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3.2 Artificiale vs. Naturale?

Che senso ha la distinzione tra naturale e artificiale? Che cosa distingue propriamente? Anche qui occorre delineare una breve storia dei due concetti e delle loro relazioni.

Naturale

Il concetto di natura nel pensiero classico greco, e ancora in quello medioevale, è inteso sia come ordine fisso e immutabile di tutte le cose sia come principio o "essere proprio" (essenza) di ciascuna cosa, uomo compreso, e avente quindi (si noti la stravaganza!) un valore normativo. A tale valore si ricollega il valore normativo (socialmente inteso, il valore morale) dato al concetto di razionalità, che diventa così dipendente da quello di natura. Di conseguenza, nei confronti di questi due concetti è possibile introdurre rispettivamente l'alternativa tra perfezione e corruzione (assicurata dal concetto normativo di natura) e la possibilità di lode o biasimo rispetto a ciò (assicurata dal concetto normativo di razionalità) [1] .
Come series o universitas rerum, come grande "contenitore" di tutte le cose, all'esterno del quale non è pensabile che esista nulla (oppure, nella tradizione cristiana, che esista solo Dio), il mondo è quindi pensato come un insieme compatto di oggetti, uomini, animali e dei, posti gli uni accanto agli altri, ognuno al posto giusto, i quali con la loro stessa corporeità assicurano che nulla possa spostarsi e andare fuori posto. Il pensatore che si cita come paradigmatico per tutto questo è di solito Platone [Adorno e altri 1984].

Il pensiero moderno considera invece la natura come ciò che è fuori dall'uomo (ad es. la distinzione tra res cogitans e res extensa in Cartesio), retta da un ordine proprio conoscibile nella forma di una catena di cause. La razionalità corrispondentemente diventa autofondata (secondo Cartesio, è un dato derivato dall'intuizione del cogito ergo sum, garantito da Dio) e non si basa più direttamente sull'ordine del mondo, che ora è pensato come "esterno" (al quale però è ancora supposta isomorfa tramite l'uso di concetti geometrico-matematici). Questa separazione porterà al noto problema di come due sostanze ontologicamente diverse possano agire l'una sull'altra: il pensiero sul corpo (movimento) e il corpo sul pensiero (sensazioni) [per i diversi tentativi di soluzione vedi Adorno e altri 1984: Gassendi, Malebranche, Leibniz, Locke, Berkeley, Hume, LaMettrie, D'Holbach e Kant].

Il salto di astrazione derivato dal considerare la natura in termini geometrico-matematici e causali, che arriverà fino al primo positivismo, la teoria dell'evoluzione di Darwin, e poi gli sviluppi trascendentali e non materialisti (si noti!) dell'empirismo che porteranno alla fenomenologia di Husserl e oltre [vedi ancora Adorno e altri 1984], preparano una concezione della natura che non fa più ormai diretto riferimento né a cose, res, concrete "di per sé" (alberi, pietre o uomini che siano) né a dati primari della coscienza, né a isomorfismi geometrico-matematici, bensì si occupa, a livello metodologico e non metafisico, principalmente:

  • dell'isolamento funzionale di rapporti probabilistici (ovvero attesi) tra causa e effetto (la cui origine umana o non umana è secondaria, perché una causa e un effetto sono sempre tali a prescindere dalla loro origine);
  • della differenza tra dentro e fuori.

I concetti opposti di uomo e natura sono quindi ormai implosi l'uno nell'altro, per così dire hanno "perso di referenzialità" (possibilità di indicazione inequivoca), perché l'uomo è visto sia come un essere naturale sia come una "coscienza" che si distacca dai suoi contenuti fenomenici. "Uomo vs. Natura" non distingue quindi più niente al suo livello più alto, perché da entrambe le parti della distinzione ora c'è sia uomo che natura (l'uomo è un essere naturale e della natura fanno parte uomini) [2] .

Artificiale

Corrispondentemente al mutamento dei concetti di natura e razionalità deve mutare anche il concetto di artificiale. Esso è infatti tradizionalmente basato sulla distinzione uomo (società) vs. natura come domini ontologicamente distinti, ed è una sottodistinzione del lato "uomo" della distinzione stessa [Abbagnano 1954; Merlo, 1958]. "Naturale" è infatti definito come <<qualità di ciò che accade secondo le leggi della natura, senza l'intervento di una potenza estranea, in particolare l'uomo, in quanto essere razionale, libero (...). In questo senso, naturale si contrappone ad artificiale>> [Morchio 1962, corsivo nostro]. Artificiale, secondo questa distinzione classica, è quindi ciò che è <<fatto dall'uomo, in opposizione a naturale>> [ancora in Simon 1970, 19], indipendentemente se come produzione originale oppure imitativa di qualcosa che c'è già in natura [3] .

