GLI ANNI CINQUANTA

L'"Americano"

Alberto Sordi
Il juke-box
James Dean

Se un po' in tutti i Paesi dell'Europa occidentale ci si rifà al prototipo di "teenager" inventato dagli americani, tra i ragazzi italiani la voglia di guardare agli Stati Uniti è particolarmente viva. I motivi sono da ricercarsi nella presenza americana sul nostro territorio durante la seconda guerra mondiale, che aveva lasciato, in chi era bambino in quegli anni, molti buoni ricordi e, soprattutto, dei modelli da imitare. Il ragazzo italiano cresce a immagine e somiglianza di quello americano; due sono i canali principali attraverso cui impara dai modelli di oltreoceano: il cinema e la musica.

Gli eroi di celluloide funzionano a meraviglia: Marlon Brando, Montgomery Clift, Sal Mineo, Natalie Wood, Marylin Monroe e James Dean sono i grandi e universali punti di riferimento di tutti i ragazzi italiani degli anni cinquanta. Di questi, è Dean a colpire la fantasia della maggior parte dei giovani: a differenza di Brando, sempre sicuro di sè e quasi scostante, l'interprete di "Gioventù bruciata" è l'incarnazione di un nuovo tipo di adolescente, ribelle ma allo stesso tempo inquieto e con più dubbi che certezze. Un idolo che, oltretutto, è destinato a non invecchiare mai, a restare per sempre giovane: l'incidente in cui James Dean trova la morte schiantandosi a tutta velocità sulla sua Porsche, il 30 settembre 1955, conferisce all'attore originario dell'Indiana un'aureola romantica che permane ancora oggi.

E' così che molti ragazzi, talvolta senza nemmeno rendersene conto, si fanno coinvolgere dal grande mito dell'America consumista e benestante: cominciano a bere coca cola e, se capita, whisky e soda, a dirsi reciprocamente "occhei", a vestirsi in "pantaloni da tuta di lavoro" (i jeans) e in "magliette a mezze maniche" (le t-shirts), a imporre alle proprie mamme di cucinare hamburger in luogo della pastasciutta e, addirittura, a imitare gli atteggiamenti da "duri" e le cadenze vocali degli attori di oltreoceano. Una figura di adolescente "americano" arriva anche sul grande schermo: si tratta di Nando Moriconi, il personaggio interpretato da Alberto Sordi nel film "Un americano a Roma". In quella pellicola c'è tutto, ovviamente parodizzato e portato all'eccesso, l'americanismo del ragazzo italiano della metà degli anni cinquanta.

La divulgazione del rock'n'roll avviene invece con un paio di anni di ritardo rispetto all'America e inizialmente incontra qualche difficoltà a prendere piede. Sono i tempi in cui da noi dominano ancora incontrastate la canzone italiana e la melodia napoletana: per orecchie abituate ad assorbire suadenti melodie, l'irruzione del nuovo genere è un vero e proprio shock. Tanto più che, inizialmente, i dischi di Elvis, di Little Richard e dei grandi del rock'n'roll sono reperibili solo d'importazione. Solo in un secondo momento, verificato l'impatto che il fenomeno sta avendo all'estero, le case discografiche italiane si danno da fare per divulgare il genere alle grandi masse. "La radio aveva delle rubriche, ogni tanto arrivava qualche disco, ma era difficile", ricorda Renzo Arbore, all'epoca sbarbato adolescente in Puglia e tra i primi ad appassionarsi al nuovo "verbo", "ci sentivamo una specie di setta, perchè a noi piaceva questa musica e ai nostri genitori no, anzi la giudicavano l'anticamera della depravazione. Trovare i dischi nei negozi era complicato anche perchè non avevamo molti soldi, ti dovevi affidare a qualche amico ricco che se li poteva permettere. L'unica alternativa era 'Il Discobolo', la trasmissione di Zivelli alla radio, era una sorta di porto franco in cui il rock, nel silenzio del resto della programmazione, aveva un suo spazio. Il primo rock in Italia lo ha trasmesso lui..."

Oltre al "Discobolo", a far conoscere il nuovo genere ai nostri adolescenti "americani" ci pensa il juke-box: il suo nome significa "scatola per ballare" ma, per fortuna, nessuno pensa mai di utilizzare la sua traduzione letterale italiana. Prima del 1955 in Italia ne era arrivato espressamente dall'America un solo esemplare, quello impiantato durante la guerra dagli americani a Roma, al Foro Italico. Si chiamava "swinging tower", la torre urlante, e conteneva fino a dieci dischi. Negli anni cinquanta i juke-box, impiantati nei bar, nelle latterie, nei locali e negli stabilimenti balneari, diventano un amico fidato di cui gli adolescenti italiani non possono più fare a meno: peraltro, permette ai ragazzi di superare allegramente la censura imposta sul rock'n'roll da radio e genitori assillanti: basta inserire una monetina e tanti saluti agli scocciatori. Nel 1956 i juke-box in Italia sono già 500; e all'inizio degli anni sessanta, c'è chi è pronto a giurare che ce ne siano almeno diecimila.

