>>

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Giornalmente Federico, mattino e sera recavasi al castello, a visitare i lavori e come progredivano (siamo nell'anno 1660, ricostruzione del Castello) passando per la contrada sottostante la Chiesa, vede una donna che allattava il suo bambino, in età di dieci mesi, il Bambino piangeva, diede un'occhiata e passò oltre.
Verso sera nel ritorno dal castello vide nuovamente quella donna, seduta sul primo gradino della scala. era una certa Anna Fornarino, giovane di 19 anni, il bambino piangeva e strillava; le si avvicinò e le domandò cosa avesse per piangere si forte. "Eh, Signor Marchese, va soggetto a dolori di ventre, forse ora li avrà più forti." - "Ebbene - le disse - datelo a me che ve lo guarisco". La povera madre nulla sospettando, glielo pose; egli lo prese per il collo, lo sbattè si forte contro il muro che lo ammazzò; di poi continuò la sua strada senza neppur volgersi indietro per vedere se quel bambino ora vivo o morto. La povera madre corse a raccogliere quel caro pegno, gridando disperatamente. Udito quelle grida il marito si affacciò alla finestra e vide la madre con in grembo il bambino morto. Entrambi piangevano disperatamente e bestemmiavano e il marito cercava di consolare l'amata sposa dicendole: "Che vuoi fare? Bisogna avere pazienza, rodere il fieno e prendere tutto per buono da quell'infame e spietato cannibale."

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(Nel dattiloscritto sono descritti avvenimenti che forse non riguardano "L'episodio dei farabutti", ma sembrano essere antecedenti: una delle tante occasioni di scontro fra gli spignese e Federico.)

Correva l'anno venturo, il 1 gennaio, scadevano in Consiglio 5 Consiglieri essendo questi in numero di I5. Federico a capo della tavola nell'ampia sala del Consiglio, stava assiso su di un ricco seggiolone; sopra il capo stava una specie di trono dorato, con lo stemma del marchesato di Spigno, consistente in una grande aquila che afferrava tra gli artigli un semplice agnelletto con le parole: Arte et morte, e il tutto esprimeva l'alto dominio del marchesato.

Quindi si passò alla votazione a schede segrete. Uscirono eletti tre consiglieri di Spigno, certi. Scaletta,. Chiaborelli, ed Ugo Gavotti di Malvicino; essendo costui ricco possessore di terreni nei dintorni di Spigno e di case nel concentrico. Finita la votazione ne fu redatto verbale dal segretario comunale Manfredi , che terminato ne diede ad alta voce lettura e venne regolarmente firmato da tutti i consiglieri e dal Presidente Marchese Federico.

Terminata ogni cosa essendo per uscire il consigliere, Gavotti esclamava: "Fratelli ancor due minuti"; quindi ritto nel bel mezzo della sala pronuncia le seguenti parole: "Amati fratelli, vi ringrazio della carica che mi avete affidato, ed io procurerò secondo le mio forze di adoperarmi quanto potrò pel benessere del paese e della popolazione. Già tutti ne siete consapevoli, quattro anni or sono fui eletto portabandiere in Savoia con ordine ufficiale del nostro sovrano Amedeo IV.
La Savoia a quell’epoca era invasa dai francesi. Dopo una serie di sconfitte toccate ai piemontesi, l’aria si voltò in nostro favore, cioè in altrettante vittorie, per cui i francesi li ricacciammo nel loro territorio. Dopo undici mesi di campagna, cara patria di Malvicino, con la medaglia al valor militare.
"Or dunque, fratelli, seguite il vostro portabandiere, mi metterò alla testa, voi mi seguirete?" Mentre tendeva la destra verso il marchese là presente, quindi continuava: "Tutto ha il suo termine, per colui".... segnandolo con l’indice … "la sua ora è battuta e ribattuta", e sempre con l’indice a lui rivolto, "Se adesso è bel provveduto d'assassini, armati di spade e fucili, noi prenderemo la zappa, la vanga, il forcone, il vomero e quanto potrà capitar per mano; or è tempo di finirla, vuol dissanguarci, ogni minuto che trascorre ci succhia una stilla di sangue, orsù dunque, coraggio, seguitemi."