Poiché una distinzione ontologica presuppone la "quiete" come stato perfetto delle due parti in rapporto, l'intendere così la distinzione tra uomo e natura fa sì che i rapporti reciproci possano essere visti solo in modo causale unidirezionale, e precisamente o come reciproco sostegno o come reciproca corruzione. Non da oggi c'è una certa preferenza per la seconda versione (ad es. come conseguenza della cacciata dal paradiso terrestre), per cui o è la natura a inviare influssi che disturbano l'uomo, sviandolo quindi essa stessa dal suo corso naturale (!), o è l'uomo a disturbare nello stesso modo la natura. L'unidirezionalità quindi fa sì che non si possa pensare a qualcosa come una successiva ripercussione degli effetti come cause su chi li ha prodotti. La causalità va o da natura a uomo o da uomo a natura, o al massimo si ammette che avvengano contemporaneamente entrambe le cose: però le cause sono viste sempre o come essenzialmente umane o come essenzialmente naturali. Da ciò derivava il pensiero che fosse possibile risolvere i problemi rispettivamente o bloccando i cattivi influssi della natura sull'uomo (nell'epoca moderna, con la tecnica, ad es. per Bacone) o quelli dell'uomo sulla natura (più di recente, contro la tecnica, ad es. per Heidegger) [4] .

Ma se, come si ammette generalmente oggi (ad esempio nella teoria dell'evoluzione e nella teoria dei sistemi), gli influssi sono non solo reciproci ma anche rientranti, cioè ciò che fa l'uomo alla natura gli ritorna come influsso naturale e viceversa (nei limiti delle rispettive sensibilità), è assolutamente privo di senso distinguere in questo modo cause ed effetti e sperare di risolvere le cose semplicemente ponendo delle barriere da una parte o dall'altra. Naturalmente anche questo si può fare: ma a meno di non pensare a una tecnica capace di svilupparsi come "protezione globale" (che poi vorrebbe dire capace di compensare ogni variazione indesiderata con una variazione uguale e contraria o di isolare la società dal suo ambiente), l'effetto delle tecniche sul mondo, come quello di qualsiasi altra componente causale, umana o naturale, è semplicemente quello di dinamizzarlo, ... da dentro ... da fuori ... da dentro ... da fuori ... e così via senza fine e nell'irrilevanza dell'inizio. Che tutto sia cominciato prima dentro o fuori, dopo poco interessa solo per l'attribuzione di responsabilità, non per l'effettivo controllo causale dei fenomeni, perché comunque i vecchi eventi causali non esistono più, non producono più effetti [5] . Alla fine perciò diventa chiaro che non ha più alcun senso distinguere da che parte vengono gli influssi, se non coeteris paribus: quindi per problemi delimitati e in un modo che richiede necessariamente una limitazione della responsabilità nei confronti degli effetti imprevisti delle soluzioni attuate (ad es. la presupposizione della buona fede, o la sicurezza giuridica che si ricava dal sapere che, comunque vadano le cose, si è operato "a regola d'arte"). Più o meno tecnica, perciò, (o persino niente tecnica) è del tutto indifferente, se si ragiona a questo livello del problema.

A questo punto allora, può risultare vantaggioso sostituire il concetto di natura con quello più astratto di ambiente, definito come puro correlato della sensibilità di un sistema. Con questo concetto non occorre negare l'esistenza in sé delle cose, o il fatto che possano avere una rilevanza diversa per diversi sistemi o per se stesse, ma solo che sia la loro essenza in sé a determinare la loro rilevanza. Per indicarne la rilevanza, bisogna allora indicare esplicitamente (o poter presupporre implicitamente) qual è il sistema di riferimento. Infatti, se si usa la distinzione sistema/ambiente al posto di quella uomo/natura, come abbiamo proposto sopra, si nota che come da una parte (sistema) ci sono uomini, sistemi e tecnologie, così anche dall'altra (il rispettivo ambiente) ci sono altri uomini, altri sistemi e altre tecnologie, e entrambe le parti si perturbano a vicenda nel modo sopra detto.