The Platters
Adriano Celentano
Giorgio Gaber

Ad attecchire subito in Italia è la variante melodica del rock'n'roll, eseguita da gruppi vocali di colore, il doo-wop. Il gruppo dei Platters, con le sue "Only You" e "Smoke gets in your eyes", è il portabandiera del genere. Ma presto arriva anche il rock'n'roll "vero", quello ribelle e dissacratorio di Bill Haley, di Elvis e di Little Richard, di "See you later alligator", di "Heartbreak Hotel" e di "Rip it up"; e riesce a conquistare masse sempre più larghe di giovani. All'interno delle famiglie scoppia la guerra generazionale, tra gli anziani, legati ai moduli tradizionali della canzone, e i figli, trascinati dall'energia della nuova musica che gli adulti non possono sopportare.

Insomma, dopo lungo torpore, nel 1957 sembra che gli adolescenti italiani stiano cominciando ad accostarsi a quei nuovi ritmi che emanano ribellione da tutti i pori. In quello stesso anno escono nelle sale, inoltre, i film americani "Il re del rock'n'roll" (titolo originale "Rock, Rock, Rock") e "I frenetici" (tit. orig. "Don't knock the rock") che diffondono ulteriormente le nuove trasgressioni d'oltreoceano. Ma la nuova musica, per la maggioranza dei ragazzi italiani, resta ancora qualcosa di folcloristico, soprattutto a causa dell'incomprensibilità del linguaggio: sì, Elvis si muoverà anche bene, ma cosa biascicherà mai? Insomma, è venuto il momento di creare degli equivalenti italiani, che i ragazzi possano comprendere e in cui si possano riconoscere.

La culla del rock'n'roll in versione italianizzata è Milano: è qui che il discografico di origine svizzera Walter Guertler ha le intuizioni che procureranno a lui i denari, e ai teenager italiani nuove mode e idoli. Guertler comincia dal "soffice", creando dapprima il fenomeno dei cosiddetti "urlatori", così chiamati perchè, dicono gli adulti, invece di cantare nel microfono, urlano: il caposcuola è Tony Dallara, al secolo Antonio Lardera, che imita alla perfezione il singhiozzo di Tony Williams, la voce dei Platters, e che raggiunge uno strepitoso successo tra il 1957 e il '58 con la canzone "Come prima". La maggior parte degli adolescenti scopre la novità rappresentata dagli "urlatori" guardando alla televisione il programma "Il Musichiere", presentato da Mario Riva. E così si affeziona anche ad altri personaggi quali Fred Buscaglione, Peppino di Capri, e i cosiddetti "urlatori melodici", come Joe Sentieri e Betty Curtis.

Il rock'n'roll vero, però, quello scatenato, è un'altra cosa. E Guertler, che è un tipo che tiene sempre drizzate le orecchie, è in prima fila al Palaghiaccio di Milano il 18 maggio 1957, ad assistere al "Primo Festival Nazionale del Rock and Roll". L'evento ha luogo in un delirio di giovani "truccati da giovani", come commenta il giornalista Giorgio Bocca.; per la prima volta nel nostro Paese si assiste allo spettacolo di teenagers vestiti come James Dean e Natalie Wood, urlanti e strepitanti, che lanciano in aria camicette e bottiglie di coca-cola e demoliscono le sedie al suono della nuova musica. Insomma, si vestono da "ribelli" e si comportano da "ribelli": il teenager italiano, in senso moderno, forse nasce proprio quel giorno, in mezzo a quel vocìo, a quella calca.