Federico immobile, sdraiato sul suo seggiolone con gli occhi spalancati infuocati e fuor dell'orbita, sbuffando e digrignando i denti; s’avviluppa la destra col suo fazzoletto bianco, s’alza e s'avanza come un leone contro Gavotti, l'afferra per la gola e la stringe cosi forte, che stramazza a terra cadavere.

Quindi ordina a due guardie di portarlo via e che non gli sia data sepoltura ecclesiastica e di tumularlo nel ghiaione del fiume Bormida. Le guardie trasportarono il cadavere sulla piazzetta, piantonandolo, ma gli ordini di Federico non furono eseguiti. Il giorno dopo di buon mattino, furono i funerali, ebbe sepoltura nel camposanto, al suono di tutte le campane, coll'accompagnamento di tutto Malvicino, Turpino, Spigno e d'intorni. A spese del municipio le fu eretto una lapide, ricordante l'immortale suo nome, prodezze e virtù.

Gli Spignesi assaltando ferocemente gli assassini, li costrinsero a sparpagliarsi: e batter la campagna, essendo ovunque dai nostri inseguiti. Tante vittorie in questo zuffe costò a noi due vittime, Chiaborelli e Rubba di Mombaldone, piccola borgata sotto Mombaldone, che costui con ammirabile valore e generosità sostenne volenteroso la causa dei minacciati suoi vicini, cascina S.Ambrogio.

Il giorno dopo a Spigno ebbero sepoltura i due giovani, caduti per la difesa della Patria, ed il consiglio comunale volle distinzione con un’alta croce, e da una pietra incisi i loro nomi sopra la zolla che copriva le congiunte salme.

Gi i sgherri tenendo ancor nella loro mani il capo Ofieri Baretta di Spigno, fu perquisito e le fu trovato nella scarsella del farsetto a maglia sulla pelle una lettera segreta del Marchese, colla quale come capo, ordinava di mettere a ferro e fuoco ogni cosa o di trucidare uomini e donne al disopra del settimo anno.

La sbirraglia nel leggere la lettera, montò sulle furie e senza lasciarsi impietosire dai suoi pianti, nè smuovere dalle scuse bugiarde, fu trascinato a viva forza nella bottega del macellaio, Oreste di Sassello, fattogli abbassare il capo sul ceppo, con un colpo di mannaia gli recisero il capo a guisa di bue, scannando anche altri cinque della sua squadra, tutti della Rocchetta, ne portarono i cadaveri nel cortile di Federico, ed ammucchiatoli sopra una catasta di legna, fra il plauso e lo schiamazza della plebaglia, vi appiccarono il fuoco.

Nulla valsero le parole e la opposizioni dell’ultimo parroco, ma per severo ordine di Federico, la polvere fu gettata nel fiume Bormida, non volendo con essa profanare il cimitero. Niuno saravvi che voglia troppo severamente questa vendetta. e tutti i terrazzoni del paesi e borgate all'intorno le accrebbe maggior odio verso il Marchese.

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6 >=>   L’acuta contesa tra quelli di Spigno e Federico già era decisa ed egli trovavasi da due giorni a Malvicino, inconscio degli avvenimenti, quindi propone, sul far del giorno, venire a Spigno ed essere, quale nuovo Nerone, spettatore dal suo Castello delle fiamme devastatrici del borgo.

Mentre s'apparecchiava di partire a cavallo, scortato dalla solita guardia che consisteva in venti gagliardi uomini armati, ecco all'improvviso giungere due messaggi, con l’annunzio della piena sconfitta toccata ai suoi masnadieri sul ponte S.Rocco, una gran parte gettata nel fiume e molti annegati.