In un contesto come questo, che senso si può dare allora al concetto di artificiale? Prima di tutto, occorre liberarlo dal suo legame stretto con singoli apparati o tecnologie concrete (oggi soprattutto computers e tecnologie collegate) e ridefinirlo in generale come ciò che appare a un sistema come possibilità di mutamento strutturale. Ad un sistema appaiono come naturali (necessarie, non modificabili) non solo né tanto le strutture mediante le quali esso produce i suoi outputs (ad es. macchinari per prodotti industriali), ma soprattutto quelle mediante le quali riproduce correntemente le operazioni di cui è costituito (nel caso dei sistemi sociali, comunicazioni) [Luhmann 1989, cap. 5]. Per le comunicazioni, si usano oggi vari tipi di apparati, ognuno con proprie caratteristiche e limitazioni [6] . Ogni apparato, infatti, ha la propria combinazione di vantaggi e svantaggi (ad es. un telefono è utile per una comunicazione sincrona a distanza ma inutile per una asincrona), che però non sono "propri dell'apparato" come tale, ma dipendono dall'uso che ne potrebbe fare un sistema (ad es. un'organizzazione) per risolvere meglio propri problemi ricorrenti o per riorganizzarsi in vista di nuove possibilità vantaggiose. Possibilità che prima non potevano essere colte, ma che comunque è ipotizzabile che siano in linea con i suoi scopi e necessità attuali. Ciò non toglie che poi si possano sviluppare nuovi usi e nuovi scopi inizialmente non previsti. Lo prova ad esempio il caso della scrittura, passata da mezzo di annotazione, funzionale a necessità di memorizzazione, a mezzo di comunicazione (soprattutto con la stampa) [Baldini 1995]. E' un esempio del noto fenomeno in base al quale tecnologie ideate dai progettisti per un certo uso, vengono poi sfruttate in modo diverso dagli utenti finali e addirittura adottate da utenti che non erano nemmeno stati previsti in partenza, fenomeno che oggi si osserva in modo assai diffuso proprio nel caso del computer (chi avrebbe mai pensato alla computer-art al tempo dei mastodontici mainframes?). E allo stesso tempo, tali nuovi usi possono influenzare i progettisti e i produttori di tecnologie che possono rispondervi andando loro incontro, specializzando i loro prodotti per i nuovi usi. D'altronde possono anche anticipare nuovi usi, proponendoli ai potenziali utenti (ricerca e innovazione).

Ciò dimostra che non c'è né un determinismo tecnologico verso i sistemi sociali, perché le tecnologie vi entrano a misura dei vantaggi che possono portare (anche se ciò non esclude errori, cattive valutazioni o effetti perversi, né il termine vantaggi deve essere inteso strettamente in senso utilitaristico-economico [Mazzoli 1992a, 23-24 e 39]), dunque in base ai criteri di rilevanza dei sistemi e delle persone che le adottano. Né c'è d'altra parte un determinismo sociale nei confronti delle tecnologie, perché i sistemi sociali e le persone possono selezionare le caratteristiche delle nuove tecnologie per loro utili, e anche suggerirne di nuove [Lanzara 1991, 183 ss.], ma non entrare direttamente nella loro progettazione al punto da definirne a livello operativo le caratteristiche, cosa che deve essere fatta necessariamente dai tecnici. In modo tutto sommato simile, altri ritengono che mentre nel breve periodo prevarrebbe il rapporto causale tecnologie => società, nel lungo periodo invece diverebbe predominante quello società => tecnologie [Mantovani 1995, 149-152].
Questi processi non sono naturalmente in contrasto tra loro, anzi oggi se ne osserva la contemporanea presenza, e in modo particolarmente esplosivo soprattutto nel campo dell'informatica e delle reti di calcolatori [Mazzoli 1992a, 40].

Tutto questo naturalmente non può avvenire tenendo conto di tutti gli effetti sui sistemi e sui loro ambienti (perché ciò sarebbe troppo complesso), ma solo di effetti e vantaggi limitati, misurati inoltre a partire dai punti di vista diversi dei sistemi che ne sono coinvolti. Il resto viene "esternalizzato". L'esternalizzazione mostra tra l'altro perché questi processi sono meglio descritti da una teoria evolutiva che da una teoria del progresso. Il sistema adottante calcola l'impatto solo per sé e per un limitato futuro prevedibile (sempre a priori quindi, perché anche l'esperienza passata può essere solo estrapolata al futuro) e il resto lo lascia alle capacità riequilibratrici degli altri sistemi su cui va a impattare (alle quali possono contribuire altre tecnologie), compreso se stesso nel futuro. Al di là di poche connessioni stabilite (ad es. tramite il diritto), non si tiene affatto conto di equilibri globali (se no non ci sarebbe evoluzione) e nemmeno si potrebbe farlo (troppo complesso). Perciò ci sono sia svantaggi che vantaggi non previsti. E così via. Si realizza in tal modo quell'effetto di accentuata dinamizzazione evolutiva di cui si parlava sopra.