E mentre lo storico parto ha luogo, sul palco si sfidano due interpreti, anch'essi adolescenti come il loro pubblico. Di loro si sentirà parlare a lungo negli anni futuri: uno è alto, allampanato, quasi timido; si chiama Giorgio Gabershik, ma ha accorciato il suo nome in Gaber per motivi artistici. Canta pacatamente una canzone dal titolo "Ciao ti dirò", e ottiene dal pubblico un responso altrettanto pacato. Il suo concorrente è un diciannovenne ribelle e sfrontato di origine pugliese chiamato Adriano Celentano; somiglia vagamente al comico Jerry Lewis, e, come asserisce lo scrittore Umberto Simonetta, aggredisce la canzone, la stessa di Gaber, "con la furia di un samurai", nel tentativo di emulare il suo idolo Elvis Presley. Il pubblico è ai suoi piedi: Celentano vince a mani basse la competizione, ed esce dal Palaghiaccio in trionfo, circondato da centinaia di ragazzine in estasi, come nella migliore tradizione "americana": è lui il "re del rock'n'roll" italiano. Guertler non se lo fa scappare e pochi giorni dopo gli offre un contratto discografico. Dopo due dischi andati male, il successo arride finalmente al giovane rocker nell'estate del '58, con un rock'n'roll scatenato (e urlato più che cantato): "Il tuo bacio è come un rock". Seguiranno altri successi come "I ragazzi del juke-box" e "Ventiquattromila baci".  

A Celentano seguiranno altri rocker, come Ghigo, Little Tony, Ricky Gianco e la stessa Mina, ma quello che in seguito sarà conosciuto come "il molleggiato" è il primo a diffondere, nel nostro Paese, il rock'n'roll: traduce, non proprio letteralmente, i testi delle canzoni americane più in voga e le adatta all'ambiente italico. D'altro canto, Celentano vanta un passato da teenager "americano" senza macchia: cresciuto in un tipico quartiere "povero" di Milano, aveva passato l'adolescenza con gli amici al bar sotto casa, tutto il tempo davanti al juke-box cercando di emulare le gesta e i suoni di Elvis e di Little Richard. Un vero ribelle in maglietta e blue-jeans, insomma; e con il tempo, Celentano non si fa pregare per amplificare quegli atteggiamenti irriverenti e irrispettosi che lo fanno additare a "ribelle" da parte degli adulti e lo fanno essere amato dal suo pubblico: come quando nel '59 si presenta a Sanremo dando le spalle al pubblico, prima di dar vita a una scatenata versione di "Ventiquattromila baci". Come il suo mito Elvis Presley aveva fatto prima di lui, anche Celentano arriva sul grande schermo, per la gioia dei suoi fans: sono del 1959 "I ragazzi del juke-box" e "Urlatori alla sbarra", entrambi del regista L. Fulci; è del 1961 "Io bacio...tu baci" (distribuito anche con il titolo "Il Supermolleggiato") di P. Vivarelli.

Affascina di Adriano, inoltre, il fatto che sia a capo di un gruppo di coetanei, accomunati dallo stesso entusiasmo, dalla stessa passione per la musica e dal successo: il Clan di Celentano evoca, nei ragazzi che lo seguono, immagini simpatiche di allegri gruppi di amici. Molti giovani, riuniti in compagnia, si divertono ad emulare i loro idoli e a creare gruppi, comitive e ruoli, a imitazione del gruppo di affiatati amici del Clan: Adriano, il "capo" riconosciuto della banda che punisce le infrazioni alle regole del sodalizio con multe severe; Don Backy, il "delfino", commilitone di Adriano e cantante di successo con brani quali "Ho rimasto solo" e "Voglio dormire"; Gino Santercole, il "pessimista", nipote di Celentano e specializzato nello scrivere canzoni dai titoli tristissimi quali "Nessuno crede in me" e "Sono un fallito"; Mickey Del Prete, "l'anziano", anche se di anni ne ha solo 29, che scrive quasi tutte le canzoni del capo Adriano; Detto Mariano, l'arrangiatore, colui che manipola i motivi curandone la versione definitiva. E poi c'è ovviamente la ragazza del Clan incarnata, fino al 1967, da Milena Cantù. Si può dire che il successo di Adriano nel mondo adolescenziale precipiti definitivamente proprio quando si sfascia il Clan, con la decisione del molleggiato di mollare Milena a beneficio di Claudia Mori, benvoluta da un pubblico adulto ma certo non una beniamina degli adolescenti.

Comunque, in questo scorcio finale degli anni cinquanta e nei primi sessanta il successo di Celentano e del rock'n'roll tra i teenagers "americani" è ancora indiscusso e inattaccabile, anche se l'americanizzazione della nostra gioventù subisce anche gli inevitabili sfottò da parte del mondo del cinema, del cabaret e della canzone tradizionale. La presa in giro più memorabile è costituita dal pezzo "Tu vuò fà l'americano" del jazzofilo napoletano Renato Carosone, la storia in musica di un "guaglione" napoletano che si atteggia a "duro", gioca a baseball, balla il rock'n'roll, ma poi, per comprare un pacchetto di sigarette americane, è costretto a chiedere i soldi alla mamma. I nostri teenagers ascoltano, abbozzano un sorrisetto di circostanza, ma poi, imperterriti, tornano ad inseguire il loro sogno a stelle e strisce.


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