A tal novella inaspettata, lo colse un impeto così violento di sdegno, che poco mancò non le desse di volta il cervello; batteva il cavallo, fracassava quanto le veniva tra le mani, non finiva di bestemmiare, maledire Dio, il cielo, e la terra.

Non si creda però il lettore, che cadesse così facilmente dall'avversa fortuna, e dopo perdesse ogni speranza di condurre in soggezione i ribelli come egli diceva.

Raccolse perciò quanti facinorosi desolavano i dintorni, e si proponeva di piombare nuovamente su Spigno, tenendosi già sicuro di una completa vittoria.

Ma i terzani coadiuvati dal Segretario Comunale, Manfredi, risoluti di trarsi una buona volta d’impiccio, spedirono due messaggi a cavallo, alla Regia Camera di Milano, ed al Governatore, con lettere spiegative, ed autentiche col Bollo del Comune, implorando la loro protezione ad aiuto.

La Camera ed il Governatore di Milano, indispettiti dal perverso contegno di Federico, spedirono una gagliarda compagnia di soldati spagnoli: fanti ad artiglieri, con tre pezzi d’artiglieria, in n. 220, con 230 cavalli, che uniti ai Borghesi di Spigno, sloggiarono coi suoi Federico da Malvicino, ove tenevasi forte in una torre ben costrutta e meglio difesa.

Non si tosto fu da lui abbandonata, che lo scoppio di due gran mine la fecero saltare in aria dalla fondamenta, restando gli avanzi memoria al posteri d’un gran mucchio di ruderi.

I sei cannoni di legno, ferrati ancor carichi a mitraglia, vennero ricuperati dai soldati spagnoli, ed inchiodati; quattro trovavansi spianati alla inferriate e porte della cantina del palazzo, uno nel giardino del Sig. Cova, l’ultimo spianato da un piccol buco di casa Gallareto, che vennero conservati molti anni come ricordo nell'archivio comunale.

Da Malvicino Federico, non osando passare per Spigno, attraversò coi suoi i monti, e calò a Cessole, dove colà fissò temporaneamente dimora.

Unitosi a quei villani di Cessole, Bubbio, .Monastero, Vesime, Cassinasco, Olmo, S.Giorgio, Pereleto, Vengore, Roccaverano, ed altri satelliti, tutti compri con gran denaro, continuava ad infestare le pianure di Spigno, Rocchetta, Montaldo, Squagiato, Bergagiuolo, Barbania, Vico, or predando i passeggeri, or rubando bestiame, vino, cereali, e qualunque altro potevano carpire, dimodoché, l’intiera popolazione di Spigno e dintorni, collegati ai soldati Spagnoli, furono costretti darle la caccia anche in Cessole, dove si trovavano.

Disperato di migliori successi e prevedendo quei luoghi non esser aria libera per lui, preso da un implacabile corruccio, dopo aver sacrificato alcuni dei suoi, i quali osavano contrariare i suoi progetti, deliberò finalmente di ritirarsi a Savona nel Borgo Zinola dove colà avea un anno prima acquistato il palazzo del Sig.Aonso all'asta per lire ventimilacinquecento, con annesso giardino, in riva al mare, posizione deliziosa addi 27 giugno 1769. (o 1669  ?  ndr)

La Regia Camera di Milano formò un processo contro di lui, in forza del quale dalla Corte d’Appello di Casale, anche da Zinola fu esiliato, e vennero consegnati al fisco i suoi Feudi. Il Comune di Spigno approfittando della circostanza, intentò causa civile con lui, e contro i beni feudali del Marchesato per la somma di lire 111.664, di cui era creditore verso la regia Camera di Milano per somministranze fatte in tempo di passaggio delle soldatesche del Re di Spagna.