Il risultato finale sarà che il sistema avrà ristrutturato le sue reti di comunicazione interne e di conseguenza avrà riorganizzato le sue capacità di estendersi nello spazio e nel tempo e di ricombinare queste due dimensioni. A questo punto, quando le innovazioni sono entrate nel "tessuto connettivo" della società e si sono tanto "confuse con lo sfondo" [Weiser 1991] che non si può più tornare indietro alla precedente configurazione (ad esempio sarebbe impossibile oggi mantenere l'attuale struttura della società sostituendo alle telecomunicazioni la posta mediante corrieri occasionali), esse saranno diventate la nuova "natura" della società, a partire dalla quale si aprono ancora nuove possibilità di riconfigurazione (nuovi artificiali) [7] .

Per riassumere quindi, il nocciolo della nostra tesi è che occorre ripensare la distinzione artificiale-naturale al di là del senso tradizionale. Se si assume una prospettiva più astratta, essa può essere riproposta con maggior profitto. Abbiamo scelto per questo la prospettiva della teoria dei sistemi, perché per essa non è né l'origine ("umana o naturale") né l'essenza delle cose ciò che conta, ma solo che c'è un sistema e fuori c'è un ambiente: tutte le altre distinzioni che si ricollegano a questa, compresa quella di "umano (artificiale) vs. naturale", sono secondarie, sia quelle riguardanti l'esperienza (naturale o artificiale) sia quella riguardanti la comunicazione (naturale o artificiale) sia, e soprattutto, nei confronti di questioni come l'evoluzione, l'adattamento, il controllo, la causalità e la casualità ecc., per le quali è assolutamente irrilevante l'origine o l'essenza delle cose. Infatti, i sistemi artificiali sono sistemi, gli ambienti artificiali sono ambienti; i sistemi naturali devono essere adattati sia agli ambienti naturali che a quelli artificiali nello stesso modo, poiché non c'è un adattamento "naturale" e uno "artificiale".