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Marco Antonio padre di Federico, estinto, dodici anni prima, il quale aveva ricevuto in pagamento di tal somma i feudi di Tortona, Castelnuovo Scrivia, gli immensi terreni del Principe Centurione ed il feudo di Ponte Curone, che in frode del Comune di Spigno, il padre di Federico se ne era impadronito.

La causa a Milano fu sostenuta per conto di Federico da sette avvocati del Foro milanese, ma la sentenza, dopo quaranta giorni, fu pubblicata in Spigno all'Albo Pretorio in favore del Comune di Spigno, che ricevette in pagamento della somma di lire 111.664 le terre di Menasco, Canavella superiore, Vico, Vivello, Moglia, Casazee e Casorano, oltre gli interessi ed alle spese. ( Il dattoloscritto non riferisce della fine di Federico )

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Il signor Leglio Farea impalmò Donna Eleonora, e pagato al regio fisco di Spagna 5400 ducatoni, equivalenti a lire 43.200, ottenne addì 20 giugno 1677 l'investitura del feudo di Spigno, dalla regia Camera di Milano.

Gli Spignesi sotto al governo di quell'amato Signore, e della incomparabile di lui consorte, vissero lieti e tranquilli godendo i frutti del ben usato valore; gareggiavano il signor Leglio e Donna Eleonora, nel colmare di benefici i soggetti, come per compensarli delle sventure sofferte, ed i soggetti egregiavano, nel dar loro prove ogni giorno di somma devozione e affetto.

Le memorie delle passate prodezze, chi le narrava nei freschi cuori dei nipoti, e le ricordanze di martiri caduti, per la difesa del loro amato paese, ingenerò una profonda antipatia, fra i terrazzoni di Spigno. (e)

Gli abitanti di Ponzone, or saranno cinquant'anni circa che se alcuni di questi recavasi a Spigno per la fiera annuale di S.Elisabetta 19 novembre, se veniva riconosciuto, le si stipavano intorno i borghesi, a portare una mitra di cuoio sul capo, in segno di scorno; le traevano d'attorno fra urla, risa e fischi, un migliaio di fanciulli. Ma non così succedeva coi terrazzoni di Mombaldone, Merana, Serole, cui Aleramo Marchese di Mombaldone, nemico acerrimo di Federico venivano rispettati.

Ma il volgere del tempo ha ormai cancellato ogni odio e rancore negli animi, né oggidì gli abitanti di Ponzone hanno a temere queste puerili ed ingenerose vendette. La discordia che divideva i grandi Municipi italiani, non meno che i più oscuri villaggi, fomentata dai ricordi di antiche rivalità e di battaglie, oggidì é quasi cessata intieramente, per cedere il campo ad una fraterna alleanza, che è fonte di belle speranze Nazionali.

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Niuno saravvi che possa comprendere, e farsi un'idea delle mostruosità e nefandezze commesse da Federico; violazione di onorate fanciulle, con laute promesse di danaro, spose di bassa condizione deflorate, prima di congiungersi allo sposo; essendo coteste dipendenti, dal suo ministero, pel consenso della loro unione, secondo lo Statuto e legge sul matrimonio civile.

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4 >=>   Gli sgherri serrati e scorazzati dai Borghesi, dinnanzi, di dietro e di fianco, tra il convento S.Francesco e S.Giuseppe, si sbandarono chi qua e chi là, alcuni si gettarono nel torrente Valla, alcuni si rifugiarono nelle case per nascondersi. Nella casa Chiaborelli, si conservò per molti anni, un gran cassone da grano, dove là dentro si erano nascosti due assassini, che ritrovati, vennero là entro ammazzati a colpi di bastone, che per alcuni anni si videro ancora strisce e spruzzi di sangue uscito dai loro corpi, così pure nella cantina del Signor Nano, un capo masnadiero di Ponzone, Fracchia, si nascose fra le botti; scoperto da due servi del Nano, venne a colpi di randello ucciso e sotterrato in un angolo remoto della cantina; chi veniva trovato nascosto sotto un mucchio di fascine, chi in un'arca da pane, chi nel forno, chi su dal fornello, stando appollaiato sul travicello.