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[1] Questa costruzione tradisce chiaramente il fatto di essere stata pensata sotto l'influsso dell'aspettativa di poterla sostenere in un'interazione faccia a faccia, dove l'importanza dell'approvazione o della disapprovazione personale da parte degli altri [Goffman 1969] come regolatore sociale (la forma "grezza" della morale) travalica facilmente la disponibilità a sostenere saperi senza prima mettersi al sicuro dalla disapprovazione: i saperi devono perciò pronunciarsi normativamente per il bene. Questa è comunque solo una forma particolare della più generale possibilità di trasformare eventi ambientali in comunicazione sociale (una forma di re-entry). Torna Su
[2] Ma non solo per questo. Socialmente, perché le aspettative semantiche rivolte a quei termini si moltiplicano col moltiplicarsi dei contesti nei quali vengono usati. A ciò contribuisce prima di tutto la differenziazione sociale [Luhmann e De Giorgi 1992], nei diversi ambiti della quale i termini vengono operazionalizzati, cioè pragmaticamente usati (ad esempio le interpretazioni giuridiche di che cosa è una persona); poi, all'interno di essa, le dispute interpretative sul significato (settoriale) da dare ai termini stessi. Di conseguenza, non c'è più nessuna possibilità (né necessità o convenienza) di riportare il tutto a un'unità. Rinunciando a ciò però, si può aumentare l'usabilità dei termini per le singole prassi concrete: basta capire in che contesto ci si trova e quindi in che modo ci si deve aspettare che venga usata operativamente la parola. Proprio in questo senso preciso infatti, il modo in cui si usano le parole corrisponde al modo in cui si fanno le cose [Austin 1974]. Torna Su
[3] Sulla scia della tradizione consolidata, propone invece questa distinzione Negrotti, in un saggio contenuto in Negrotti [1995, 11-96], nel quale l'autore attua un notevole tentativo di porre le basi di una teoria dell'artificiale. Negrotti distingue tra a) tecnologie imitative o riproduttive di sistemi naturali (artificiale di primo grado) o non naturali (artificiale di secondo grado). Queste tecnologie sarebbero quelle propriamente artificiali; b) tecnologie convenzionali o produttive di innovazioni ai fini di un miglior controllo dell'uomo sull'ambiente. Lo stesso autore sottolinea però che una vera e propria tecnologia "artificiale" nel senso appena detto non esiste (a parte la comunicazione, che mira a riprodurre nella mente altrui il contenuto della propria), poiché la riproduzione si serve sempre di tecnologie convenzionali e l'oggetto artificiale finisce per assumere caratteristiche proprie originali, che non si ritrovano cioè nel sistema che fungeva da modello. L'esito di questo primo tentativo di riflessione appare quindi non del tutto convincente, perché la distinzione posta come guida della riflessione (artificiale vs. convenzionale) si fa subito meno chiara. Torna Su
[4] Invece, le pretese rivolte normalmente alle tecniche, specialmente, ma non solo, proprio dai tecnici che le conoscono, non arrivano a tanto. Di solito ci si riferisce ad abilità operative codificate (manuali o intellettuali) atte a risolvere problemi ricorrenti o a creare nuove possibilità [Gallino 1988], a un agire orientato a scopi pratici e che quindi non ha affatto "in sé le ragioni del proprio esistere" e non porta al "dominio della tecnica" o simili (perché se ci fosse veramente, non ci sarebbero problemi). Le tecniche perciò non fanno per nulla riferimento a pretese di controllo generalizzato, né tantomeno a responsabilità generalizzate, e si sono potute sviluppare solo per questo. Torna Su
[5] Ciò è anche un vantaggio: non c'è necessariamente bisogno di conoscere esattamente la storia degli eventi per sapere che cosa si può fare. Può bastare una descrizione delle condizioni attuali, e a tal fine al massimo una storia ricostruita solo per spiegarsi meglio che cosa sta accadendo adesso. Per questo ad esempio la storiografia dipende più dal presente in cui viene scritta che non semplicemente dagli eventi passati così come effettivamente si sono realizzati. Torna Su
[6] Soprattutto nel grado di permanenza nel tempo e di diffondibilità nello spazio del "documento", cioè del legame tra il supporto della comunicazione e la forma che ad esso viene data (ad esempio una lettera o una telefonata), da cui dipende la distanza spaziale e temporale che possono superare e quindi il fatto di permettere una comunicazione solo sincrona o anche asincrona. Altra importante caratteristica è la possibilità di instaurare comunicazioni pienamente interattive (per cui occorrono tecnologie bidirezionali con la stessa capacità trasmissiva nelle due direzioni). Non vanno poi dimenticate la privacy e la possibilità di autentificazione dell'identità dell'interlocutore [Hellman 1979; Chaum 1992; Giustozzi 1994; Simons 1995; Denning 1995; Beth 1996]. Torna Su
[7] E' invece inesatto considerare le tecnologie in generale come soluzioni di problemi strutturali che sono evidentemente una conseguenza della loro introduzione (come talvolta fa il pensiero struttural-funzionalista classico). E' più plausibile invece che, come nel caso della trasformazione della scrittura da mezzo di annotazione a mezzo di comunicazione, nuove tecniche vengano introdotte attraverso il filtro selettivo di bisogni precedenti (ad. es. memorizzare, nel caso della scrittura), e che poi, se presentano altre potenzialità (ad es. di svincolare la comunicazione dall'interazione sincrona faccia a faccia, nell'esempio fatto) queste vengano colte a misura del vantaggio che comportano per il sistema adottante. Solo dopo che le tecnologie hanno riconfigurato i sistemi di comunicazione, e quindi l'organizzazione, di una società, e ne diventano la nuova natura, sorgono i bisogni ("imperativi funzionali") che tali tecnologie devono soddisfare, poiché ormai la vecchia configurazione, con i suoi vecchi problemi e soluzioni, non esiste più. In questo senso, un bisogno vitale può nascere solo dopo che è già disponibile la sua soluzione. Ad es. il bisogno di infrastrutture di trasporto e telecomunicazione per un sistema economico diffuso su scala mondiale nasce solo dopo la riconfigurazione del sistema economico stesso in base a queste tecnologie. Prima che tali tecnologie venissero adottate diffusamente, un sistema economico mondiale non poteva nemmeno esistere, e di conseguenza nemmeno il bisogno che tali tecnologie avrebbero dovuto soddisfare. Similmente Mantovani [1995, cap. 5], Bettetini e Colombo [1994 p. 18]. Torna Su