Quindi i Spignesi, unitisi in massa, capitanati dal valoroso Grappiolo Melchiorre, della frazione Brallo Serole detto il Gigante proposero di atterrare, dare il sacco al Castello non ancora a compimento; perciò li medesimi operai concorsi alla costruzione, si misero all'opera della demolizione, uomini e donne, con lunghe scale e ponti posticci, salirono sul coperto, gettando a terra tegole, travi, travicelli, scoperto che fu, si misero attorno alle mura , ma poco o nulla servivano picconi baramine mazze punte cunei a demolire essendo le mura di costruzione solidissime con grosse pietre lavorate a scalpello, sotto la direzione dell'Ing. Niccolini.

Vedendo il lavoro andar lentamente ricorsero alle mine, e per due settimane il Castello prese forma di un campo di battaglia, i colpi delle mine rimbombavano l'aria, echeggiando tra i monti vicini, rimanendo solo muri rotti e sfasciati in memoria dei posteri. >>==>>

Le storie però, non descrivono come lo smantellato Castello, sia caduto di proprietà dalla famiglia Airaldi, come pure la principal Piazza sia caduta al Comune di Pareto.
Le quattro torri esistenti furono rase dalle fondamenta.
Il Castello e Torre di Ponzone se ne impadronì il Comune. Lo stupendo Castello, ed alta Torre quadrata di Cartosio, al Conte S.Marzano; Castello e Torre di Castello d'Erro al Conte Sanfront, così tutti i Castelli e Torri dei paesi di Melazzo, Ponti, Bistagno al Signor Barberis; Denice, Montechiaro, Vengore, Roccaverano, Olmo, Perleto, S.Giorgio, Bubbio, Cessole, Vesime, Cortemiglia, Mombaldone, Merana, Piana, Dego, Rocchetta Cairo, Cairo e via dicendo siano caduti di assoluta proprietà dei Comuni.

5 >=>   Gli sgherri sotto il comando dell'Ortensio Viazzi di Rocchetta presero la strada verso Turpino, la prima saccheggiata fu il villaggio di Barbania, la Borgata Cavalli, Barosi, Scajole, Borchi, Costabella, Ghioni e Duranti, dove colà eravi proprietario Giacomo Durante, persona intelligente, ma avversa a Federico che nell’ultima seduta del Consiglio, contrariò molto le opinioni del Marchese; perciò esso conservò sempre l'odio ed il veleno contro il Durante.
Quindi le fece appiccare il fuoco alla cascina e casa e per suo comando fu arrestato e legate la mani come un malfattore, con una catenella di ferro e dietro Suo ordine in un praticello vicino, fecevi piantare la forca per farcelo impiccare.
Nulla valsero le lagrime ed i singhiozzi della desolata moglie e figli che inginocchiatisi ai piedi le abbracciavano le ginocchia le baciavano i piedi, imploranti pietà e misericordia e compassione di loro, dello sposo, del padre; nulla ancora valsero le interposizioni e preghiere suppliche dei buoni suoi vicini.

Federico impassibile alle loro istanze eguale al soffio di un leggero venticello di aprile, sopra una montagna di marmo con la spada sguainata, rigettò tutti da sé; ordinando severamente che fosso impiccato. Condotto il povero Durante sotto la forca, con una piccola fune al collo fattolo salire su di una sedia, fu barbaramente strangolato, quindi fu piantonato da due assassini sino a notte. Sul dimani di buon mattino ebbe sepoltura nel cimitero di Turpino. >>==>>

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Introduzione
Notizie varie del paese tratte da un manoscritto della signora Ghiglione
Sintesi cronologica comparata della storia di Spigno
     
     
     
     
 
 
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